Prospettive assistenziali, n. 153, gennaio - marzo 2006
HANDICAP: RIFLESSIONI SUL LAVORO IN RETE DEI
SERVIZI PER L’INSERIMENTO LAVORATIVO
MARIA GRAZIA BREDA
Premessa
Il 25 febbraio
Illustrerò quindi i punti
salienti della ricerca, le conclusioni a cui sono arrivati
i ricercatori, le loro indicazioni per superare gli attuali problemi e prenderò
in esame gli aspetti istituzionali. Questi ultimi sono stati totalmente
ignorati nel rapporto finale, mentre, a mio avviso, è proprio la mancanza di
chiarezza a questo proposito la vera causa del cattivo
funzionamento dei servizi per l’inserimento lavorativo e degli scarsi risultati
ottenuti in questi anni in fatto di assunzioni di soggetti handicappati con
limitata autonomia.
Presentazione della ricerca sul lavoro in rete
Nei casi presi in esame dalla
ricerca viene individuato quale bacino territoriale di
riferimento quello afferente al Centro provinciale per l’impiego (3), mentre la
rete del territorio, con cui il Centro stesso dovrebbe raccordarsi, è quella
che comprende anche i servizi del Consorzio socio-assistenziale (4) e/o dei
Comuni, delle Asl, delle agenzie formative, delle
imprese. Sono inoltre considerate – se presenti e in relazione con il Centro
per l’impiego – le associazioni di volontariato e quelle delle famiglie.
Nella ricerca sono presi in esame
solo i casi più complessi seguiti dai Centri per l’impiego e cioè
quelli che «dalla natura dell’handicap e
dalla sua frequente combinazione con problemi di occupabilità,
con difficoltà di tipo familiare e sociale, con difficoltà soggettive, ecc…»
fanno intuire che vi saranno maggiori ostacoli per l’inserimento lavorativo in
azienda. È proprio dall’esame dei suddetti casi, che i ricercatori ritengono
che sia possibile valutare la funzionalità della rete
dei servizi.
Essi partono dal presupposto che,
proprio per rispondere correttamente e con successo ai molteplici bisogni della
persona, i servizi avrebbero avuto interesse a «collaborare, ciascuno per la propria parte,
non solo alla progettazione ed alla realizzazione del proprio contributo, ma
anche alla coerenza del percorso complessivo necessario per perseguire
l’obiettivo dell’inserimento sociale e lavorativo della persona».
Il presupposto di partenza, e cioè la piena collaborazione tra gli operatori dei diversi
servizi territoriali, è stato smentito dai risultati della ricerca.
Che cosa emerge
La ricerca mette
in evidenza che il lavoro in rete nel territorio piemontese, e cioè il
raccordo tra i servizi chiamati ad interagire per promuovere l’inserimento
lavorativo di persone in situazione di handicap (Centri per l’impiego, Comuni,
Consorzi socio-assistenziali, cooperative, formazione professionale), lascia
molto a desiderare e quasi mai assicura il diritto al lavoro a chi, a causa
della minorazione, ha maggiori difficoltà ad inserirsi.
La ricerca non si sofferma ad
esaminare l’aspetto quantitativo degli insuccessi (5), in quanto la scelta di campo è
stata concentrata sull’analisi delle cause che sono all’origine della mancata
assunzione al termine del percorso previsto per l’inserimento lavorativo.
Dai dati raccolti emerge che l’obiettivo assunzione non viene raggiunto per la presenza
di molteplici fattori di cui i principali possono essere così riassunti:
- complessivo debole senso di appartenenza e di integrazione tra gli operatori, la cui
criticità aumenta quando l’obiettivo dell’assunzione non viene raggiunto;
- scarsa conoscenza dei punti di
forza e/o di debolezza del servizio con cui si opera in partenariato;
- mancanza di complementarietà
tra gli operatori e tra le reciproche professionalità per fronteggiare i casi
complessi;
- assenza della percezione di
essere una sola comunità professionale che condivide difficoltà, ma anche
competenze;
- tendenza prevalente ad autoreferenziarsi;
-
partecipazione non sempre estesa a tutti i partner
(operatori dei servizi, imprese e famiglie) al processo decisionale;
- carenza
strutturale di definizione preventiva delle competenze gestionali e di
programmazione delle attività;
- problemi in
relazione alla mancata definizione di ruoli, doveri e responsabilità
degli attori;
- leadership non riconosciuta con conseguente fragilità e
inadeguatezza sul piano della distribuzione dei poteri decisionali e del
coordinamento;
- assenza di
sistemi di controllo della gestione e, di conseguenza, mancanza di parametri e
standard stabiliti in precedenza e condivisi per monitorare e analizzare gli
scostamenti dagli obiettivi prefissati e per intraprendere le necessarie azioni
correttive;
- carenza
di informazione sullo stato di avanzamento degli interventi indirizzati ai
soggetti direttamente o indirettamente interessati all’iniziativa.
La ricerca conferma i limiti della legge 68/1999
La ricerca della Regione Piemonte
mette in discussione un concetto caro a molti: dare per scontato, a priori, che
lavorare in rete tra servizi è di per sé un fatto possibile e positivo, anche quando il personale appartiene ad enti
diversi. Contrariamente a ciò che alcuni sostengono, la ricerca evidenzia che è
proprio l’operare in rete, senza obblighi istituzionali precisi, la causa
principale del fallimento del percorso concernente il collocamento mirato per
persone handicappate che, a causa della loro ridotta capacità lavorativa, hanno
maggiori difficoltà ad essere inserite.
Le stesse criticità erano state
sollevate dal Csa (Coordinamento sanità e assistenza
fra i movimenti di base) nell’articolo di commento pubblicato su questa stessa
rivista all’entrata in vigore della legge 68/1999 (6).
Infatti, l’eccessiva indeterminatezza del ruolo assegnato ai servizi
territoriali era ed è uno degli elementi deboli sui quali, invano, si è cercato
di intervenire prima che la legge venisse approvata.
Il collocamento mirato previsto
dalla legge 68/1999 è senz’altro una conquista importante, ma
resta da soddisfare la condizione, per noi imprescindibile, che sia assegnato
al Centro provinciale per l’impiego (e non genericamente in “rete”) un gruppo
stabile di operatori, con il compito di realizzare concretamente l’inserimento
lavorativo della persona in azienda.
Ad avviso del Csa,
il gruppo di operatori, più comunemente conosciuto
come Sil, Servizio di inserimento lavorativo,
dovrebbe svolgere le seguenti attività:
- collaborare con il settore
della formazione professionale per l’individuazione dei contenuti e delle
modalità dei corsi di formazione professionale o prelavorativa (7) e delle
iniziative di aggiornamento professionale;
- ricercare i posti di lavoro più
idonei;
- svolgere
tutte le necessarie attività tecniche per rendere possibile
l’inserimento lavorativo (adeguamento del posto di lavoro, abbattimento delle
barriere architettoniche, ecc.);
- proporre eventuali strumenti di
mediazione e/o di incentivazione d’intesa con gli
uffici competenti;
- appoggiare il
soggetto nelle fasi iniziali del suo inserimento e mantenere con l’azienda un
collegamento anche per eventuali momenti critici successivi, in particolare per
i lavoratori con maggiori difficoltà.
Un servizio con queste
caratteristiche e con questa importanza aveva bisogno di una disposizione di legge più
cogente. Invece, la definizione contenuta nell’articolo 6
della legge 68/1999 si limita ad auspicare che i vari servizi coinvolti operino
in raccordo fra loro. Purtroppo, come emerge
dalla ricerca in oggetto, viene confermato che questo obiettivo è spesso una
vana speranza.
Il nostro punto di
vista sui servizi di inserimento lavorativo
Da anni il Csa
ha continuato, finora inutilmente, ad insistere presso tutti i livelli
istituzionali (Regione Piemonte e Province) per ottenere che i diversi
operatori preposti al collocamento mirato siano
organizzati in un servizio stabile e fisicamente localizzato presso ogni Centro
per l’impiego. Ovviamente si dovevano valorizzare le molteplici esperienze
acquisite da numerosi servizi socio-assistenziali, a condizione che gli
operatori accettassero il trasferimento funzionale in capo al Centro per
l’impiego e da esso dipendessero.
È il caso positivo
contemplato dal protocollo d’intesa siglato tra i Comuni di Collegno,
Grugliasco, Rivoli, Rosta, Villarbasse
della Provincia di Torino, i rispettivi Consorzi socio-assistenziali e il
Centro per l’impiego di Rivoli (8).
Con tale atto viene
precisato che il personale dei servizi per il collocamento lavorativo,
principalmente composto da educatori che avevano operato nell’ambito dei
Consorzi socio-assistenziali, è inserito funzionalmente nel Centro per
l’impiego, al fine di dotarlo di un gruppo stabile di operatori con il compito
di attuare concretamente gli inserimenti lavorativi.
In questo modo viene
realizzato anche un notevole risparmio di risorse. Sovente ogni singolo ente
(Comune, Consorzio, cooperativa, associazione, ecc.) organizza con i suoi
operatori il “suo” progetto di avviamento al lavoro
oppure di osservazione o di preparazione al lavoro. Le denominazioni sono
molteplici, ma in sostanza si è sempre in presenza di
una risposta “parcheggio”, raramente inserita in una programmazione con il
Centro per l’impiego e, quindi, con pochissime probabilità che vengano
realizzate assunzioni al termine del percorso.
Anzi, sovente i progetti ripropongono al giovane handicappato disoccupato attività
che ha già più volte svolto nell’ambito di precedenti corsi di formazione
professionale o prelavorativa. In questo modo si aumentano le frustrazioni
degli interessati (che lavorano spesso senza alcun compenso) e delle famiglie,
che si ritrovano alla fine con il loro congiunto a casa. D’altronde sono
proprio le stesse famiglie, non correttamente orientate, ad aggrapparsi a
qualunque proposta, purché il figlio sia in qualche modo impegnato.
Manca la regia di un ente, che
sia anche obbligato a rispondere del suo operato. A
mio avviso deve essere il Centro provinciale per l’impiego.
Attualmente, nei casi in cui non si riesce a
trasformare il tirocinio in un posto di lavoro al termine del progetto di
collocamento mirato, nessuno è tenuto a giustificarsi, tanto meno è obbligato a
proporre nuove opportunità all’utente che si ritrova disoccupato e senza
prospettive, magari dopo dieci-dodici anni di vari
tentativi di inserimento.
La nostra esperienza negativa
della rete
Dal 1999 ad oggi ho preso in
esame numerosi casi di giovani handicappati intellettivi disoccupati seguiti
dai Sil, che hanno permesso di conoscere le storture
delle norme di legge e di proporre, conseguentemente, i necessari correttivi
alle istituzioni tenute a intervenire.
Ho anche partecipato a convegni e
seminari di formazione per gli operatori dei Sil, per
comprendere le esigenze di chi opera in questi ambiti. Mi sono documentata sul
piano normativo studiando delibere e convenzioni di numerosi Enti locali e
Province. Il quadro che emerge non è confortante.
Sovente il Centro provinciale per
l’impiego utilizza la rete delle risorse del territorio perché non dispone di un proprio servizio di inserimento lavorativo e
si avvale di operatori del Comune, del Consorzio socio-assistenziale o di
cooperative.
Tale situazione crea confusione
negli utenti e nelle loro famiglie che hanno notevoli difficoltà a capire chi
sia il loro interlocutore: il Consorzio? L’Assessore all’assistenza da cui
dipende il Consorzio? L’Assessore al lavoro del Comune? Il Centro per
l’impiego? La cooperativa sociale?
Infine, altro aspetto assai
grave, è l’impossibilità per il direttore del Centro per l’impiego di disporre degli operatori della rete in base alle effettive
esigenze dell’utente. Questo significa che l’operatore del Sil,
che sovente è un educatore dei servizi socio-assistenziali, può rifiutarsi di
svolgere le attività di tutoraggio ritenute
indispensabili dal Centro per l’impiego, se non rientrano nel suo prefissato
orario di lavoro.
Manca la regia, ma
non basta la leadership tecnica
Per risolvere la questione della
mancanza di un unico responsabile di tutto il percorso di collocamento mirato,
nella ricerca viene proposta l’introduzione di una
funzione di governo dei processi concernenti:
«a) la programmazione del progetto, vale a dire la definizione degli
obiettivi da raggiungere in funzione di una corretta analisi del problema
articolata in fasi che devono, per quanto possibile, essere svolte nel rispetto
dei tempi e costi previsti;
«b) il controllo gestionale, ossia la verifica
costante che le attività si svolgano nel rispetto del quadro normativo e delle
prescrizioni vigenti, che gli obiettivi siano raggiunti, i programmi rispettati
(efficacia) e le risorse umane, tecniche e finanziarie preventivate siano
correttamente utilizzate (efficienza);
«c) la comunicazione e la formazione, e quindi le diverse forme di interazione e scambio lavorativi (incontri, riunioni,
lavoro dei gruppi, comitati, ecc), che si realizzano con gli attori coinvolti
nell’iniziativa e con gli altri soggetti esterni;
«d) la delega dei compiti e delle responsabilità e cioè
la ripartizione del lavoro tra i diversi attori e l’attribuzione delle
responsabilità operative in riferimento alle diverse fasi e attività».
La funzione di governo, secondo i
ricercatori, va attivata mediante un leader
riconosciuto: «Una
figura manageriale, autorevole, forte, una figura attorno alla quale ruotino
l’organizzazione e il coordinamento del progetto (…)».
In pratica «ciò che sembra urgente e importante è rafforzare la figura
dell’“assemblatore” radicato nell’intima natura del caso, ossia di un regista o
gestore che dall’interno segua il caso, ne unisca, armonizzi reciprocamente,
organizzi e tenga insieme le parti, curando la qualità delle relazioni (…)».
In sostanza viene
proposta una soluzione tecnica che, a mio avviso, è del tutto insufficiente a
risolvere i nodi conflittuali emersi.
Certamente condivido l’analisi e
la necessità di governare, finalmente, il percorso per l’inserimento lavorativo
di una persona handicappata disoccupata.
Tuttavia ritengo che la regia, e quindi
il governo della rete, non possa che essere individuata nel direttore del
Centro provinciale per l’impiego per quanto concerne le responsabilità
operative.
L’interlocutore politico
istituzionale di riferimento per il cittadino deve essere l’Assessore al lavoro
della Provincia, l’ente tenuto a garantire, in base alla
legge 68/1999, il suo diritto al lavoro.
Come ricordavo
all’inizio, ciò che manca, inoltre, è un gruppo di operatori (che nella realtà
con un limitato numero di abitanti possono essere anche solo due o tre), che
operi stabilmente e dipenda, in tutto e per tutto, dal Centro per l’impiego.
Ferma restando la titolarità in materia di lavoro
dell’Amministrazione provinciale, i raccordi, quando necessari, con l’Asl (ad esempio per particolari prestazioni sanitarie e per
gli ausili) ed i Comuni (per l’organizzazione dei trasporti, ecc.) devono
essere definiti tra gli enti titolari delle rispettive funzioni mediante
l’assunzione di protocolli di intesa o, meglio, l’approvazione di delibere,
nelle quali sia stabilito e concordato “chi fa e che cosa fa” e quali sono i
diritti-doveri del cittadino utente.
Le richieste del Csa alla Regione Piemonte
Ha scelto invece di sostenere
genericamente la rete dei servizi mediante il trasferimento di risorse alle
Province, con l’indicazione, mediante atti di indirizzo,
degli obiettivi triennali che le stesse devono raggiungere.
Va riconosciuto che la priorità è
stata data alle azioni rivolte alla creazione di occupazione
per i soggetti con maggiori difficoltà di inserimento, quali gli handicappati
intellettivi, ma come ho cercato di descrivere in precedenza, questo meccanismo
non sta producendo effetti positivi in termini di assunzioni e, soprattutto,
non pone le basi per la realizzazione di un servizio di inserimento lavorativo
stabile e di qualità.
Non si tratta della mancanza di
risorse, bensì dell’esigenza di una valida razionalizzazione.
Inoltre, c’è la necessità di utilizzare con maggior saggezza le somme
accantonate a seguito dei finanziamenti nazionali legati all’articolo 13 della
legge 68/1999, delle somme attinte dal fondo regionale istituito secondo quanto disposto dall’articolo 14 della stessa legge
68/1999 (9).
L’efficacia e l’efficienza dei Sil dipendono anche dalla qualità e stabilità del personale
La ricerca non ne parla, ma a mio
parere, un altro fattore che incide nel portare a buon fine il collocamento
mirato, è anche la professionalità degli operatori incaricati di sostenere la
persona nelle varie fasi dell’inserimento in azienda. La competenza necessaria
non si può di certo improvvisare.
In base all’esperienza del Csa posso affermare che, a questo proposito, gli operatori
che provengono dai servizi dei Consorzi socio-assistenziali non sempre sono
adeguati. Sovente si tratta di educatori privi della
necessaria competenza per quanto concerne i problemi squisitamente aziendali. Inoltre,
quasi mai sono assegnati a tempo pieno al servizio di inserimento
lavorativo delle persone con handicap e pertanto difficilmente riescono ad
acquisire la professionalità occorrente per relazionarsi proficuamente con le
aziende.
La situazione migliora
quando le esperienze dei Sil sono state
realizzate da personale proveniente dall’ambiente della formazione
professionale e/o dalla cooperazione sociale, in quanto in entrambi i casi si
tratta di soggetti con esperienze in realtà in cui sono indispensabili
competenze e conoscenze del mondo dell’impresa.
Vi sono poi numerose situazioni
in cui la figura del tutor
(10) è assunta con contratto a progetto. In questi casi le condizioni
necessarie per condurre un buon inserimento lavorativo, specialmente di coloro che hanno maggiori difficoltà come nel caso dei
giovani con handicap intellettivo, sono messe a dura prova dalla durata a tempo
determinato del contratto di lavoro dello stesso tutor.
Anche per queste ragioni il Csa da tempo chiede sia alla Regione Piemonte, sia alle
Province l’impegno di stipulare un “contratto-progetto” tra le parti (Centro
per l’impiego, utente, azienda), in modo che siano definiti gli obiettivi, le
modalità del monitoraggio, i tempi delle verifiche, il ruolo del tutor e siano precisati i tempi effettivi della sua presenza, i
rapporti da tenere con il Centro per l’impiego, gli orari di reperimento da
parte dell’utente, della sua famiglia e dell’azienda.
Tuttavia, benché tutto questo sia
importante, non è ancora sufficiente ad assicurare il raggiungimento
dell’obiettivo e cioè l’assunzione definitiva della
persona al termine del percorso di collocamento mirato.
Conclusioni
È fuor di dubbio che debba essere
risolta la questione principale: dare al Centro provinciale per l’impiego la
piena titolarità in merito a tutto il percorso relativo all’inserimento
lavorativo. Questo comporta, ovviamente, che le Regioni trasferiscano alle
Province sufficienti risorse, perché queste ultime si dotino di personale in
misura adeguata al fabbisogno.
Infatti ogni cittadino handicappato in
attesa di lavoro avrebbe diritto ad essere seguito dal Sil
e al collocamento mirato quando, a causa dei limiti dovuti alla sua
minorazione, ha oggettive difficoltà a trovare lavoro autonomamente.
Al momento, come abbiamo visto,
questo diritto non è esigibile e, dunque, bisogna adoperarsi perché lo diventi.
Regioni e Province hanno il
dovere di garantire alle persone handicappate disoccupate di poter sperimentare
se e in che misura sono in grado di sostenere un’attività lavorativa
produttiva. Allo scopo esse hanno diritto di essere messe nella migliore delle
condizioni possibili per dimostrare al meglio le loro potenzialità. Trovare
lavoro può fare la differenza tra vivere da adulti pienamente integrati oppure
essere emarginati in centri assistenziali.
Anche il miglior Sil, comunque, da solo non basta. Servono
politiche attive del lavoro a tutela di questi cittadini e quindi bisogna
cominciare a pensare alla necessità di una modifica della
legge 68/1999 perché siano introdotti vincoli più cogenti a tutela delle
persone con maggiori difficoltà di collocamento al lavoro.
(1) L’iniziativa rientra tra quelle previste
dall’articolo 6 del regolamento (Ce) n. 1784/1999 relativo al Fondo sociale
europeo che, con la comunicazione Com (2000) 894 final del 12 gennaio 2001, aveva stabilito
le priorità di intervento. Il costo complessivo del progetto, di durata
biennale, è stato di euro 630.960,70. La ricerca ha
preso in esame anche il sostegno previsto per lo sviluppo delle imprese e la
nascita di nuove realtà produttive ad opera di persone in situazione di
handicap.
(2) L’articolo 6 della legge 12 marzo 1999 n. 68
“Norme per il diritto al lavoro dei disabili” riguarda i servizi per
l’inserimento lavorativo dei disabili e modifica il decreto legislativo 23
dicembre 1997, n.
(3)
(4) Nella Regione Piemonte il Consorzio
socio-assistenziale è l’ente a cui due o
più Comuni hanno delegato la gestione dei servizi socio-assistenziali.
(5) Il campione esaminato non è molto rilevante. I
ricercatori hanno precisato di aver scelto di osservare il funzionamento delle
reti territoriali di alcuni Centri per l’impiego e,
per il necessario approfondimento di ogni fase, è stato seguito solo un numero
limitato di soggetti in situazione di handicap con particolari difficoltà, ma
in possesso di capacità lavorative sufficienti per essere avviati al lavoro.
(6) Cfr. Maria Grazia Breda, “Aspetti positivi, negativi e problematici della nuova legge sul
collocamento al lavoro delle persone con handicap”, Prospettive assistenziali, n. 126, 1999.
(7) Per corso prelavorativo
si intende un’attività di formazione professionale rivolta specificatamente a
giovani con handicap intellettivo, che non sono in grado di frequentare i corsi
normali di formazione professionale e di raggiungere la qualifica finale, a
causa del contenuto nozionistico e teorico che tali corsi contengono. Si tratta
però di soggetti che, nonostante la minorazione, presentano potenzialità
lavorative per cui si può ragionevolmente prevedere il
loro inserimento in attività produttive proficue. I corsi sono organizzati
dalla Regione Piemonte, in convenzione con enti di formazione pubblici e
privati, in moduli di 12-15 allievi per classe e sono inseriti nei normali
centri di formazione professionale. Durano tre anni, per un totale complessivo
di 2.400 ore. Caratteristica di questi corsi è l’alternanza tra una parte
teorica (ridotta) e il tirocinio sul posto di lavoro, che invece occupa una
parte rilevante del monte ore. I corsi prelavorativi
non si prefiggono l’obiettivo di una qualifica, ma si preoccupano di aumentare
l’autonomia globale dell’allievo in modo da rendere
possibile un collocamento lavorativo in attività che prevedano lo svolgimento
di mansioni semplici. Cfr. i
volumi: Formare per l’autonomia -
Strumenti per la preparazione professionale degli handicappati intellettivi,
di Maria Grazia Breda e
Marcella Rago, Rosenberg
& Sellier, Torino e II lavoro conquistato - Storie di inserimenti di handicappati
intellettivi in aziende pubbliche e private, di Emilia De Rienzo,
Costanza Saccoccio e Maria
Grazia Breda, Rosenberg
& Sellier, Torino.
(8) Cfr. “Valido
protocollo di intesa per la istituzione di un servizio
intercomunale per l’inserimento lavorativo di soggetti con handicap e per la
sperimentazione del collocamento mirato”, Prospettive
assistenziali, n. 134, 2001.
(9) Negli anni 2000/2004 le risorse comprendevano:
- fondo
nazionale disabili (articolo 13 della legge 68/1999): euro 14.671.820,69;
- fondo
regionale disabili (articolo 14 della legge regionale 51/2000):
anni 2002-2003: euro 7.071.786,47;
anni 2004-2005: euro 4.142.063,18;
- risorse complementari (programmazione Obiettivo 3 del
Fondo sociale europeo per disabili), per gli anni 2000/2003: euro 4.668.150,62;
euro 1.807.599,17; euro 1.549.370,70.
(10) Con il termine tutor si indica
l’operatore che accompagna la persona, con difficoltà dovute alla sua
minorazione, nel percorso di inserimento al lavoro. Nel volume Inserimento al lavoro di persone con
svantaggio intellettivo: l’esperienza Mosil, Edizioni
Cep, i compiti del tutor sono così riassunti: «Acquisisce
la documentazione disponibile e le informazioni utili alla conoscenza delle
persone a lui affidate; crea e/o mantiene relazioni fiduciarie e costruttive
con le persone inviate in tirocinio e a lui affidate; sostiene le persone
nell’affrontare le difficoltà connesse allo svolgimento del tirocinio (in
alcune situazioni ciò può anche comportare, soprattutto nella fase iniziale del
tirocinio, l’affiancamento del tirocinante sul posto
di lavoro e lo svolgimento delle stesse mansioni a lui affidate); controlla
costantemente l’andamento del tirocinio ed interviene prontamente
quando si delineano anomalie o problemi di qualunque tipo nel rapporto
azienda/persona svantaggiata (per individuare l’intervento più appropriato e
trovare soluzione ai problemi si confronta, se necessario, con il gruppo di
riferimento (…)».
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