Prospettive assistenziali, n. 152, ottobre - dicembre 2005
Interrogativi
È valida
Nel corso del
convegno “I bambini nel limbo” (Bellaria, 29-31
agosto 2005) organizzato dall’associazione Aibi
(Amici dei bambini) è stato distribuito un documento dalla stessa Aibi, in cui si sostiene quanto segue: «Mentre riteniamo che l’attività di vigilanza e controllo, ed
eventualmente quella più generale di monitoraggio, debbano essere meglio disciplinate e permanere in capo ai servizi sociali
territoriali, tutte le attività connesse alla realizzazione del percorso di
affidamento (tra cui: individuazione, selezione e formazione delle famiglie
affidatarie, abbinamento minore/famiglia, stesura del progetto di affido con
particolare attenzione alla famiglia di origine del minore, sostegno e
accompagnamento alla genitorialità, preparazione del
reinserimento familiare, …) devono poter essere compiutamente assicurate da
quelle associazioni che, appositamente accreditate, risultano presenti sul
territorio. In questo modo le associazioni e le famiglie che le costituiscono,
insieme ai volontari e ai professionisti, sarebbero chiamate a rappresentare
un’ulteriore e preziosa risorsa sul territorio laddove oggi sono
chiamate alla semplice e parziale realizzazione di provvedimenti pensati,
disposti e gestiti da altri».
La proposta è così
motivata: «Sullo sfondo ci guida la
premura e la determinazione ad assicurare ad ogni bambino il diritto ad essere
e restare figlio, accolto in una
famiglia, anche attraverso il ricorso ed il potenziamento di tutte quelle
sensibilità, attenzioni, competenze, energie e risorse che l’associazionismo
familiare ha in questi anni dimostrato di sapere catalizzare, organizzare e
trasformare in una pluralità di servizi e di strutture».
In merito alle
suddette proposte dell’Aibi, di cui apprezziamo
l’attività svolta, poniamo alcuni interrogativi.
In primo luogo, non
occorrerebbe tener conto che, nei confronti dei nuclei familiari (a nostro
avviso non si possono escludere i soggetti deboli che convivono senza aver
contratto matrimonio) in gravi difficoltà socio-economiche, le leggi vigenti a
livello nazionale non riconoscono diritti esigibili né alle prestazioni sociali
di primaria necessità (ad esempio un alloggio idoneo), né agli interventi assistenziali (erogazioni economiche, aiuti domiciliari, gli
stessi affidamenti di minori, ecc.) diretti all’eliminazione delle cause che
provocano il disagio e l’emarginazione?
Fino a quando le
associazioni di tutela dei soggetti deboli continueranno ad accettare che le
sole disposizioni nazionali aventi valore di legge che obbligano
i Comuni a fornire un ricovero a coloro (minori, adulti, anziani) che non ce la
fanno a vivere con i propri mezzi e con quelli dei loro congiunti, siano gli
articoli 154 e 115 del regio decreto 773/1931, testo unico delle legge di
pubblica sicurezza?
Sollevare il
Parlamento, il Governo, le Regioni e i Comuni dalle loro responsabilità sulle pluridecennali e ancora attuali carenze
legislative e operative non significa, al di là delle intenzioni, aiutare le
istituzioni a non modificare i loro concreti negativi comportamenti?
Non occorre, quindi,
che tutte le organizzazioni che operano per l’affermazione della giustizia
sociale pretendano dal Parlamento, dalle Regioni e dai Comuni
norme chiare che sanciscano il diritto ad una vita dignitosa.
Non è, quindi,
necessario che vengano approvate leggi e delibere che
stabiliscano i diritti esigibili alle prestazioni che garantiscono la
possibilità di tutti i soggetti deboli, in primissimo ordine i minori, di
vivere a casa loro, soprattutto nei casi in cui gli interventi di sostegno alla
domiciliarità costano al settore pubblico meno del
ricovero in strutture residenziali?
È opportuno che le
associazioni di volontariato trascurino detti obiettivi e si sostituiscano agli
enti che non adempiono a questi loro elementari doveri
civili e sociali?
Se si vuole che i
provvedimenti non siano «pensati,
disposti e gestiti» solo dalle istituzioni, non è forse indispensabile la
partecipazione attiva delle organizzazioni sociali sia per la determinazione
delle linee di indirizzo, sia per il controllo della
loro attuazione?
Se le associazioni
provvedono direttamente alla gestione dei servizi non
viene vanificato il controllo di base da parte dei cittadini organizzati?
In secondo luogo,
gli affidamenti familiari di minori a scopo educativo non devono essere
previsti esclusivamente nei casi in cui vi è la l’accertata
e verificata impossibilità di sostenere il nucleo familiare d’origine?
Non è, quindi,
inopportuno scindere, come chiede l’Aibi, gli
interventi da fornire ai minori da quelli da erogare ai loro nuclei familiari?
Il vero, efficace ed
effettivo sostegno ai nuclei d’origine riguarda solo l’assistenza ed i rapporti
con i minori affidati a terzi, o coinvolge le altre fondamentali funzioni degli
enti pubblici, quali quelle relative alla casa, alla
sanità, alla scuola, al tempo libero, alla formazione professionale, ecc.?
Non è forse vero che
le associazioni che hanno ricevuto dal Comune il compito (e ovviamente anche i
relativi compensi economici) di provvedere alla gestione degli affidamenti
familiari dei minori a scopo educativo, sono e saranno sempre nella concreta impossibilità
di contestare allo stesso Comune le carenze degli
interventi (già attualmente molto spesso notevoli) nei confronti dei sostegni
da fornire alle famiglie d’origine?
Per un affettivo
cambiamento delle condizioni di vita dei minori in difficoltà e dei loro nuclei
familiari di origine, occorre puntare sul
riconoscimento delle loro esigenze e sui loro diritti [attuabile a seconda
dell’ente competente (Parlamento, Regioni e Comuni) con l’emanazione di leggi o
con l’approvazione di delibere] o bisogna puntellare le istituzioni che non
adempiono ai loro compiti di prevenzione del disagio e di tutela dei soggetti
deboli?
A questo riguardo
ricordiamo che, come aveva osservato Domenico Rosati (cfr. Avvenire del
16 giugno 2002), la scelta della gestione dei servizi da parte delle organizzazioni di volontariato determina per forza di
cose la loro sudditanza nei confronti delle istituzioni. Infatti,
secondo l’ex Presidente nazionale delle Acli «il volontariato anziché operare su autonomi
progetti, realizza servizi per conto del “pubblico”, in regime di contributo o
di convenzioni. Così si diventa indispensabili per il
pubblico, ma, reciprocamente, non si può farne a meno».
In altre parole non
è forse vero anche nel campo della gestione dei servizi, «chi paga, comanda?» e che l’autonomia economica è una delle
condizioni sine qua non perchè il volontariato (o altro
settore di intervento), operi per la tutela delle
esigenze e dei diritti dei soggetti deboli?
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