Prospettive assistenziali, n. 151, luglio - settembre 2005

 

QUAL È OGGI IL RUOLO ASSEGNATO DALLE ISTITUZIONI AI SERVIZI SOCIALI?

Francesco Santanera

 

 

Nel corposo inserto “Quanto è sociale il lavoro  dei servizi?” (1), Franca Olivetti Manoukian osserva che «i servizi, nati per promuovere cambiamenti nella società e nei rapporti sociali, rischiano oggi di essere schiacciati dalle trasformazioni del contesto più generale».

Secondo l’Autrice «le pressioni a cui oggi sono sottoposti i servizi hanno il volto minaccioso dell’assedio» ed ipotizza che «alla base di questa sensazione, non vi sia solo un oggettivo aumento di richieste di aiuto, riconducibili in parte alla fragilizzazione della nostra società, in parte a un innalzamento delle attese di benessere dei cittadini, in parte ancora a una contrazione degli investimenti destinati al “sociale”», ma sia altresì correlato al fatto che «ci si sente assediati quando ci si muove dentro una rappresentazione di sé e del proprio lavoro che fa credere che tocchi a noi “risolvere” i problemi e “risolverli” al meglio, in modo tecnicamente ineccepibile e che possiamo farlo da soli».

 

I principi ispiratori degli anni ’70

Concordo con Franca Olivetti Manoukian confermando che, fra le idee forza perseguite dal movimento di contestazione degli anni ’70, era stato messo al primo posto il riconoscimento a tutti i cittadini, compresi i soggetti deboli e le persone non in grado di autodifendersi, del «diritto a una vita dignitosa» e che in quel periodo era «vigorosamente richiesto un intervento attivo dello Stato e degli enti locali in questo campo, in un’ottica che sia sempre meno di rimedio e di tamponamento delle contraddizioni create dal sistema produttivo e sempre più di prevenzione e di modificazione delle condizioni di vita e di lavoro».

Di conseguenza, per la realizzazione del diritto di tutti i cittadini a una vita dignitosa, veniva richiesto che i servizi fondamentali fossero garantiti dal settore pubblico «perché è questa – come ricorda la Manoukianla migliore garanzia che siano effettivamente aperti a tutti anche nel senso che siano rispondenti ai bisogni della comunità locale e da questa gestiti in modo trasparente e non verticistico» (2).

 

L’integrazione dei servizi sanitari e sociali: non era prevista dai movimenti di base degli anni ’70

Non mi risulta, invece, che fra le idee forza dei movimenti di base degli anni ’70 vi fosse, come sostiene l’Autrice nell’inserto in oggetto «l’integrazione tra servizi sociali e sanitari».

Al riguardo, fra le iniziative più importanti di quel periodo ricordo l’istituzione da parte del ministero della sanità, con decreto del 21 gennaio 1970, di un apposito Comitato di studio con l’incarico di formulare indicazioni e proposte in ordine ai problemi del collegamento dei servizi sociali di base con i servizi sanitari, in previsione dell’istituzione del servizio sanitario nazionale e delle Unità sanitarie locali (3).

Nel pre-documento elaborato dal suddetto Comitato, veniva affermato che le esigenze delle persone e delle famiglie riguardano «sussistenza, lavoro, formazione, ricreazione»; era, inoltre, sottolineata la necessità del «riconoscimento di talune esigenze per un livello di vita civile, come diritti soggettivi inalienabili (casa, servizi sociali, attrezzature sanitarie ed educative, attrezzature culturali, ricreative e sportive, verde attrezzato, ecc.)».

L’accento era messo sui «diritti oggettivi e inalienabili» e nessun riferimento veniva fatto all’integrazione fra i servizi sociali e sanitari. poiché nello stesso documento erano previsti “come modello di una rete di servizi a livello locale” i seguenti raggruppamenti: «A - Gruppo dei servizi sociali di base (…); B - Gruppo dei servizi sanitari di base (); C - Gruppo dei servizi della scuola dell’obbligo (…); D - Gruppo dei servizi per la maternità e l’infanzia (…); E - Gruppo dei servizi per i disadattati e gli handicappati», risulta evidente che le proposte avanzate riguardavano competenze distinte (ma non separate) per i servizi sanitari e per quelli sociali (4).

Inoltre, è noto che in quel periodo, in particolare a seguito della lodevole attività culturale della Fondazione Zancan, le richieste erano rivolte alla costituzione delle unità locali dei servizi sanitari e sociali (e non delle unità locali socio-sanitarie).

Anche nelle leggi approvate a livello nazionale e regionale, nonché nelle proposte di legge di iniziativa parlamentare o popolare presentate in quegli anni, non si fa mai cenno all’integrazione dei servizi sociali e sanitari, ma solamente alla necessità di una loro attiva collaborazione. Veniva, dunque, confermata la specificità delle funzioni dei due settori di intervento, come, d’altra parte, prevede la Costituzione all’articolo 32 concernente il diritto di tutti i cittadini alle cure sanitarie e all’articolo 38 riguardante il mantenimento e l’assistenza sociale esclusivamente nei riguardi degli inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere.

 

Le cause dell’attuale “assedio”

Franca Olivetti Manoukian attribuisce la responsabilità dell’attuale situazione di “assedio” alla mancata individuazione di «assetti organizzativi capaci di tradurre operativamente le idee guida alla base del progetto sociale e politico dei servizi». Si tratta di una interpretazione non convincente. Infatti, sono numerosi gli elementi oggettivi che consentono di affermare che, a partire dalla fine degli anni ’70, il principio concernente il «diritto a una vita dignitosa» di tutti i cittadini, compresi quelli in gravi difficoltà, è stato progressivamente disatteso a causa di problemi e comportamenti squisitamente politici.

In primo luogo, vi è stato un notevole cambiamento, in certi casi un vero e proprio ribaltamento, delle posizioni dei partiti, compresi quelli di sinistra, nei confronti dell’emarginazione sociale (5).

La più volte annunciata riforma legislativa del settore assistenziale è stata sempre rinviata, ma nello stesso tempo è stata gradualmente attribuita a detto settore la gestione, fino a quel momento assunta dalla sanità, di coloro che non erano in grado di autodifendersi, in particolare degli anziani cronici non autosufficienti, di una parte dei pazienti psichiatrici meno autonomi, dei malati di alzheimer e dei soggetti colpiti da altre forme di demenza senile.

Infatti, l’approvazione di una legge avrebbe evidenziato le vere finalità assegnate al settore assistenziale nel periodo in cui erano ancora attivi, e con un certo seguito, alcuni gruppi di base schierati contro l’emarginazione sociale dei più deboli. Al riguardo va, altresì, tenuto presente che il trasferimento dei sopra citati nuovi utenti all’assistenza era operato in violazione alle leggi allora vigenti che imponevano al settore sanitario la competenza ad intervenire nei confronti di tutti i soggetti malati.

Consolidatosi il processo di esclusione sociale, i tempi sono diventati maturi per l’approvazione della legge 328/2000 di riforma dell’assistenza e dei servizi sociali (6), che ha confermato il trasferimento dei vecchi malati dall’esclusiva competenza del Servizio sanitario nazionale al settore cosiddetto socio-sanitario, caratterizzato dall’assenza di diritti, dalla creazione delle liste d’attesa per l’accesso alle Rsa e dall’attribuzione di oneri economici ai ricoverati presso dette strutture e ai loro congiunti.

Oltre alla mancata riforma legislativa dell’assistenza ed alle funzioni ad essa assegnate, occorre ricordare, fra i fatti più significativi, il decreto legge n. 113 del 29 marzo 1979, diretto a consentire il trasferimento ai privati delle Ipab (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) e la sentenza della Corte costituzionale del 17 luglio 1981, depositata in Cancelleria il 30 dello stesso mese, che ha dichiarato illegittimo il trasferimento ai Comuni delle Ipab infraregionali e dei relativi patrimoni. I due provvedimenti hanno aperto la strada alla cessione, a titolo assolutamente gratuito, ai privati dei beni dei suddetti enti, percorso che si è concluso con l’approvazione della legge 328/2000 che ha sancito la sottrazione all’esclusiva destinazione dei poveri di patrimoni del valore di 110-140 mila miliardi delle ex lire.

In secondo luogo, a partire dalla fine degli anni ’70, la partecipazione delle forze sociali alla determinazione delle scelte politiche e operative volte a garantire a tutti i cittadini il «diritto a una vita dignitosa» prima è stata condizionata e poi soffocata dalle iniziative di cogestione dei servizi.

Purtroppo, la stragrande maggioranza degli esponenti dei gruppi di base si è lasciato attrarre dalle promesse fatte dai partiti di maggioranza e di minoranza e si è insediato nei cosiddetti organi collegiali della scuola e nelle analoghe strutture di cogestione delle Asl e dei servizi sociali (asili nido, consultori, ecc.), nei comitati di quartiere e in altre organismi, ritenendo molto ingenuamente che, mediante il loro inserimento in queste strutture, anche se non dotate di alcun potere decisionale, fosse possibile assicurare il miglioramento delle condizioni di vita dei soggetti deboli. Ne è derivata la caduta verticale delle iniziative rivolte alla promozione del «diritto a una vita dignitosa» dei soggetti deboli.

Sono cessate le attività di denuncia delle carenze sociali (mancanza o insufficienza delle risorse economiche dei singoli e dei nuclei familiari, violenze perpetrate nelle strutture di ricovero: si vedano i volumi La fabbrica della follia - Relazione sul manicomio di Torino e Il Paese dei celestini - Istituti di assistenza sotto processo, pubblicati da Einaudi nel 1971 e nel 1973, non vengono più avanzate proposte alternative all’emarginazione; i sindacati Cgil, Cisl e Uil sottoscrivono il documento del Consiglio sanitario nazionale dell’8 giugno 1984 (7) finalizzato ad escludere i vecchi malati colpiti da patologie invalidanti e da non autosufficienza dalla competenza esclusiva del Servizio sanitario nazionale e si ritirano dalla loro partecipazione attiva e spesso propulsiva alle iniziative dei movimenti di base e si chiudono nella difesa corporativa del personale dei servizi sanitari e sociali al punto che il Segretario generale della Cgil, Sergio Cofferati nella lettera inviata al Csa del 30 aprile 1997 scrive «essere anziani cronici non è una malattia»! Pertanto si passa dal controllo di base (difficile ma efficace) e dall’indispensabile autonomia dei gruppi di pressione alla loro dipendenza culturale e operativa dai partiti e dalle istituzioni. Ulteriore conseguenza negativa è stata ed è la sudditanza nei confronti delle istituzioni di gran parte del volontariato che si limita quasi sempre e da molti anni a tentare (senza mai riuscirvi in misura accettabile) di coprire le più vistose carenze dei servizi riguardanti la sanità e l’assistenza.

 

L’uso strumentale da parte delle istituzioni dell’integrazione socio-sanitaria

Ottenuta la riduzione e, in moltissime situazioni, l’annullamento delle richieste di cambiamento promosse dai gruppi di base, le forze politiche e le istituzioni raggiungono ben presto l’intesa per convalidare l’esclusione sociale, in parte già in atto, degli anziani colpiti da patologie invalidanti e da non autosufficienza. Così operando, viene garantita la riattivazione delle strutture residenziali per i minori rimaste senza utenti (i posti resi liberi erano oltre 100 mila) a seguito dell’entrata in vigore della legge 431/1967 sull’adozione.

In particolare la conferma del nuovo corso dell’emarginazione è fornita dal parere espresso all’unanimità dal Consiglio sanitario nazionale in data 8 giugno 1984 in cui, sulla base delle iniziative assunte da alcune Regioni (8), viene affermato quanto segue: «considerato lo stretto intreccio della presenza sanitaria e socio-assistenziale anche nelle strutture protette appare necessario che, nel transitorio, sia per l’inadeguatezza dei servizi sanitari sul territorio, che non possono farsi carico in maniera completa del problema, sia perché storicamente il non autosufficiente è stato ricoverato e assistito in ambito ospedaliero e paraospedaliero, la spesa relativa al ricovero in casa protetta o struttura similare di persona non autosufficiente carichi parzialmente (fino al massimo del 50%) sul fondo sanitario nazionale, ai fini di determinare la correlativa riduzione della spesa ospedaliera» (9).

Dunque, nonostante che «storicamente il non autosufficiente è stato ricoverato e assistito in ambito ospedaliero e paraospedaliero», come d’altronde stabilivano le leggi allora vigenti (692/1955, 386/1976, 833/1978) solo «ai fini di determinare la correlativa riduzione della spesa ospedaliera» viene proposto di attribuire ai ricoverati oneri economici fino al 50% della «spesa relativa al ricovero in casa protetta o struttura similare» (10).

Anche se un provvedimento amministrativo non può, com’è evidente, modificare le leggi in vigore, l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Bettino Craxi, forte del consenso manifestato dalle organizzazioni che avevano sottoscritto il citato documento del Consiglio sanitario nazionale, dà attuazione alle richieste dello stesso Consiglio sanitario nazionale emanando in data 8 agosto 1985 un atto di indirizzo e di coordinamento concernente le «attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali», le cui principali conseguenze sono:

- trasferimento dalla competenza sanitaria (caratterizzata dall’esigibilità e gratuità del diritto alle cure sanitarie) a quella socio-assistenziale (fondata sulla discrezionalità e onerosità delle prestazioni) degli interventi rivolti agli anziani malati cronici non autosufficienti ed ai dementi senili;

- avvio delle dimissioni dei suddetti soggetti da ospedali e case di cura private convenzionate anche nei casi in cui necessitino ancora di cure sanitarie;

- attribuzione degli oneri economici, spesso gravosi, agli stessi pazienti ed ai loro congiunti (11).

 

Iniziano i guai per gli utenti ed i loro congiunti, nonché l’assedio nei confronti degli operatori sociali

A questo punto, diventa inevitabile che i soggetti, coinvolti nelle cure dei loro congiunti malati e non autosufficienti, si rivolgano al personale dei servizi sanitari e socio-assistenziali e attribuiscano loro una parte delle responsabilità per quanto concerne le dimissioni spesso selvagge da ospedali e da case di cure private convenzionate, le lunghe attese per il ricovero presso le Rsa ed i pesanti oneri economici che devono sopportare. Questa situazione si verifica e si acuisce (vedi la creazione di comitati di tutela da parte dei parenti dei vecchi malati cronici) anche perché, salvo casi del tutto isolati, gli addetti ai servizi sanitari e socio-assistenziali accettano o subiscono passivamente le disposizioni che provocano le negative conseguenze su una consistente parte dei cittadini, derivanti dalle suddette prassi, sviluppatesi con l’approvazione del decreto Craxi dell’8 agosto 1985.

Da osservare che una quota rilevante dei costi delle prestazioni domiciliari e residenziali fornite agli anziani cronici non autosufficienti ed ai dementi senili sono assunte senza alcuna riserva o protesta da parte degli enti locali, nonostante che le norme del sopra citato decreto Craxi assegnino nessuna risorsa economica ai Comuni singoli o associati: l’impegno politico per l’emarginazione dei vecchi malati cronici è tale da non tenere in alcuna considerazione la pur rilevante questione finanziaria!

La violazione delle disposizioni legislative in vigore è provata in modo inconfutabile dal fatto che, con il semplice invio di due sole lettere raccomandate A/R, il settore sanitario è stato costretto e lo è tuttora a garantire le cure alle persone colpite da patologie invalidanti e da non autosufficienza (12).

In sostanza, soprattutto a seguito del decreto Craxi, si è verificata una rottura fra le attese dei cittadini concernenti il loro «diritto a una vita dignitosa» e le decisioni prese dal Governo, senza alcuna opposizione da parte di Regioni, Comuni, Sindacati, ecc., mediante il citato decreto amministrativo.

Si tratta di una frattura, a mio avviso, nociva sia per gli utenti dei servizi socio-assistenziali e sanitari che per i relativi operatori.

 

Per una alleanza fra operatori sociali e utenti dei servizi

 

In primo luogo occorre ribadire ancora una volta che è assolutamente ingiusto, nonché spesso controproducente, attribuire al personale dei servizi (di qualsiasi settore) responsabilità che competono alle istituzioni. Invece di continuare a individuare i propri antagonisti negli operatori, i cittadini e soprattutto le organizzazioni di tutela ed i gruppi di volontariato dovrebbero pretendere dalle istituzioni (Ministeri, Regioni, Comuni, Asl, Province, ecc.) l’adozione dei provvedimenti, occorrendo anche parziali, rivolti al riconoscimento effettivo delle esigenze fondamentali di vita e, quindi, all’attuazione dei conseguenti diritti esigibili.

Ritengo, inoltre, che gli operatori, soprattutto per quanto riguarda il settore anziani, dovrebbero agire, nei limiti consentiti dai loro enti di appartenenza, per il miglioramento delle prestazioni, tenendo in attenta considerazione la possibilità che anche essi stessi ed i loro congiunti ne diventino i beneficiari.

Mentre gli spazi di azione dei singoli dipendenti sono in genere molto ristretti (le condizioni di lavoro precario rappresentano un altro notevole ostacolo), posseggono ampie capacità di intervento le organizzazioni (sindacati, associazioni di categoria, ordini professionali, ecc.). Non si tratta, soprattutto nella fase iniziale, di stabilire fra le parti in causa (organismi rappresentativi degli operatori e dei cittadini) accordi di tipo generale. A mio avviso, occorre incominciare ad accertare quali sono gli aspetti specifici di comune interesse e concordare quindi le iniziative settoriali, da assumere congiuntamente.

 

Conclusioni

 

Giustamente Franca Olivetti Manoukian afferma che, fra i «livelli su cui diventa importante cercare di costruire convergenze», molto importanti sono «gli orientamenti valoriali con cui la società governa le proprie difficoltà» (13).

Concordo, inoltre, sulla necessità di «riaprire a livello di società un discorso sul perché è importante far fronte ai problemi riconoscendoli come problemi sociali e non come problemi individuali cui ciascuno deve far fronte secondo le proprie risorse e capacità».

È, altresì, corretta l’affermazione della Manoukian secondo cui «in una società frammentata come la nostra il passaggio dai bisogni ai diritti è difficile».

È molto vero che si tratta di un percorso arduo sia per gli operatori che per gli utenti, ma, a mio avviso, è questa l’unica strada valida per garantire a tutti i cittadini, in particolare a quelli più deboli «il diritto a una vita dignitosa».

Gli esempi di questi ultimi anni sono significativi. Ad esempio:

- il riconoscimento del diritto alla famiglia dei bambini privi di sostegno morale e materiale da parte dei loro genitori e degli altri congiunti, sancito dalle leggi 431/1967 e 184/1983, ha consentito finora l’inserimento presso nuclei adottivi, e quindi nel vivo del contesto sociale (14), di oltre centomila fanciulli, prima destinati a trascorrere parte della loro vita in anonimi istituti. Dai 310 mila minori istituzionalizzati nel 1960 si è giunti, anche per il calo delle nascite, agli attuali 20-25 mila;

- l’attuazione del diritto delle persone con handicap all’inserimento nelle normali strutture prescolastiche, scolastiche e formative ha determinato non solo migliori condizioni di vita dei soggetti interessati e dei loro congiunti, ma anche una riduzione notevole dei ricoveri in istituti di assistenza;

- l’estensione a tutti i cittadini del diritto alle cure sanitarie gratuite (salvo ticket) ha posto il nostro Paese fra quelli la cui durata della vita è maggiore;

- il diritto alla pensione sociale, pur tenendo conto del suo limitato importo, ha ridotto in misura considerevole le situazioni di miseria economica;

- il riconoscimento del diritto alla riservatezza dei dati personali ha eliminato, quale esempio a mio avviso eloquente, le discriminazioni a cui erano sottoposte le persone riconosciute solo da un genitore, i figli di ignoti ed i bambini esposti. Com’è noto nei casi di non riconoscimento da parte del o dei genitori sulla carta d’identità, sulle pagelle scolastiche, sui libretti di lavoro, sulle patenti e sugli altri documenti compariva la scritta “figlio di N.N.”. Inoltre, su tutti i documenti dei bambini esposti, di cui non si conoscevano non solo i genitori, ma nemmeno il luogo e la data di nascita, era, altresì, riportato quanto segue: “nato a…. ignorasi oppure trovato in data… presumibilmente nel mese di… dell’anno…” .

*  *  *

Il Csa e le organizzazioni che ne fanno parte sostengono da anni la necessità di una intesa con le organizzazioni degli operatori dei servizi sanitari e socio-assistenziali. Mi auguro, pertanto, che le difficoltà presenti possano essere uno stimolo all’incontro e alla verifica delle concrete possibilità di azioni unitarie, condotte nell’interesse delle due parti in causa, e quindi di tutti i cittadini.

 

 

(1) Cfr. animazione sociale, n. 10, 2004.

(2) Com’è ovvio, solo il settore pubblico (Stato, Regioni, Comuni, Province, Asl, ecc,) può garantire diritti ai cittadini. Ottenuto il riconoscimento del diritto a questa o quella prestazione, a questo o quel servizio, l’attuazione degli interventi può essere affidata a organizzazioni private, ferme restando le responsabilità dello stesso settore pubblico nei casi di inadempienza dell’ente gestore.

(3) Cfr. gli articoli “La Commissione del Ministero della sanità sui servizi sociali” e “Pre-documento della Commissione del Ministero della sanità sui servizi sociali”, Prospettive assistenziali, n. 10, 1970.

(4) Nel documento in oggetto viene altresì precisato che la rete dei servizi sociali, sanitari, formativi ricreativi deve essere collocata «nella prospettata Unità locale dei servizi».

(5) Cfr. l’articolo “Inaccettabile l’attuale riorganizzazione del settore assistenziale”, Prospettive assistenziali, n. 48, 1979.

(6) Cfr. Maria Grazia Breda, Donata Micucci e Francesco Santanera, La riforma dell’assistenza e dei servizi sociali. Analisi della legge 328/2000 e proposte attuative, Utet Libreria.

(7) Tra coloro che hanno approvato il documento segnaliamo: gli Assessori regionali alla sanità o i loro delegati, i rappresentanti dei Ministeri del tesoro, del lavoro e dell’istruzione, del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), dell’Istituto superiore di sanità, dei sindacati Cgil, Cisl e Uil, delle organizzazioni degli artigiani, dei commercianti, dei coltivatori diretti, nonché il sociologo Achille Ardigò.

(8) Si vedano, ad esempio, le leggi delle Regioni Emilia Romagna  n. 30/1979 e Veneto n. 45/1979, concernenti i finanziamenti erogati a soggetti pubblici e soprattutto privati per la creazione di strutture di ricovero assistenziale di anziani non  autosufficienti.

(9) A quanto mi risulta è la prima volta che in documento ufficiale si fa riferimento «allo stretto intreccio della presenza sanitaria e socio-assistenziale», principio preso in seguito a fondamento dell’integrazione dei servizi sanitari e socio-assistenziali (o sociali). Dalla legge 730/1983 (articolo 30) sono state inventate le «attività di rilievo sanitario connesse con quelle assistenziali».

(10) Il documento del Consiglio sanitario nazionale sui rapporti fra sanità e assistenza è stato pubblicato sul numero 68, 1984 di Prospettive assistenziali.

(11) Nel documento “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” della Presidenza del consiglio dei Ministri, Ufficio del Ministro per la solidarietà sociale, Roma, ottobre 2000, viene affermato che «nel corso del 1999, 2 milioni di famiglie italiane sono scese sotto la soglia della povertà a fronte del carico di spesa sostenuta per la “cura” di un componente affetto da una malattia cronica».

(12) Si vedano, al riguardo, le iniziative promosse dal Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti, avviate nel 1978 dal Coordinamento sanità e assistenza tra i movimenti di base e dal 1° novembre 2003 assunte dalla Fondazione promozione sociale. Solamente a partire dall’entrata in vigore dell’articolo 54 della legge 289/2002, è previsto da una disposizione, approvata dal Parlamento, l’obbligo di versare la quota alberghiera.

(13) L’Autrice si rivolge solo agli operatori dei servizi sanitari e sociali. A mio avviso, è altresì importante la partecipazione (paritetica) delle forze sociali che rappresentano l’utenza.

(14) Altra positiva conseguenza delle leggi 431/1967 e 184/1983 è stato l’avvio e lo sviluppo degli interventi di aiuto ai nuclei familiari in difficoltà, diretti anche ad evitare il ricovero dei minori.

 

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