Prospettive assistenziali, n. 153 bis, gennaio - marzo 2006
CONCLUSIONI OPERATIVE
In una situazione in cui molti
dei diritti dei bambini appaiono labili e scarsamente esigibili, scopo di
questo convegno è stata l’individuazione, sulla base
delle pluriennali esperienze realizzate nel nostro Paese, degli atti occorrenti
per garantire interventi idonei a:
- prevenire gli abbandoni che
mettono in pericolo la vita dei neonati;
- evitare gli infanticidi;
- fornire alle gestanti le
prestazioni necessarie perché possano assumere con la massima
responsabilizzazione possibile le decisioni circa il riconoscimento o il
non riconoscimento dei loro nati (ogni anno in Italia nascono circa 400 minori
non riconosciuti);
- garantire ai minori, con
particolare riguardo a quelli in condizioni di disagio, le prestazioni previste
dalle leggi 184/1983 e 149/2001 per la loro migliore crescita possibile
(sostegno al nucleo familiare di origine, adozione,
affidamento a scopo educativo, comunità, a seconda delle situazioni).
Allo scopo di evitare gli
infanticidi e gli abbandoni che mettono a repentaglio la sopravvivenza dei
bambini, le vigenti disposizioni di legge (vedi allegato 1) attribuiscono a tutte le donne tre importanti diritti:
- garanzia del segreto del parto;
- scelta se riconoscere o meno come figlio il proprio nato;
- informazioni esaurienti,
comprese quelle relative alla possibilità di un
periodo di riflessione successivo al parto in merito alla decisione concernente
il riconoscimento.
Il convegno è stato promosso
anche nella prospettiva di costruire un sistema di
iniziative permanenti di “Gemellaggio sociale” (vedi allegato 2) che metta in
relazione istituzioni, enti pubblici e organizzazioni private con l’obiettivo
di assicurare diritti esigibili anche ai cittadini in difficoltà, per quanto
concerne le loro esigenze fondamentali di vita.
Nel corso del convegno sono state
distribuite le proposte per un linguaggio appropriato in materia di adozione (vedi allegato 3).
Il convegno è stato organizzato
dall’Associazione promozione sociale e dall’Assessorato alla solidarietà sociale della Provincia di Torino, con il patrocinio
dell’Assessorato al welfare e lavoro della Regione
Piemonte e quello della Città di Torino.
Preso atto delle competenze
attribuite alle Province dalla legge 2838 del 1928, richiamate
dal 5° comma dell’articolo 8 della legge 328/2000, le questioni importanti, su
cui lavorare, sono risultate essere le seguenti:
1. il trasferimento ai Comuni
delle funzioni riguardanti l’assistenza ai minori nati fuori del matrimonio, nonché quelle assegnate alle Province dalla legge di
scioglimento dell’Onmi. Inoltre, sarebbe auspicabile
che detto trasferimento venisse effettuato anche nei
confronti dei soggetti (adulti e minori) definiti dal regio decreto 383/1934 «ciechi e sordi poveri rieducabili» in
modo da eliminare l’odiosa separazione delle competenze relative ai nati nel o
fuori dal matrimonio e l’assurda distinzione fra ciechi e sordi «poveri rieducabili» e gli altri
soggetti colpiti da handicap sensoriale ma non in condizione di povertà;
2. la predisposizione di servizi
(almeno uno per ciascuna Regione con un numero limitato di abitanti;
per
3. le disposizioni per
l’attuazione dei punti precedenti dovrebbero essere assunte mediante legge,
come previsto dal 5° comma dell’articolo 8 della legge
328/2000;
4. l’individuazione
di un numero verde a cui le donne in difficoltà e le organizzazioni sociali
interessate al problema possano rivolgersi per ottenere le informazioni
necessarie. Per quanto concerne
Di particolare importanza il
documento inviato ai partecipanti dall’On. Antonio De Poli (vedi allegato 4),
Assessore alle politiche sociali della Regione Veneto e Presidente del
Coordinamento degli Assessori regionali preposti ai servizi
socio-assistenziali, che si è impegnato a farsi portavoce in sede nazionale
dell’esigenza della predisposizione di linee guida
concernenti:
- l’attivazione
delle iniziative di prevenzione da attuare attraverso campagne pubblicitarie
anche a livello locale;
- l’individuazione degli atti
necessari per garantire gli interventi occorrenti alle gestanti e alle madri in
condizioni di disagio e ai loro nati;
- la definizione di percorsi
formativi rivolti a tutti coloro che operano nel
settore, affinché siano in possesso di una preparazione specifica riferita
anche alle conseguenze negative a medio e lungo termine derivanti dai
riconoscimenti forzati.
Nell’allegato 5 sono riportati la relazione e il
testo della proposta di legge presentata dalla Giunta regionale piemontese,
preannunciata dall’Assessore al welfare.
Allegato 1
Nota giuridica
1. Ai sensi del 5° comma
dell’articolo 8 della legge 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali”
alle Regioni è stato attribuito il compito di disciplinare il trasferimento ai
Comuni o ad altri enti locali delle funzioni di cui alle leggi 6 dicembre 1928
n. 2838 e 18 marzo 1993 n. 67 concernenti le prestazioni obbligatorie relative
alle gestanti e madri, ai nati fuori dal matrimonio, ai bambini non
riconosciuti, nonché ai ciechi e sordi poveri rieducabili (così definiti dal
regio decreto 383/1934). Con la legge di cui sopra le Regioni
devono, inoltre, definire il passaggio ai Comuni o ad altri enti locali delle
risorse umane, finanziarie e patrimoniali occorrenti per l’esercizio delle
succitate funzioni.
2. La legge 6 dicembre 1928 n.
2838 stabilisce che le Amministrazioni provinciali devono assistere i fanciulli figli di ignoti ed i bambini nati fuori dal
matrimonio riconosciuti dalla madre e in condizione di disagio socio-economico.
È, altresì, previsto che «nelle Province,
nelle quali lo consiglino le condizioni locali, l’assistenza del fanciullo deve, ove sia possibile, avere inizio all’epoca
della gestazione della madre».
3. La legge 18 marzo 1993 n.
4. Poiché la sentenza della Corte
costituzionale 171 del 5 maggio 1994 dispone che «qualunque donna partoriente, ancorché da elementi informali risulti trattarsi di coniugata, può dichiarare di non volere
essere nominata nell’atto di nascita», anche le donne coniugate possono non
riconoscere i loro nati.
5. Ai sensi dell’articolo 93 del
decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196 “Codice in materia di protezione dei
dati personali”, il certificato di assistenza al parto
e la cartella clinica in cui siano contenuti dati personali che rendono
identificabile la donna che non ha riconosciuto il proprio nato, possono essere
rilasciati in copia integrale a chi vi ha interesse in conformità della legge,
decorsi cento anni dalla formazione del documento.
6. Al bambino non riconosciuto viene attribuito dall’ufficiale di stato civile un cognome e
un nome; è quindi segnalato al Tribunale per i minorenni ai fini della
dichiarazione di adottabilità.
Allegato 2
Carta del gemellaggio sociale
“La protezione dei diritti fondamentali è un principio fondativo
dell’Unione europea, è il presupposto indispensabile della sua legittimità”.
“Oggi il concetto stesso di democrazia è inscindibile da quello dei diritti
dell’Uomo”
(Norberto
Bobbio).
La solidarietà sociale si deve
confrontare con il grande e problematico tema dei
valori all’interno di uno stato laico: l’affermazione e la creazione di
condizioni affinché i diritti della persona siano effettivamente esigibili e
fruiti dai singoli cittadini, in quella logica che Norberto Bobbio
ha definito la “religione civile del nostro tempo”.
A
partire da
questo approccio, il concetto di solidarietà sociale e di assistenza perdono
completamente la valenza di elargizione benevola o scelta opinabile di rapporti
tra persone, ma al contrario da parte delle Istituzioni nasce un obbligo alle
azioni che garantiscono l’attuazione concreta dei diritti.
Questo può avvenire solo all’interno di
una cultura della pace, della legalità ed in un quadro di sicurezza (oggettiva
e percepita) che, uniche a livello locale, nazionale ed internazionale, possono
garantire le condizioni per l’affermazione in pratica dei diritti dei singoli,
dei gruppi e delle nazioni.
Solo in questo senso ci si può porre, infine, il problema
della qualità della vita dei cittadini, la quale attraversa tutti gli aspetti
della vita umana e definisce il modo in cui avviene la fruizione
dei diritti.
La motivazione delle azioni si ispira
pertanto ai principi della legge di riforma dell’assistenza (legge 328/2000)
che definisce i diritti esigibili. Non sempre i diritti sono effettivamente fruibili
in analoga misura da parte di tutti i cittadini, a fronte di diverse condizioni
socio-economiche, urbanistiche e sanitarie, pertanto
si ritiene che il compito delle Istituzioni sia quello di concorrere a
contribuire all’appianamento delle differenze e al miglioramento delle
condizioni di fruibilità e applicabilità dei diritti dei cittadini.
Nasce così un’idea di cittadinanza non solo più legata al
territorio, ma espressiva di una serie di attribuzioni
di cui nessuno può essere privato. La costruzione dal basso di una rete di
diritti tende a realizzare una tessitura giuridica che offre a
tutti la possibilità di essere riconosciuti come cittadini. Servono
istituzioni che incarnino questa funzione.
Le Province, ispirandosi ai Principi della Dichiarazione
universale dei diritti umani, della Carta europea dei diritti
fondamentali, della Costituzione italiana, ritengono importante:
- che ad ogni individuo, per il solo fatto di essere
nato, debbano essere riconosciuti i diritti elementari di salute, educazione,
uguaglianza di opportunità ed il diritto alla felicità
e alla pienezza della propria esistenza;
- che il tema della centralità
della persona, del diritto di avere un progetto di vita e lavorativo in un
clima di tolleranza e di pace, coinvolga tutti i soggetti presenti nel
territorio: i cittadini, le associazioni, le imprese e la pubblica
amministrazione;
- che si crei un sistema di iniziative
che metta in relazione enti ed istituzioni finalizzate alla diffusione dei
diritti fondamentali della persona e alla consapevolezza della loro esigibilità
al fine di predisporre su tutto il territorio nazionale politiche volte a:
3 contrastare la povertà;
3 favorire il benessere e sostenere la domiciliarità delle persone anziane e disabili;
3 aver cura e sostenere i minori, anche stranieri non
accompagnati, in situazione di disagio;
3 sostenere i nuclei familiari, con attenzione
particolare ai tempi dedicati al lavoro e alla cura;
3 tutelare le gestanti e il diritto dei bambini alla
famiglia;
3 sostenere iniziative di solidarietà e auto-aiuto;
3 perseguire le pari opportunità e contrastare le
discriminazioni;
- che si debba
alimentare lo spirito che anima l’esercizio dei diritti di cittadinanza, la partecipazione, la
capacità di assumere responsabilità, la diffusione della cultura della
solidarietà e della pace.
Le Province si impegnano a:
• coinvolgere altre Province ed enti nella diffusione di
progetti rivolti a tutelare e garantire i diritti
della persona e a limitare le disuguaglianze, realizzando il principio di sussidiarietà, non come un fatto episodico e contingente,
bensì come un impegno strategico, valorizzando il rapporto con la comunità, al
cui servizio sono istituiti;
• costruire un sistema di iniziative
che metta in relazione enti ed istituzioni finalizzato alla diffusione dei
diritti fondamentali della persona, che consenta alle Autonomie locali di
approfondire ed integrare i principi e i diritti stabiliti nella legge
328/2000;
• avviare un processo in cui si promuova la discussione
comune di tematiche sociali, con particolare
attenzione ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, alla situazione dei
minori stranieri non accompagnati, alle situazioni di marginalità sociale e
alla prevenzione di situazioni di vulnerabilità, alle condizioni di vita delle
persone disabili e anziane, ai diritti di cittadinanza delle persone che da
anni vivono e lavorano nel nostro paese, valorizzando le esperienze che
producono impatto positivo e innovazione sociale;
• perseguire finalità comuni, che
abbiano come obiettivo la crescita della solidarietà, l’arricchimento del
“capitale sociale e culturale” finalizzato alla lotta all’esclusione sociale,
alla povertà e la modernizzazione della tutela della persona e dei diritti
esigibili.
Allegato 3
Proposte per un linguaggio appropriato in materia di adozione (1)
Riportiamo le
proposte avanzate da un gruppo di genitori adottivi per l’uso corretto di
termini usati nel campo dell’adozione. Occorre, infatti, tenere presente che
l’uso di questo o quel vocabolo può avere ripercussioni anche molto negative sulla vita delle persone coinvolte. Inoltre,
com’è noto, le parole hanno tutte un significato con
profondi riflessi sul piano sociale e istituzionale.
1. I bambini non si tolgono
I bambini adottati (ma lo stesso si potrebbe dire per
quelli affidati) non sono stati tolti ai loro genitori dai giudici minorili: i
magistrati, invece, con i loro provvedimenti, li hanno sottratti ad una vita di
privazioni che spesso li hanno segnati anche duramente.
Non usiamo più questo verbo quando
si parla di bambini allontanati dal loro nucleo familiare: è un dovere delle
istituzioni tutelarli e proteggerli.
È però necessario che questi bambini non vengano dimenticati dagli operatori e dai giudici per anni
negli istituti e nelle comunità. Nei casi in cui la situazione non sia
risolvibile mediante adeguati aiuti psico-sociali
alle famiglie d’origine, occorre che le istituzioni procedano al più presto al
loro inserimento, a seconda delle situazioni, in una
famiglia adottiva o affidataria, come previsto dalla
legge 184/1983.
2. Bambini abbandonati
La scelta che compie la donna, che decide per motivi
anche drammatici, di non diventare la madre del piccolo che ha partorito non
riconoscendolo come figlio, compie una scelta responsabile che merita il
rispetto di tutti: quel piccolo non è abbandonato bensì consegnato alle istituzioni
perché lo inseriscano al più presto in una famiglia.
Il bambino non riconosciuto, e quindi affidato alle
istituzioni, non è abbandonato; va considerato tale solo quello che viene lasciato in luoghi dove la sua vita è messa a
repentaglio!
Se passa del tempo prima che sia
inserito in famiglia e quindi è costretto a trascorrere mesi di vita in
ospedale o in comunità, privo delle cure familiari indispensabili per la
crescita di ogni bambino, la responsabilità di questa situazione non è della
donna che non l’ha riconosciuto, ma delle istituzioni che non sono intervenute
tempestivamente.
Il problema tempo è sovente molto sottovalutato: alcuni
giudici minorili e operatori sociali pensano ancora che non sia grave se questo
neonato passa alcuni mesi in comunità prima dell’inserimento in una famiglia, in attesa del decreto di adottabilità. Invece
cambia molto se ci mettiamo dal punto di vista del bambino e non dell’adulto. Esiste
ancora troppa ignoranza o noncuranza riguardo alle conseguenze delle carenze di cure affettive sul bambino!
3. I figli adottati sono figli veri
Il rapporto che unisce figli e genitori adottivi è fondato sulla conoscenza reciproca, su legami affettivi costruiti
giorno dopo giorno, in modo non sempre facile e lineare, ma forte ed autentico.
Siamo diventati i loro genitori veri conquistandoci giorno dopo giorno un posto nel loro cuore. Siamo i loro genitori, senza
nulla togliere a quelli che hanno dato loro la vita e non sono riusciti a fare
loro da madre e padre.
È quindi ora di smettere di usare il termine “veri”
riferito ai genitori d’origine.
4. Adozioni fallite
Se ne parla molto in questi ultimi anni. Ma vogliamo fermarci a riflettere su chi ha fallito? Si
sbaglia, e di grosso, a scaricare solo sui genitori la responsabilità di inserimenti spesso tardivi di bambini e bambine, che
hanno subito a volte non solo la privazione di cure dalla famiglia d’origine,
ma che continuano a pagare, in prima persona, i ritardi, le incertezze delle
istituzioni (amministratori, operatori, giudici, ecc.) che avrebbero dovuto
occuparsi presto e bene di loro.
Sono le stesse
istituzioni che dovrebbero scegliere la famiglia migliore per loro e che invece
si sono talvolta limitati a prendere atto di disponibilità che devono essere
attentamente verificate, perché non sempre coincidono con la capacità di far
fronte alle esigenze di bambini chiaramente provati. L’amore non basta!
Forse dovremmo, più
propriamente, parlare di amministratori, giudici,
operatori che hanno fallito, facendo pagare alle famiglie (figli, per primi, e
genitori adottivi) la loro impreparazione, le loro scelte, i loro pregiudizi.
Le vere adozioni fallite sono quelle che non sono state
realizzate, quelle dei minori che pur essendo in stato di adottabilità
non sono stati adottati. Cogliamo anche questa occasione
per denunciare le gravissime inadempienze del Ministro della giustizia che non
ha ancora istituito la banca dati relativa ai minori dichiarati adottabili e
non adottati: questi bambini, grandicelli, malati o
handicappati – di cui nessuno parla – hanno diritto ad avere una famiglia.
5. Sostegno a distanza
È scorretto
utilizzare la denominazione adozione a distanza per indicare iniziative dirette
a supportare progetti nei confronti di bambini e dei loro familiari nei Paesi
del Sud del mondo.
L’adozione è l’atto sociale e giuridico in base al quale
i bambini diventano figli a tutti gli effetti di genitori che non li hanno
procreati e, parallelamente, i genitori diventano padre
e madre di un figlio non nato da loro. Pertanto utilizzare la denominazione
adozione a distanza in questo contesto comporta
connotazioni riduttive per l’adozione. Analoghe considerazioni negative valgono
per le varie “adozioni” fasulle propagandate continuamente da giornali, radio e
televisioni (adotta un nonno, adotta un delfino,
adotta un cane, adotta una strada, adotta un monumento…).
Allegato 4
Lettera dell’On. Antonio De Poli, Assessore alle
politiche sociali della Regione Veneto e Coordinatore interregionale degli
Assessori alle politiche sociali.
Proposta di tematiche da approfondire inerenti il diritto di tutti i
bambini fin dalla nascita alla famiglia e la prevenzione dell’abbandono.
Premessa
La normativa
italiana vigente attribuisce alle donne tre importanti
diritti:
• il diritto alla scelta se
riconoscere come figlio il bambino procreato (sentenza n. 171 del 5 maggio 1994
della Corte costituzionale);
• il diritto alla segretezza del
parto per chi non riconosce il proprio nato. In questo caso viene avviata una segnalazione alla Procura della Repubblica
presso il Tribunale per i minorenni e, in base alla legge 184/1983, viene
formulata la dichiarazione di adottabilità. L’articolo 11 della legge concede
per un periodo massimo di due mesi la sospensione dell’adottabilità;
• il diritto all’informazione deve estendersi di diritto ad ogni donna per poter decidere liberamente nei
riguardi del riconoscimento (v. possibilità di un periodo di riflessione
successivo al parto per decidere in merito al riconoscimento, v. conoscenza
della disciplina legislativa e degli aiuti sociali).
La situazione normativa attuale
In base alla legge 328/2000 di riforma dell’assistenza e
dei servizi sociali, le competenze in materia sono attribuite al Comuni. Tuttavia il 5° comma dell’articolo 8 della
suddetta legge prevede che le Regioni possono affidare le attuali funzioni assistenziali delle Province ai Comuni oppure ad altri enti
locali e cioè, ad esempio, alle stesse Province oppure a Consorzi fra Comuni e
Province.
Attualmente alle Province sono attribuite le
seguenti competenze che esse continueranno ad esercitare fino ad approvazione
di una legge nazionale o regionale di modifica delle norme vigenti:
– assistenza ai minori nati fuori del matrimonio;
– funzioni assistenziali già
svolte dall’Onmi in materia di minori nati nel
matrimonio, nonché di gestanti e madri aventi difficoltà socio-economiche
(legge n. 67/1993). Ciò non in tutte le
Regioni;
– i ciechi e sordi poveri rieducabili.
L’emergenza del problema
La Commissione pari opportunità del Ministero pari
opportunità riferisce che in Italia sono circa 3.000 i neonati abbandonati e
ritrovati: il 73% è figlio di italiane, il 27% di
immigrate (tale dato comunque si rivela in costante aumento), prevalentemente
tra i 20 e 40 anni. Le minorenni risultano il 6%.
È stata realizzata dal Ministero
una campagna informativa in 5 lingue contro l’abbandono dei piccoli rivolta, oltre alle mamme, alle gestanti
e alla gente comune, al personale sanitario, ai Comuni, ai politici, alle
associazioni del privato sociale e del volontariato. Da ricerche effettuate
dallo stesso Ministero emerge che l’abbandono dei minori riguarda tutti i ceti
sociali: l’unica costante è la solitudine della donna insieme alla paura del
giudizio in casa, in famiglia, ancora più forte nei piccoli paesi.
Inoltre il 1° rapporto di aggiornamento
sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza
in Italia (anno 2004-2005), realizzato da 35 associazioni italiane e
internazionali che si occupano del problema, evidenzia che i piccoli non
riconosciuti dichiarati adottabili sono circa 350-400 ogni anno.
L’altra emergenza assolutamente
preoccupante riguarda gli infanticidi: essi sono in costante aumento: 12 nel
1998, 14 nel 1999, 20 nel 2000 e 63 nel 2001.
Quale Coordinatore degli Assessori alle politiche sociali
pongo al dibattito e alla riflessione di quanti oggi
partecipano al convegno con la loro esperienza e professionalità alcune
tematiche di cui riferirò, con il vostro contributo, in sede tecnica nazionale
del coordinamento degli Assessori e che successivamente potranno “tradursi” in
Linee guida nazionali.
Esse potrebbero dare indicazioni rispetto al
raggiungimento di alcuni sub-obiettivi, tenuto
presente che l’obiettivo prioritario e da tutti condiviso è quello di garantire
ai bambini e agli adolescenti la tutela dei diritti fondamentali alla salute,
alla crescita, alla famiglia, ecc., nella consapevolezza che dovranno
parallelamente essere eliminate le discriminazioni in materia di assistenza ai
minori in modo da evitare conflitti di competenza, sovrapposizione di
interventi, e promossi i necessari provvedimenti affinché tutte le funzioni
socio-assistenziali inerenti i minori siano attribuite ai Comuni. Ciò si è già
realizzato in Emilia Romagna (legge regionale 2/2003) e in Piemonte (legge
regionale 1/2004).
Pertanto i punti che ritengo importante proporre alla
vostra riflessione e di cui mi farò portavoce in sede nazionale sono i
seguenti:
1. individuazione, sulla base
delle pluriennali esperienze realizzate nel nostro Paese, degli atti occorrenti
per garantire interventi idonei a prevenire gli abbandoni che mettono in
pericolo la vita dei neonati, per evitare gli infanticidi e per fornire alle
gestanti le prestazioni necessarie perché possano assumere con la massima loro
responsabilizzazione possibile le decisioni circa il riconoscimento o il non
riconoscimento dei loro nati e ciò si rende possibile solamente se sono loro
garantiti i diritti sopra citati (scelta se riconoscere o meno il neonato come
figlio, diritto alla segretezza del parto, diritto all’informazione);
2. attivazione e/o potenziamento di interventi
di prevenzione attraverso campagne pubblicitarie anche locali che tengano conto
delle peculiarità culturali e sociali territoriali;
3. definizione di
protocolli a livello territoriale (v. associazioni di Comuni, di Asl, convenzioni con il privato
sociale, il volontariato, questura) per individuare percorsi comuni di
informazione-formazione, di intervento, di reperimento di risorse e comunque di
supporto alle gestanti e alle madri in grave difficoltà anche attraverso, ad
esempio, la disponibilità di stanze letto singole al momento del parto,
ospitalità presso comunità in cui la donna possa essere accompagnata da personale
competente, nei due mesi dopo il parto, nel momento in cui deve prendere la
decisione se riconoscere o meno il proprio nato;
4. sollecitazione
perché nei piani di zona venga assunta questa
problematica e definite le modalità di
risposta e di reperimento delle risorse;
5. esigenza di formazione per tutti coloro
che vengono a contatto con queste situazioni. Non solo pertanto è necessario
conoscere la normativa vigente rispetto all’assistenza sociale, psicologica e
sanitaria prima, durante e dopo il parto, qualunque sia la propria scelta
(tutelando così il diritto alla salute del nascituro), ma soprattutto deve
essere considerata l’estrema delicatezza degli interventi rivolti ad ottenere
in tutta la misura del possibile che il riconoscimento o il non riconoscimento vengano decisi in modo responsabile. Ciò comporta che gli
interventi siano forniti da personale non solo specializzato (psicologi,
assistenti sociali, educatori), ma anche in possesso di una preparazione
specifica riferita anche alle conseguenze negative a medio e
lungo termine derivanti dai riconoscimenti forzati, che purtroppo ancora
avvengono e che determinano frequentemente abbandoni tardivi dei bambini con
effetti negativi molto difficilmente recuperabili.
Allegato 5
Proposta di legge della Regione Piemonte per il sostegno alle gestanti e
madri in condizione di disagio
Relazione
1. Oggetto e finalità del disegno di legge
Poiché le linee guida dell’articolo 58 sono rivolte all’“esercizio delle
competenze”, l’attribuzione della competenza istituzionale a soggetti gestori
diversi da quelli individuati dall’articolo 5, comma 4, della legge regionale
n. 1/2004 (2) deve necessariamente essere prevista con una modifica
legislativa, si è scelto quindi di predisporre un testo snello che si limita a
sancire la competenza istituzionale demandando ad un successivo atto di giunta
regionale il dettaglio dell’esercizio della funzione. Ciò appare più confacente
allo spirito della legge regionale n. 1/2004 che sancisce principi e competenze
più che disciplina di dettaglio e consente inoltre di approfondire le modalità di esercizio della funzione con un atto amministrativo, per
propria natura più agile e facilmente modificabile nel tempo.
Con questo disegno di legge si intende quindi modificare la legge regionale n. 1/2004
nel senso di affidare solo ad alcuni enti gestori delle funzioni
socio-assistenziali istituzionali del Piemonte, individuati dalla Giunta
regionale di concerto con i Comuni, le competenze relative agli interventi
socio-assistenziali nei confronti delle gestanti che necessitano di specifici
sostegni in ordine al riconoscimento o meno dei loro nati, compresi quelli
volti a garantire il segreto del parto, ed ai necessari interventi a favore dei
loro neonati. Per i neonati non riconosciuti gli interventi sono garantiti fino
all’adozione definitiva.
2. Obiettivi dell’intervento.
Le vigenti leggi riconoscono alle
donne tre importanti diritti: il diritto alla scelta se riconoscere come figlio
il bambino procreato, il diritto alla segretezza del parto per chi non
riconosce il proprio nato, il diritto all’informazione, compresa quella relativa alla possibilità di un periodo di riflessione successivo
al parto per decidere in merito al riconoscimento.
Per quanto
riguarda il diritto alla scelta, la sentenza n. 171 del 5 maggio 1994 della
Corte costituzionale recita: «qualunque
donna partoriente, ancorché da elementi informali risulta trattarsi di
coniugata, può dichiarare di non volere essere nominata nell’atto di nascita». È da sottolineare che la gravidanza può innestarsi in una
condizione di disagio preesistente della donna, ed essere quindi vissuta con
estrema difficoltà e fatica. Laddove la gravidanza si colloca
in un percorso di grave problematicità sono necessari interventi di
sostegno mirati, per consentire alla donna stessa una maggiore serenità, per
valutare la possibilità del riconoscimento o del non riconoscimento.
Il diritto alla segretezza del
parto, che deve essere garantito da tutti i servizi sanitari e sociali
coinvolti, è assicurato dalla redazione dell’atto di nascita da parte dell’Ufficiale di Stato civile. I passaggi istituzionali
successivi (dichiarazione dello stato di adottabilità,
sua eventuale sospensione per un periodo massimo di due mesi, nonché
particolari casistiche relative alle partorienti minorenni) sono normati dalla legge 183/1984 e successive modifiche
disposte dal Tribunale per i minorenni.
Il diritto all’informazione va
inteso come il diritto di ogni donna a ricevere una
corretta e tempestiva conoscenza della disciplina legislativa e degli aiuti
sociali per poter decidere liberamente nei riguardi del riconoscimento.
L’esercizio dei diritti di cui
sopra può essere adeguatamente garantito soltanto in un’ottica globale d’intervento che prenda in esame e tenda al
superamento della situazione complessiva della gestante fin dalle prime fasi
della gravidanza o comunque dal manifestarsi dello stato di difficoltà.
La presente modifica di legge
nasce dalla considerazione che i predetti diritti in capo alle gestanti e madri
possano essere efficacemente ed efficientemente tutelati da parte di soggetti
istituzionali di ampia dimensione territoriale
(soprattutto in ordine all’esigenza di segretezza) e in grado di garantire
operatori con specifica preparazione professionale in una materia oltremodo
delicata.
3. Aspetti contabili e finanziari
Il disegno di legge non comporta ulteriori oneri a carico dell’amministrazione regionale
rispetto a quanto già previsto nella legge regionale n. 1/2004, bensì solo una
diversa allocazione delle risorse.
Considerato che il fenomeno su
cui interviene la presente modifica di legge non è prevedibile, poiché la spesa
storica distinta riguarda soltanto gli interventi relativi ai
nati non riconosciuti, la delibera della Giunta regionale prevista al comma 9
contemplerà una fase sperimentale e transitoria anche ai fini dell’assegnazione
delle risorse.
Testo
Articolo 1
1. Dopo il comma 5 dell’articolo
9 della legge regionale 8 gennaio 2004, n. 1 (Norme per la realizzazione del
sistema regionale integrato di interventi e servizi
sociali e riordino della legislazione di riferimento) (3), sono aggiunti,
infine, i seguenti commi:
«5 bis. Le funzioni relative agli interventi socio-assistenziali nei confronti
delle gestanti che necessitano di specifici sostegni in ordine al
riconoscimento o non riconoscimento dei loro nati e al segreto del parto sono
gestite dai soggetti gestori individuati dalla Giunta regionale, sentita la
competente Commissione consiliare e previa concertazione con i comuni.
«5 ter.
Nei primi sessanta giorni dopo il parto, tali soggetti gestori garantiscono
alle donne di cui al comma 5 bis, già assistite come gestanti, e ai loro nati,
gli interventi socio-assistenziali, al fine di sostenere il loro reinserimento
sociale. Dopo tale periodo ai medesimi soggetti è assicurata la continuità assistenziale secondo i criteri e le modalità attuative
previsti dal comma 5 quinquies. Gli interventi
socio-assistenziali a favore dei neonati non riconosciuti sono
garantiti dai medesimi soggetti fino alla adozione definitiva.
«5 quater.
Gli interventi di cui al comma 5 bis sono erogati su
richiesta delle donne interessate e senza ulteriori formalità,
indipendentemente dalla loro residenza anagrafica.
«5 quinquies.
Con il provvedimento di individuazione dei soggetti
gestori competenti di cui al comma 5 bis,
«5 sexties. Le risorse necessarie a finanziare le attività
trovano specifico stanziamento nel fondo regionale di cui all’articolo 35,
comma 7».
(1) Testo tratto da Prospettive
assistenziali, n. 149, 2005.
(2) (N.d.R.)
Il 4° comma dell’articolo 5 della legge della Regione Piemonte n. 1/2004
stabilisce quanto segue:
«Entro i termini
e sulla base di indicazioni individuati dalla Giunta
regionale di concerto con le Province e gli enti gestori istituzionali, le
Province trasferiscono agli enti gestori istituzionali del proprio territorio
la gestione delle funzioni di cui all’articolo 5 della legge 18 marzo 1993, n.
67 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 18 gennaio 1993,
n. 9, recante disposizioni urgenti in materia sanitaria e socio assistenziale)
relative ai non vedenti, agli audiolesi, ai figli minori riconosciuti dalla
sola madre, ai minori esposti all’abbandono, ai figli minori non riconosciuti
ed alle gestanti e madri in difficoltà, mettendo a disposizione di tali enti le
risorse umane, patrimoniali e finanziarie utilizzate alla data di entrata in
vigore della legge nazionale».
(3) (N.d.R.)
L’articolo 9 della legge della Regione Piemonte n. 1/2004 sancisce quanto
segue: «1.
«2. La gestione in forma singola dei Comuni capoluogo di provincia è idonea a garantire
l’efficacia e l’efficienza degli interventi e dei servizi sociali.
«3. Per la gestione associata delle funzioni, i
Comuni adottano le forme associative previste dalla legislazione vigente che
ritengono più idonee ad assicurare una ottimale
realizzazione del sistema integrato degli interventi e servizi sociali,
compresa la gestione associata tramite delega all’Asl,
le cui modalità gestionali vengono definite con l’atto di delega.
«4. Gli enti gestori istituzionali che esercitano
le attività secondo le forme associative di cui al comma 3 applicano, qualora
previsto dai rispettivi statuti, le norme relative all’ordinamento
finanziario e contabile di cui alla parte II del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali), nonché, in quanto applicabili, le norme di
cui al titolo IV del medesimo decreto legislativo in
riferimento al personale dipendente.
«5. Le attività sociali a rilievo sanitario per la
tutela materno-infantile e dell’età evolutiva nonché per adulti ed anziani con limitazione dell’autonomia,
le attività di formazione professionale del personale dei servizi sociali e
quelle relative all’autorizzazione, accreditamento e vigilanza sui servizi e
sulle strutture sono obbligatoriamente gestite in forma associata ai sensi dei
commi 1, 2 e 3 o dai Comuni capoluoghi di provincia o dalle Asl
delegate. I soggetti gestori assicurano le attività sociali a rilievo sanitario
garantendone l’integrazione, su base distrettuale, con le attività sanitarie a
rilievo sociale e con le prestazioni ad elevata integrazione sanitaria di
competenza delle Asl».
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