Prospettive assistenziali, n. 151, luglio - settembre 2005
QUAL È OGGI IL RUOLO ASSEGNATO DALLE
ISTITUZIONI AI SERVIZI SOCIALI?
Francesco
Santanera
Nel corposo inserto “Quanto è
sociale il lavoro dei
servizi?” (1), Franca Olivetti Manoukian
osserva che «i servizi, nati per
promuovere cambiamenti nella società e nei rapporti sociali, rischiano oggi di
essere schiacciati dalle trasformazioni del contesto più generale».
Secondo l’Autrice «le pressioni a cui oggi
sono sottoposti i servizi hanno il volto minaccioso dell’assedio» ed
ipotizza che «alla base di questa sensazione,
non vi sia solo un oggettivo aumento di richieste di aiuto, riconducibili in
parte alla fragilizzazione della nostra società, in
parte a un innalzamento delle attese di benessere dei cittadini, in parte
ancora a una contrazione degli investimenti destinati al “sociale”», ma sia
altresì correlato al fatto che «ci si
sente assediati quando ci si muove dentro una rappresentazione di sé e del
proprio lavoro che fa credere che tocchi a noi “risolvere” i problemi e
“risolverli” al meglio, in modo tecnicamente ineccepibile e che possiamo farlo
da soli».
I principi ispiratori degli anni ’70
Concordo con Franca Olivetti Manoukian confermando
che, fra le idee forza perseguite dal movimento di contestazione degli anni
’70, era stato messo al primo posto il riconoscimento a tutti i cittadini,
compresi i soggetti deboli e le persone non in grado di autodifendersi,
del «diritto a una vita dignitosa» e
che in quel periodo era «vigorosamente
richiesto un intervento attivo dello Stato e degli enti locali in questo campo,
in un’ottica che sia sempre meno di rimedio e di tamponamento delle
contraddizioni create dal sistema produttivo e sempre più di prevenzione e di
modificazione delle condizioni di vita e di lavoro».
Di conseguenza, per la
realizzazione del diritto di tutti i cittadini a una
vita dignitosa, veniva richiesto che i servizi fondamentali fossero garantiti
dal settore pubblico «perché è questa –
come ricorda la Manoukian – la migliore garanzia che siano effettivamente aperti a tutti anche nel
senso che siano rispondenti ai bisogni della comunità locale e da questa
gestiti in modo trasparente e non verticistico» (2).
L’integrazione dei servizi sanitari e sociali: non era prevista dai
movimenti di base degli anni ’70
Non mi risulta, invece, che fra
le idee forza dei movimenti di base degli anni ’70 vi
fosse, come sostiene l’Autrice nell’inserto in oggetto
«l’integrazione tra servizi sociali e
sanitari».
Al riguardo, fra le iniziative
più importanti di quel periodo ricordo l’istituzione
da parte del ministero della
sanità, con decreto del 21 gennaio 1970, di un apposito Comitato di studio con
l’incarico di formulare indicazioni e proposte in ordine ai problemi del
collegamento dei servizi sociali di base con i servizi sanitari, in previsione
dell’istituzione del servizio
sanitario nazionale e delle Unità sanitarie locali (3).
Nel pre-documento
elaborato dal suddetto Comitato, veniva affermato che
le esigenze delle persone e delle famiglie riguardano «sussistenza, lavoro, formazione, ricreazione»; era, inoltre,
sottolineata la necessità del «riconoscimento
di talune esigenze per un livello di vita civile, come diritti soggettivi
inalienabili (casa, servizi sociali, attrezzature sanitarie ed educative,
attrezzature culturali, ricreative e sportive, verde attrezzato, ecc.)».
L’accento era messo sui «diritti oggettivi e inalienabili» e
nessun riferimento veniva fatto all’integrazione fra i
servizi sociali e sanitari. poiché
nello stesso documento erano previsti “come
modello di una rete di servizi a livello locale” i seguenti raggruppamenti:
«A - Gruppo dei servizi
sociali di base (…); B - Gruppo dei
servizi sanitari di base (…); C - Gruppo dei servizi della scuola
dell’obbligo (…); D - Gruppo dei
servizi per la maternità e l’infanzia (…); E - Gruppo dei servizi per i
disadattati e gli handicappati», risulta evidente che le proposte avanzate
riguardavano competenze distinte (ma non separate) per i servizi sanitari e per
quelli sociali (4).
Inoltre, è noto che in quel
periodo, in particolare a seguito della lodevole attività culturale della
Fondazione Zancan, le richieste erano
rivolte alla costituzione delle unità locali dei servizi sanitari e sociali (e
non delle unità locali socio-sanitarie).
Anche nelle leggi approvate a
livello nazionale e regionale, nonché nelle proposte
di legge di iniziativa parlamentare o popolare presentate in quegli anni, non
si fa mai cenno all’integrazione dei servizi sociali e sanitari, ma solamente
alla necessità di una loro attiva collaborazione. Veniva, dunque, confermata la
specificità delle funzioni dei due settori di intervento,
come, d’altra parte, prevede la Costituzione all’articolo 32 concernente il
diritto di tutti i cittadini alle cure sanitarie e all’articolo 38 riguardante
il mantenimento e l’assistenza sociale esclusivamente nei riguardi degli
inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere.
Le cause dell’attuale “assedio”
Franca Olivetti Manoukian attribuisce la responsabilità dell’attuale
situazione di “assedio” alla mancata individuazione di «assetti organizzativi capaci di tradurre operativamente le idee guida
alla base del progetto sociale e politico dei servizi». Si tratta di una interpretazione non convincente. Infatti, sono numerosi
gli elementi oggettivi che consentono di affermare che, a
partire dalla fine degli anni ’70, il principio concernente il «diritto a una vita dignitosa» di tutti
i cittadini, compresi quelli in gravi difficoltà, è stato progressivamente
disatteso a causa di problemi e comportamenti squisitamente politici.
In primo luogo, vi è stato un
notevole cambiamento, in certi casi un vero e proprio ribaltamento, delle
posizioni dei partiti, compresi quelli di sinistra, nei confronti
dell’emarginazione sociale (5).
La più volte
annunciata
riforma legislativa del settore assistenziale è stata sempre rinviata, ma nello
stesso tempo è stata gradualmente attribuita a detto settore la gestione, fino
a quel momento assunta dalla sanità, di coloro che non erano in grado di
autodifendersi, in particolare degli anziani cronici non autosufficienti, di una
parte dei pazienti psichiatrici meno autonomi, dei malati di alzheimer e dei soggetti colpiti da
altre forme di demenza senile.
Infatti, l’approvazione di una
legge avrebbe evidenziato le vere finalità assegnate al settore assistenziale nel periodo in cui erano ancora attivi, e con
un certo seguito, alcuni gruppi di base schierati contro l’emarginazione
sociale dei più deboli. Al riguardo va, altresì, tenuto presente che il
trasferimento dei sopra citati nuovi utenti all’assistenza era operato in violazione
alle leggi allora vigenti che imponevano al settore sanitario la competenza ad
intervenire nei confronti di tutti i soggetti malati.
Consolidatosi il processo di esclusione sociale, i tempi sono diventati maturi per
l’approvazione della legge 328/2000 di riforma dell’assistenza e dei servizi
sociali (6), che ha confermato il trasferimento dei vecchi malati
dall’esclusiva competenza del Servizio sanitario nazionale al settore
cosiddetto socio-sanitario, caratterizzato dall’assenza di diritti, dalla creazione
delle liste d’attesa per l’accesso alle Rsa e dall’attribuzione di oneri
economici ai ricoverati presso dette strutture e ai loro congiunti.
Oltre alla mancata riforma
legislativa dell’assistenza ed alle funzioni ad essa
assegnate, occorre ricordare, fra i fatti più significativi, il decreto legge
n. 113 del 29 marzo 1979, diretto a consentire il trasferimento ai privati
delle Ipab (Istituzioni pubbliche di assistenza e
beneficenza) e la sentenza della Corte costituzionale del 17 luglio 1981,
depositata in Cancelleria il 30 dello stesso mese, che ha dichiarato
illegittimo il trasferimento ai Comuni delle Ipab infraregionali e dei relativi patrimoni. I due
provvedimenti hanno aperto la strada alla cessione, a titolo assolutamente
gratuito, ai privati dei beni dei suddetti enti, percorso che si è concluso con l’approvazione della legge 328/2000 che ha
sancito la sottrazione all’esclusiva destinazione dei poveri di patrimoni del
valore di 110-140 mila miliardi delle ex lire.
In secondo luogo, a partire dalla fine degli anni ’70, la partecipazione delle
forze sociali alla determinazione delle scelte politiche e operative volte a
garantire a tutti i cittadini il «diritto
a una vita dignitosa» prima è stata condizionata e poi soffocata dalle
iniziative di cogestione dei servizi.
Purtroppo, la stragrande
maggioranza degli esponenti dei gruppi di base si è lasciato attrarre dalle
promesse fatte dai partiti di maggioranza e di minoranza e si è insediato nei
cosiddetti organi collegiali della scuola e nelle analoghe strutture di
cogestione delle Asl e dei servizi sociali (asili
nido, consultori, ecc.), nei comitati di quartiere e in altre
organismi, ritenendo molto ingenuamente che, mediante il loro
inserimento in queste strutture, anche se non dotate di alcun potere
decisionale, fosse possibile assicurare il miglioramento delle condizioni di
vita dei soggetti deboli. Ne è derivata la caduta
verticale delle iniziative rivolte alla promozione del «diritto a una vita dignitosa» dei soggetti deboli.
Sono cessate le attività di denuncia delle carenze
sociali (mancanza o insufficienza delle risorse economiche dei singoli e dei
nuclei familiari, violenze perpetrate nelle strutture di ricovero: si vedano i
volumi La fabbrica della follia -
Relazione sul manicomio di Torino e Il
Paese dei celestini - Istituti di assistenza sotto processo, pubblicati da Einaudi nel 1971 e nel 1973, non vengono più avanzate
proposte alternative all’emarginazione; i sindacati Cgil,
Cisl e Uil sottoscrivono il
documento del Consiglio sanitario nazionale dell’8 giugno 1984 (7) finalizzato
ad escludere i vecchi malati colpiti da patologie invalidanti e da non
autosufficienza dalla competenza esclusiva del Servizio sanitario nazionale e
si ritirano dalla loro partecipazione attiva e spesso propulsiva alle
iniziative dei movimenti di base e si chiudono nella difesa corporativa del
personale dei servizi sanitari e sociali al punto che il Segretario generale
della Cgil, Sergio Cofferati
nella lettera inviata al Csa del 30 aprile 1997
scrive «essere anziani cronici non è una
malattia»! Pertanto si passa dal controllo di base (difficile ma efficace)
e dall’indispensabile autonomia dei gruppi di pressione alla loro dipendenza
culturale e operativa dai partiti e dalle istituzioni. Ulteriore
conseguenza negativa è stata ed è la sudditanza nei confronti delle istituzioni
di gran parte del volontariato che si limita quasi sempre e da molti anni a
tentare (senza mai riuscirvi in misura accettabile) di coprire le più vistose
carenze dei servizi riguardanti la sanità e l’assistenza.
L’uso strumentale da parte delle istituzioni dell’integrazione
socio-sanitaria
Ottenuta la riduzione e, in moltissime situazioni, l’annullamento delle
richieste di cambiamento promosse dai gruppi di base,
le forze politiche e le istituzioni raggiungono ben presto l’intesa per
convalidare l’esclusione sociale, in parte già in atto, degli anziani colpiti
da patologie invalidanti e da non autosufficienza. Così operando, viene garantita la riattivazione delle strutture
residenziali per i minori rimaste senza utenti (i posti resi liberi erano oltre
100 mila) a seguito dell’entrata in vigore della legge 431/1967 sull’adozione.
In particolare la conferma del nuovo corso
dell’emarginazione è fornita dal parere espresso all’unanimità dal Consiglio sanitario
nazionale in data 8 giugno 1984 in cui, sulla base delle iniziative assunte da
alcune Regioni (8), viene affermato quanto segue: «considerato
lo stretto intreccio della presenza sanitaria e socio-assistenziale anche nelle
strutture protette appare necessario che, nel transitorio, sia per
l’inadeguatezza dei servizi sanitari sul territorio, che non possono farsi
carico in maniera completa del problema, sia perché storicamente il non
autosufficiente è stato ricoverato e assistito in ambito ospedaliero e
paraospedaliero, la spesa relativa al ricovero in casa
protetta o struttura similare di persona non autosufficiente carichi
parzialmente (fino al massimo del 50%) sul fondo sanitario nazionale, ai fini
di determinare la correlativa riduzione della spesa ospedaliera» (9).
Dunque, nonostante che «storicamente
il non autosufficiente è stato ricoverato e assistito in ambito ospedaliero e
paraospedaliero», come d’altronde stabilivano le leggi allora vigenti
(692/1955, 386/1976, 833/1978) solo «ai
fini di determinare la correlativa riduzione della spesa ospedaliera» viene proposto di attribuire ai ricoverati oneri economici
fino al 50% della «spesa relativa al
ricovero in casa protetta o struttura similare» (10).
Anche se un provvedimento amministrativo non può, com’è evidente,
modificare le leggi in vigore, l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri,
Bettino Craxi, forte del consenso manifestato dalle
organizzazioni che avevano sottoscritto il citato documento del Consiglio
sanitario nazionale, dà attuazione alle richieste dello stesso Consiglio
sanitario nazionale emanando in data 8 agosto 1985 un atto di
indirizzo e di coordinamento concernente le «attività di rilievo sanitario connesse con quelle
socio-assistenziali», le cui principali conseguenze sono:
- trasferimento dalla competenza sanitaria (caratterizzata dall’esigibilità
e gratuità del diritto alle cure sanitarie) a quella
socio-assistenziale (fondata sulla discrezionalità e onerosità delle
prestazioni) degli interventi rivolti agli anziani malati cronici non
autosufficienti ed ai dementi senili;
- avvio delle dimissioni dei suddetti soggetti da ospedali e case di cura
private convenzionate anche nei casi in cui necessitino
ancora di cure sanitarie;
- attribuzione degli oneri economici, spesso
gravosi, agli stessi pazienti ed ai loro congiunti (11).
Iniziano i guai per gli utenti ed
i loro congiunti, nonché l’assedio nei confronti degli
operatori sociali
A questo punto, diventa inevitabile che i soggetti, coinvolti nelle cure
dei loro congiunti malati e non autosufficienti, si rivolgano al personale dei
servizi sanitari e socio-assistenziali e attribuiscano loro una parte delle
responsabilità per quanto concerne le dimissioni spesso selvagge da ospedali e
da case di cure private convenzionate, le lunghe attese
per il ricovero presso le Rsa ed i pesanti oneri economici che devono
sopportare. Questa situazione si verifica e si acuisce
(vedi la creazione di comitati di tutela da parte dei parenti dei vecchi malati
cronici) anche perché, salvo casi del tutto isolati, gli addetti ai servizi
sanitari e socio-assistenziali accettano o subiscono passivamente le
disposizioni che provocano le negative conseguenze su una consistente parte dei
cittadini, derivanti dalle suddette prassi, sviluppatesi con l’approvazione del
decreto Craxi dell’8 agosto 1985.
Da osservare che una quota
rilevante dei costi delle prestazioni domiciliari e residenziali fornite agli
anziani cronici non autosufficienti ed ai dementi senili sono assunte senza
alcuna riserva o protesta da parte degli enti locali, nonostante che le norme
del sopra citato decreto Craxi assegnino nessuna
risorsa economica ai Comuni singoli o associati: l’impegno politico per
l’emarginazione dei vecchi malati cronici è tale da non tenere in alcuna
considerazione la pur rilevante questione finanziaria!
La violazione delle disposizioni
legislative in vigore è provata in modo inconfutabile dal fatto che, con il
semplice invio di due sole lettere raccomandate A/R, il settore sanitario è
stato costretto e lo è tuttora a garantire le cure alle persone colpite da
patologie invalidanti e da non autosufficienza (12).
In sostanza, soprattutto a
seguito del decreto Craxi, si è verificata una
rottura fra le attese dei cittadini concernenti il loro «diritto a una vita dignitosa» e le
decisioni prese dal Governo, senza alcuna opposizione da parte di Regioni,
Comuni, Sindacati, ecc., mediante il citato decreto amministrativo.
Si tratta di una frattura, a mio
avviso, nociva sia per gli utenti dei servizi socio-assistenziali e sanitari
che per i relativi operatori.
Per una alleanza fra operatori sociali e utenti dei servizi
In primo luogo occorre ribadire ancora una volta che è assolutamente ingiusto,
nonché spesso controproducente, attribuire al personale dei servizi (di
qualsiasi settore) responsabilità che competono alle istituzioni. Invece di
continuare a individuare i propri antagonisti negli
operatori, i cittadini e soprattutto le organizzazioni di tutela ed i gruppi di
volontariato dovrebbero pretendere dalle istituzioni (Ministeri, Regioni,
Comuni, Asl, Province, ecc.) l’adozione dei
provvedimenti, occorrendo anche parziali, rivolti al riconoscimento effettivo
delle esigenze fondamentali di vita e, quindi, all’attuazione dei conseguenti
diritti esigibili.
Ritengo, inoltre, che gli
operatori, soprattutto per quanto riguarda il settore anziani,
dovrebbero agire, nei limiti consentiti dai loro enti di appartenenza, per il
miglioramento delle prestazioni, tenendo in attenta considerazione la
possibilità che anche essi stessi ed i loro congiunti ne diventino i
beneficiari.
Mentre gli spazi di azione dei singoli dipendenti sono in genere molto
ristretti (le condizioni di lavoro precario rappresentano un altro notevole
ostacolo), posseggono ampie capacità di intervento le organizzazioni
(sindacati, associazioni di categoria, ordini professionali, ecc.). Non si tratta, soprattutto nella fase iniziale, di stabilire fra le parti
in causa (organismi rappresentativi degli operatori e dei cittadini) accordi
di tipo generale. A mio avviso, occorre incominciare ad accertare quali sono
gli aspetti specifici di comune interesse e concordare quindi le iniziative
settoriali, da assumere congiuntamente.
Conclusioni
Giustamente Franca Olivetti Manoukian afferma che, fra i «livelli su cui diventa importante cercare di costruire convergenze», molto
importanti sono «gli
orientamenti valoriali con cui la società governa le proprie difficoltà» (13).
Concordo, inoltre, sulla
necessità di «riaprire a livello di
società un discorso sul perché è
importante far fronte ai problemi riconoscendoli come problemi
sociali e non come problemi individuali cui ciascuno deve far fronte secondo le
proprie risorse e capacità».
È, altresì, corretta
l’affermazione della Manoukian secondo cui «in una società frammentata come la nostra
il passaggio dai bisogni ai diritti è difficile».
È molto vero che si tratta di un
percorso arduo sia per gli operatori che per gli
utenti, ma, a mio avviso, è questa l’unica strada valida per garantire a tutti
i cittadini, in particolare a quelli più deboli «il diritto a una vita dignitosa».
Gli esempi di questi ultimi anni
sono significativi. Ad esempio:
- il riconoscimento del diritto
alla famiglia dei bambini privi di sostegno morale e materiale da parte dei
loro genitori e degli altri congiunti, sancito dalle leggi 431/1967 e 184/1983,
ha consentito finora l’inserimento presso nuclei
adottivi, e quindi nel vivo del contesto sociale (14), di oltre centomila
fanciulli, prima destinati a trascorrere parte della loro vita in anonimi
istituti. Dai 310 mila minori istituzionalizzati nel 1960 si è giunti, anche
per il calo delle nascite, agli attuali 20-25 mila;
- l’attuazione del diritto delle
persone con handicap all’inserimento nelle normali strutture prescolastiche,
scolastiche e formative ha determinato non solo migliori condizioni di vita dei
soggetti interessati e dei loro congiunti, ma anche una riduzione notevole dei
ricoveri in istituti di assistenza;
- l’estensione a tutti i
cittadini del diritto alle cure sanitarie gratuite (salvo ticket) ha posto il nostro Paese fra quelli la cui durata della vita
è maggiore;
- il diritto alla pensione
sociale, pur tenendo conto del suo limitato importo, ha ridotto in misura
considerevole le situazioni di miseria economica;
- il riconoscimento del diritto
alla riservatezza dei dati personali ha eliminato, quale esempio a mio avviso
eloquente, le discriminazioni a cui erano sottoposte le persone riconosciute
solo da un genitore, i figli di ignoti ed i bambini
esposti. Com’è noto nei casi di non riconoscimento da parte del o dei genitori
sulla carta d’identità, sulle pagelle scolastiche, sui libretti di lavoro,
sulle patenti e sugli altri documenti compariva la scritta “figlio di N.N.”.
Inoltre, su tutti i documenti dei bambini esposti, di cui non si conoscevano
non solo i genitori, ma nemmeno il luogo e la data di nascita, era, altresì,
riportato quanto segue: “nato a…. ignorasi
oppure trovato in data… presumibilmente nel mese di… dell’anno…” .
* * *
Il Csa
e le organizzazioni che ne fanno parte sostengono da anni la necessità di una intesa con le organizzazioni degli operatori dei servizi
sanitari e socio-assistenziali. Mi auguro, pertanto, che le difficoltà presenti
possano essere uno stimolo all’incontro e alla verifica delle concrete
possibilità di azioni unitarie, condotte
nell’interesse delle due parti in causa, e quindi di tutti i cittadini.
(1) Cfr. animazione sociale, n.
10, 2004.
(2) Com’è ovvio, solo il settore pubblico (Stato,
Regioni, Comuni, Province, Asl, ecc,) può garantire
diritti ai cittadini. Ottenuto il riconoscimento del diritto a questa o quella
prestazione, a questo o quel servizio, l’attuazione degli interventi può essere
affidata a organizzazioni private, ferme restando le
responsabilità dello stesso settore pubblico nei casi di inadempienza dell’ente
gestore.
(3) Cfr. gli articoli “La Commissione del Ministero della sanità sui
servizi sociali” e “Pre-documento della Commissione
del Ministero della sanità sui servizi sociali”, Prospettive assistenziali, n. 10, 1970.
(4) Nel documento in oggetto viene altresì precisato
che la rete dei servizi sociali, sanitari, formativi ricreativi deve essere
collocata «nella prospettata Unità locale
dei servizi».
(5) Cfr. l’articolo “Inaccettabile l’attuale riorganizzazione del
settore assistenziale”, Prospettive
assistenziali, n. 48, 1979.
(6) Cfr. Maria Grazia Breda, Donata Micucci e Francesco Santanera, La riforma dell’assistenza e dei servizi
sociali. Analisi della
legge 328/2000 e proposte
attuative, Utet Libreria.
(7) Tra
coloro che hanno approvato il documento segnaliamo: gli Assessori regionali
alla sanità o i loro delegati, i rappresentanti dei Ministeri del tesoro, del
lavoro e dell’istruzione, del Cnel (Consiglio
nazionale dell’economia e del lavoro), del Cnr
(Consiglio nazionale delle ricerche), dell’Istituto superiore di sanità, dei
sindacati Cgil, Cisl e Uil, delle organizzazioni degli artigiani, dei
commercianti, dei coltivatori diretti, nonché il sociologo Achille Ardigò.
(8) Si
vedano, ad esempio, le leggi delle Regioni Emilia Romagna n. 30/1979 e Veneto n. 45/1979, concernenti i
finanziamenti erogati a soggetti pubblici e soprattutto privati per la
creazione di strutture di ricovero assistenziale di anziani non autosufficienti.
(9) A quanto mi risulta è la prima volta che in
documento ufficiale si fa riferimento «allo
stretto intreccio della presenza sanitaria e socio-assistenziale»,
principio preso in seguito a fondamento dell’integrazione dei servizi sanitari
e socio-assistenziali (o sociali). Dalla legge 730/1983 (articolo 30) sono state
inventate le «attività di rilievo
sanitario connesse con quelle assistenziali».
(10) Il documento del Consiglio sanitario nazionale
sui rapporti fra sanità e assistenza è stato pubblicato sul numero 68, 1984 di Prospettive assistenziali.
(11) Nel documento “Legge quadro per la realizzazione
del sistema integrato di interventi e servizi sociali” della Presidenza del consiglio dei Ministri, Ufficio del
Ministro per la solidarietà sociale, Roma, ottobre 2000, viene affermato che «nel corso del 1999, 2 milioni di famiglie
italiane sono scese sotto la soglia della povertà a fronte del carico di spesa
sostenuta per la “cura” di un componente affetto da una malattia cronica».
(12) Si vedano, al riguardo, le iniziative promosse
dal Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti, avviate nel 1978 dal
Coordinamento sanità e assistenza tra i movimenti di base e dal 1° novembre
2003 assunte dalla Fondazione promozione sociale. Solamente a
partire dall’entrata in vigore dell’articolo 54 della legge 289/2002, è
previsto da una disposizione, approvata dal Parlamento, l’obbligo di versare la
quota alberghiera.
(13) L’Autrice si rivolge solo agli operatori dei
servizi sanitari e sociali. A mio avviso, è altresì importante la
partecipazione (paritetica) delle forze sociali che rappresentano l’utenza.
(14) Altra positiva conseguenza delle leggi 431/1967
e 184/1983 è stato l’avvio e lo sviluppo degli interventi di aiuto ai nuclei
familiari in difficoltà, diretti anche ad evitare il ricovero dei minori.
www.fondazionepromozionesociale.it