Prospettive assistenziali, n. 152, ottobre - dicembre 2005
2003 ANNO EUROPEO DELLE PERSONE CON HANDICAP: UN’OCCASIONE
MANCATA
Nel dicembre del 2001 il
Consiglio dell’Unione europea ha proclamato il 2003 “Anno europeo
delle persone con disabilità” (1).
Una premessa
Nel marzo 2002 si
svolge a Madrid una conferenza organizzata dall’Unione europea, al termine
della quale viene reso pubblico un documento che
definisce le linee guida cui avrebbero dovuto ispirarsi tutte le attività che
si sarebbero svolte durante l’Anno europeo delle persone con handicap cioè il
2003.
La dichiarazione,
oltre a richiamare i Governi europei alla necessità di una riscrittura
della legislazione in materia che favorisca una reale integrazione dei
cittadini colpiti da menomazioni fisiche, sensoriali o intellettive, elenca i
seguenti principi:
- la condizione di
soggetto con handicap appartiene alla dimensione dei diritti umani;
- le persone con
handicap vogliono pari opportunità e non beneficenza;
- la discriminazione
e l’esclusione sociale sono il risultato delle
barriere erette dalla società;
- l’inclusione
sociale è il risultato non solo della non discriminazione, ma anche delle
azioni positive.
In Italia il 2003 si
apre e chiude con dichiarazioni dai toni solenni. Oramai, a quasi due anni di
distanza, si può esprimere qualche considerazione non condizionata dalla “trance partecipativa” che si viveva durante quei mesi
caratterizzati da un’incredibile quantità di convegni e dibattiti e
manifestazioni le più disparate, o viceversa dal senso di delusione che può
aver colto alcuni o molti.
Visto come sono andate le cose,
più che sul Parlamento, più che sul Governo, più che sulle Regioni, più che
sugli Enti locali (che, se avessero davvero voluto fare qualcosa per le persone
con handicap, avrebbero avuto tutto il tempo per farlo senza aspettare, quasi sempre inutilmente, il 2003), c’è da interrogarsi
sulle associazioni che asseriscono di tutelare le persone con handicap e che
hanno partecipato a questo teatrino di intenti e buone intenzioni (o di secondi
fini) in cui tutti avevano ragione semmai “io un po’ di più degli altri”, senza
quasi mai avanzare proposte per l’effettiva tutela dei soggetti con handicap e
assumere le necessarie iniziative per la loro affermazione e attuazione.
A proposito del volume Esserci tutti
A tal proposito è
utile segnalare l’iniziativa editoriale del Ministero del lavoro e delle
politiche sociali Esserci tutti. Idee, progetti, leggi del 2003, con
presentazione del Ministro Roberto Maroni, che
compendia tutto quanto accaduto in Italia nell’Anno europeo delle persone con
handicap. Vi sono elencati seminari, forum, convegni,
riportati atti e interviste, progetti vincitori di tale o tal’altro concorso, dichiarazioni di politici, per un
totale di quasi 150 pagine.
Il volume in
questione è stato curato da Franco Bomprezzi, giornalista
e presidente della Uildm
(Unione italiana per la lotta alla distrofia muscolare). Nelle sue parole il
libro avrebbe dovuto rappresentare «un
utile strumento di lavoro, un compagno di viaggio per le nuove conquiste». Ma, come detto, si tratta invece solo di un
particolareggiato resoconto di quanto svoltosi a livello d’iniziative sul tema
e, di fatto, poco (o di poco condivisibile o di troppo banalmente
condivisibile) ci dice sulle indispensabili conquiste
da compiere e sul come. Ciò su cui quasi tutte le persone
intervistate nel volume continuano ad insistere è la buona riuscita dell’evento
a livello di comunicazione e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
Tema, seppur importante, che può comunque dimostrarsi
un fatto fuorviante se alle parole non seguono i fatti, soprattutto se si
tengono sempre ben presenti le impellenti e quotidiane necessità delle persone
con handicap. In tutte queste pagine infatti nulla o
quasi si dice da parte delle associazioni, delle situazioni drammatiche in cui
spesso versano le persone con handicap e su quelli che sono i loro veri
bisogni. Se è deprecabile che Governo, Parlamento,
Regioni ed Enti locali, ognuno nel proprio ambito di competenza, non siano
ancora intervenuti per risolvere le vitali esigenze delle persone con handicap,
è ancora più preoccupante che le associazioni di tutela non abbiano dato voce
alle gravi preoccupazioni che tale situazione induce, e piuttosto si siano
lasciate imbrigliare in vuoti giochi di parole. Ricordiamo che tali
associazioni continuano a non voler ammettere che la legge 104/1992 non prevede
un solo diritto esigibile, ad eccezione della questione dei permessi lavorativi
(che però si è spesso rivelata un boomerang per le famiglie scaricando su di esse doveri che spettano allo Stato). Del resto anche la
legge quadro sull’assistenza (328/2000) non prevede nessun vero diritto, al
punto che si è costretti, come abbiamo più volte ricordato su questa rivista, a
risalire al regio decreto 773/1931 (2) per poter
trovare sanciti diritti dalla chiara esigibilità.
Ci si è limitati a ribadire (secondo punto su cui si è molto insistito) a
quanto necessaria e auspicabile sarebbe una completa attuazione delle due
succitate leggi. Quindi, insieme a molti altri, c’è
ancora chi, come il Presidente della Federazione tra le associazioni nazionali
dei disabili (Fand), Tommaso Daniele, chiede «una reale e concreta applicazione della
legge 328/2000», del tutto dimenticando che tale legge rimane una legge
condivisibile nei principi e nelle buone intenzioni dichiarate, ma che non
concede ai cittadini nessun vero diritto: definendo, ad esempio, determinati
servizi come prioritari ed essenziali ma mai obbligatori e precisando che le
prestazioni elencate «costituiscono il
livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e
servizi (…) nei limiti delle risorse del fondo nazionale (…) tenuto conto delle
risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale». L’unica
cosa che di concreto avrebbe consentito tale legge, con la delega al Governo
sul riordino delle pensioni, è rimasta lettera morta.
Non solo le
associazioni difettano della concretezza che dovrebbe caratterizzarle, visto
l’importante ruolo che sono tenute a svolgere e le
disagiate situazioni di vita delle persone handicappate da esse rappresentate,
ma si arriva all’ottimismo eccessivo e forse consolatorio per cui, durante il
suo congresso nazionale,
Sul dire e il fare (3)
Le uniche cose che
in concreto si sono davvero fatte durante questo “anno dedicato”, sono due.
La prima, la norma
sull’accessibilità dei siti internet, soprattutto quelli della pubblica
amministrazione, e, in generale, per la promozione delle
nuove tecnologie quale utile strumento nei percorsi formativi. La seconda, la
legge sull’amministratore di sostegno. Quest’ultima,
del resto, pur essendo un’iniziativa positiva,
riguarda soltanto marginalmente i soggetti con handicap, visto che si applica
esclusivamente alle persone con scarsa o nulla capacità di tutelare le proprie
esigenze fondamentali di vita.
A nostro avviso, le
questioni su cui tutte le associazioni di tutela delle persone con handicap avrebbero dovuto (e dovrebbero tuttora) impegnarsi sono
semplici ma fondamentali esigenze per poter condurre una vita degna di questo
nome, e quindi:
1. nell’ottica del diritto ad un vita autonoma per ogni
cittadino, l’importo delle pensioni di invalidità, il cui livello attuale (euro
233,87) è tale da non consentire nemmeno la sopravvivenza fisica, dovrebbe
essere adeguato;
2. l’importo dell’assegno di accompagnamento (finalizzato a
compensare le maggiori spese delle persone con menomazioni) dovrebbe essere
commisurato alle esigenze del soggetto, cosa che al momento non è. Ad esempio
l’indennità di accompagnamento dei ciechi totali
inseriti al lavoro (e quindi in possesso di una consistente autonomia) è
superiore (euro 669,21 contro 443,83) all’analoga erogazione rivolta ai
soggetti totalmente non autosufficienti e bisognosi di assistenza 24 ore su 24;
3. il diritto ad una
formazione scolastica individualizzata e rispettosa delle peculiarità degli
allievi ma nel contempo mai foriera di emarginazione
ma al contrario d’integrazione, una scuola non solo dispensatrice di nozioni ma
che prepari alla vita sociale che attende i suoi fruitori. Va poi potenziata la
formazione professionale per preparare le persone con handicap a sviluppare
quelle abilità che possano consentirgli un pieno
inserimento lavorativo o corsi prelavorativi per
handicappati intellettivi di media gravità che consenta loro il potenziamento
delle capacità residue per un inserimento lavorativo che non richieda una
specializzazione ma che risulti comunque vantaggioso per soggetto e azienda;
4. considerare il
lavoro non solo come un diritto ma anche come un dovere per chiunque abbia
capacità lavorative da spendere. Il lavoro è un fattore determinante
nella ricerca di autonomia e di realizzazione di sé. Avere un handicap non è
sinonimo d’incapacità lavorativa. Una persona handicappata può svolgere il
proprio lavoro altrettanto proficuamente di una persona non handicappata. Anche
un handicap grave non è necessariamente negazione di ogni
possibilità di lavorare. Inoltre, il lavoratore handicappato non deve essere
emarginato in posti lavorativi creati ad hoc e forieri
di ghettizzazione;
5. qualora non
fossero sufficienti tutte le azioni possibili per instradare il soggetto con
handicap intellettivo su un percorso di lavoro e autonomia, solo allora dovrebbe essere pensata e messa in atto ogni necessaria
iniziativa di assistenza. Il sostegno dello Stato ai nuclei familiari che si
prendono cura di persone con handicap dovrebbe essere
d’obbligo, affinché tali famiglie non debbano arrivare ad avere una qualità di
vita svilita. Si diminuirebbe così il rischio che il nucleo familiare per
semplice consunzione di energie e/o risorse espella
dal proprio interno il membro gravemente handicappato. L’assistenza
deve consistere in una serie d’interventi di questo tipo: assistenza economica
per le famiglie che non hanno un reddito sufficiente; aiuti domestici; centri
diurni che allevino il peso che grava sui nuclei familiari (che quindi saranno
maggiormente motivati a non ricorrere al ricovero in istituto consentendo per sovrappiú allo Stato una minore spesa); comunità alloggio
(di non più di 8/10 posti, per non riprodurre le nefaste conseguenze
dell’istituzionalizzazione) inserite nel territorio in cui vive il nucleo
familiare, qualora la permanenza nel nucleo familiare di origine o affidatario fosse impossibile tenendo ben presente
l’esigenza di non addivenire ad un ricovero in istituto i cui disastrosi
effetti sulle persone ivi ricoverate sono ampiamente documentati;
6. un’assistenza adeguata per tutti quei soggetti la cui
condizione non consenta alcun inserimento lavorativo in un percorso di
autonomia darebbe inoltre certezza, ai congiunti che di loro si occupano, che
alla propria morte i propri cari che abbiano un grave handicap non rischino un’esistenza caratterizzata da abbandono e miseria
(il “durante noi”, in cui l’assistenza è data come certa e appropriata, si
estende naturalmente e temporalmente consentendo quindi
certezze anche sul cosiddetto “dopo di noi”);
7. interventi
concreti per l’abbattimento di ogni barriera
architettonica e per realizzare il diritto a vivere in una casa accessibile. L’autonomia
non può che passare anche dalla propria libertà di movimento, di accesso nei luoghi deputati alla cultura,
all’intrattenimento, alla vita pubblica.
(1) La scelta del termine “disabilità” non è condivisa da
questa rivista. Come argomentato in un articolo di Maria
Grazia Breda (cfr. Prospettive assistenziali
n. 146, 2004), il termine “disabile”, e cioè “non abile”, esprime, tra l’altro
contro la realtà dei fatti «una
valutazione sempre e solo negativa della capacità dei soggetti con menomazioni,
capacità che si esprimono non solo nel lavoro, ma anche in tutte le altre
attività (…). Dunque i soggetti con menomazioni possono essere abilissimi nel
lavoro, ma possono anche esprimere, come tutti gli esseri umani, carenze in altri settori. (…)Ritengo
pertanto ancora valida l’espressione “handicap” (…). Handicap è la parola usata
nel campo ippico per indicare le maggiori difficoltà che i cavalli più veloci
devono affrontare durante il percorso in modo da rendere più equilibrata la
competizione. Handicappato, per analogia, è quindi l’individuo che nel percorso
della sua vita deve affrontare più difficoltà di un altro per arrivare alla
meta (…). È una definizione, quindi, in positivo che
mette in primo piano il ruolo attivo che l’handicappato può svolgere per
raggiungere una piena integrazione nella società».
(2) Cfr. Massimo Dogliotti, «I minori, i soggetti con handicap, gli anziani
in difficoltà… “pericolosi per l’ordine pubblico”», Prospettive assistenziali n. 135, 2001.
(3) Ecco cosa il Ministro Maroni
sostiene nella presentazione del libro Esserci
tutti: «L’Italia è stata uno dei
primi Paesi europei a recepire la direttiva 2000/1978
della Comunità europea sulla non discriminazione in materia di occupazione e
condizioni di lavoro. È stato presentato il Libro bianco sul welfare che riserva particolare attenzione all’integrazione
delle persone con disabilità. È stato lanciato ed è in fase di realizzazione in
modo integrato con le Regioni il “Progetto Icf (Classificazione internazionale delle funzioni, n.d.r) in Italia”
sulla strategia di sviluppo, formazione e utilizzo della Classificazione
internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute
dell’Organizzazione mondiale della sanità. Sono state allocate risorse
finanziarie per la realizzazione di progetti innovativi per le persone disabili
prive di adeguato sostegno familiare; infine, è stato
finalmente approvato il testo di legge sull’amministratore di sostegno. Nel
campo dell’accessibilità alle tecnologie è stato presentato il Libro bianco
sull’innovazione tecnologica, cui ha fatto seguito la promulgazione della legge
sull’accessibilità».
www.fondazionepromozionesociale.it