Prospettive assistenziali, n. 153 bis, gennaio - marzo 2006
Sintesi delle relazioni e
degli interventi
Il convegno si è
svolto alla presenza di oltre trecentocinquanta persone.
Giulia De Marco: Apertura dei lavori
I lavori della
mattinata sono stati presentati da Giulia
De Marco, Presidente del Tribunale per i minorenni di Torino.
Dopo aver ricordato
come nel nostro Paese vi siano posizioni contrastanti
per cui vi è chi opera per promuovere una maternità consapevole e responsabile
e chi invece ritiene che la maternità non sia una scelta, ma un dovere da parte
della donna, ha riferito in merito ai dati sulle interruzioni di gravidanza a
Torino negli ultimi tre anni e sui non riconoscimenti in Piemonte e Valle
d’Aosta negli ultimi cinque anni.
Le interruzioni di
gravidanza a Torino presso l’Ospedale Sant’Anna erano 3.306 nel 2003, 3.612 nel 2004, 1.207 nel primo
trimestre del 2005. Negli ultimi cinque anni c’è stato un aumento esponenziale di non riconoscimenti alla nascita in Piemonte
e Valle d’Aosta: 24 nel 2001, 36 nel 2002, 47 nel 2003, 55 nel 2004, 35 nei
primi nove mesi del 2005.
Le donne che
scelgono di non riconoscere, secondo i dati dell’osservatorio del Tribunale per
i minorenni, non sono più tanto le adolescenti italiane,
quanto le donne straniere.
Eleonora Artesio: Presentazione del convegno e del progetto “Gemellaggio sociale”
Eleonora Artesio, Assessore alla solidarietà
sociale della Provincia di Torino, ha sostenuto che la rielaborazione
legislativa, in termini di politiche sociali, dalla legge 328 del
Purtroppo ancora
oggi si verifica che non sempre i diritti siano
concretamente esigibili e che siano proprio le persone in maggiore difficoltà
ad avere minori possibilità di esigerli.
L’Assessore Artesio ha poi individuato alcune tematiche
importanti in merito al convegno:
1. nel variegato
panorama nazionale le Regioni, nella loro autonomia legislativa, possono
trasferire le competenze ai diversi enti, ma «nel trasferimento delle competenze le specifiche modalità su specifici problemi possono essere rimosse, non citate, e
possono essere lasciati nell’indeterminazione alcuni passaggi». Quindi, pur
essendoci l’intenzione di voler agire nell’interesse del bambino, questa non
viene normata ed il conseguente disorientamento dell’operato dei servizi produce una effettiva impossibilità di
offrire opportunità adeguate;
2. «come la sensibilità politica e culturale si
esercita in una capacità di comprendere i messaggi, i canali e le forme in cui
la comunicazione sociale può prendere corpo; come
rendere più comprensibile un piano di comunicazione rispetto ai diritti
esigibili, ad esempio nel caso delle donne che non intendono riconoscere il
proprio bambino; come avvicinare le persone che ne sono normalmente escluse ai
circuiti formali della conoscenza, ma anche come costruire relazioni di
fiducia, ponendo anche attenzione ai canali di diffusione»;
3. «come dare occasione agli
operatori perché possano trovarsi nella possibilità di scambiare le loro
pratiche, facendo emergere i punti oscuri e le difficoltà».
Eleonora Artesio ha segnalato che si è pensato che, in virtù del
ruolo di programmazione asse-gnato alle Province e del ruolo di osservatorio
sulle politiche sociali ai sensi della legge 328 del 2000, potesse essere
assegnata proprio alle Province la responsabilità di tenere aperta la
discussione pubblica, come forma di tutela informale che può spingere
all’elaborazione legislativa ed operativa.
Da questo è nata
l’idea del “Gemellaggio socia-le” (4) con il quale le
Province si impegnano a diffondere progetti di tutela e garanzia dei diritti
delle persone, coinvolgendo altri enti, al fine di consentire alle Autonomie
locali di approfondire ed integrare i principi e i diritti stabiliti nella
legge 328/2000, avviare un processo di discussione comune sulle tematiche
sociali, onde perseguire finalità comuni, con particolare attenzione ai diritti
dell’infanzia e dell’adolescenza, alle situazioni di marginalità sociale, alle
condizioni di vita delle persone disabili ed anziane, ai diritti di
cittadinanza delle persone straniere che da anni vivono e lavorano nel nostro
Paese.
Marisa Persiani:
Le esigenze affettive dei bambini e gli
interventi necessari per assicurare consapevoli riconoscimenti o non
riconoscimenti dei propri nati
Marisa Persiani, psicologa e psicoterapeuta, responsabile dell’Ufficio famiglia della
Provincia di Roma e Giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di
Roma, ha evidenziato come per ciascun individuo la nascita sia il punto di partenza
della vita e che «per rispondere ai
bisogni di un bambino è necessario partire dalla predisposizione base della
donna che lo genera, dalla motivazione, dal significato e dalle condizioni che
hanno determinato il suo concepimento». Vi è quindi la necessità di «conoscere la donna che genera e in lei la
compatibilità possibile tra la dimensione generativa e quella genitoriale».
Nonostante la
predisposizione biologica al generare, per diventare effettivamente madre la
donna deve compiere un passaggio importante, di carattere psichico, in cui si identifica come madre, ne prende consapevolezza e sceglie
di assumersi la responsabilità che quel ruolo richiede.
«Un
bambino – ha ricordato la dottoressa Persiani – per “esistere” deve poter essere contenuto
dalla donna che lo ha generato in uno spazio uterale,
psichico interno, che va al di là della dimensione biologica e del presunto
“legame di sangue”. (…) È dunque necessario operare un
cambiamento culturale e morale dell’essere genitore, rintracciandone la vera
essenza».
In tutte le società
e in tutte le culture infatti il concetto di maternità
è legato a quello di sacralità, per cui la natura ha assegnato alla donna il
compito della continuazione della vita: “buone” sono le donne che si conformano
al compito, “cattive” quelle che lo rifiutano, meritando il giudizio e la
condanna.
«Probabilmente – come rilevato dalla Persiani
– da tali convinzioni deriva anche l’uso,
spesso improprio e connotato negativamente, del termine “abbandono” attribuito,
per esempio, anche alla scelta della donna di avvalersi della possibilità di
non riconoscere il bambino messo al mondo» ed ha puntualizzato che «intorno alla maternità sono tessuti luoghi
comuni e stereotipi che pre orientano la percezione
stessa della realtà e propongono una immagine difensiva di indissolubilità del
legame biologicamente dato, a difesa della sua sacralità e del rischio di
poterla mettere in discussione. A smentire tali convinzioni, intervengono
quelle gravidanze inattese, insostenibili, incompatibili, nell’assunzione della
funzione genitoriale, con quella donna, in quel particolare momento della sua esistenza».
Spesso purtroppo la
gravidanza per una donna è talmente difficile da accettare da essere negata e
da spingere ad azioni quali l’abbandono non protetto e addirittura
l’eliminazione del nato in quanto percepito come estraneo a sé o pericolo per
la propria esistenza.
«Oltre a tali situazioni estreme, anche
quelle che esprimono una relazione più o meno
marcatamente disfunzionale e che si manifestano con
episodi di grave incuria e maltrattamento, sovente approdano ai servizi
tardivamente, quando sono manifesti in modo visibile gli effetti; la loro presa
in carico spesso si realizza attraverso interventi frammentati e con modalità e
procedure non sempre condivise ed omogenee. Ciò produce costi elevati sul piano
personale, sia per il bambino che per la donna, per la
mancata attivazione di azioni funzionali al bisogno e, sul piano sociale, per
l’ingresso ed il permanere dell’individuo nei circuiti socio-assistenziali,
oltre che complicanze sul piano giuridico-amministrativo».
Le ricerche hanno evidenziato che sono aumentate le donne
a rischio di gravidanza inattesa e che alle adolescenti, alle pazienti
psichiatriche, alle tossicodipendenti e alle donne con gravi deprivazioni
personali e socio-ambientali si vanno aggiungendo, in
numero sempre maggiore, le donne straniere a tutela delle quali i servizi hanno
difficoltà ad intervenire perché percepite come irraggiungibili e difficilmente
intercettabili. «Le risposte finora messe
in campo – rileva
In merito al problema delle donne che scelgono di non
riconoscere i loro nati, l’Amministrazione provinciale di Roma, nell’ambito
delle competenze attribuitele dalla legge 328/2000,
dal decreto legge 286/1998 e dalla legge regionale 17/1990 ha promosso un piano
provinciale, in fase di attuazione, finalizzato a
proteggere la “nascita”.
Data l’estrema complessità degli interventi da attuare
nei confronti delle gestanti e delle madri, il piano prevede attività di informazione e di formazione unite ad azioni di sistema
con lo studio, l’analisi e il monitoraggio delle condizioni della donna in
rapporto alla maternità, la messa in rete e il coordinamento di strutture di
accoglienza per le gestanti, la promozione di interventi mirati al sostegno
della genitorialità responsabile e l’attivazione di
un numero verde. Sono inoltre previste azioni rivolte agli operatori dei
servizi quali la loro formazione, la costituzione di nuclei distrettuali
operativi e multidisciplinari.
«Il piano formativo
– ha continuato la dottoressa Persiani – rivolto agli operatori socio-sanitari
pubblici e privati, è caratterizzato da un approccio di formazione-azione in
una dimensione etnoculturale e si articola in spazi
formativi costituiti da lezioni, lavori seminariali,
di gruppo e con un follow-up a distanza di tre mesi
dalla sperimentazione del modello di protocollo operativo costruito. Prevede
sei incontri formativi della durata di cinque ore ciascuno, rivolto a cinquanta
operatori del distretto socio-sanitario, e due incontri di accompagnamento
del gruppo ristretto costituitosi per la costruzione del protocollo operativo
distrettuale con i docenti, singolarmente o congiuntamente, in relazione alle
specifiche esigenze manifestatesi in progressione. Le aree tematiche
individuate quale programma formativo sono: aspetti giuridico-amministrativi
correlati alla scelta della genitorialità e al
riconoscimento del minore; aspetti di competenza medico-ospedaliera, correlati
al periodo della gravidanza e del parto; aspetti psicologici della generatività e della genitorialità,
da articolarsi in una giornata; aspetti antropologici e culturali della generatività e della genitorialità,
con specifici riferimenti alla condizione di migrante; aspetti sociali della generatività e della genitorialità:
il lavoro di rete; restituzione e confronto, avvio del lavoro di costruzione
del protocollo operativo».
Alessandro Salvi:
Il sostegno psico-sociale prima, durante e dopo il parto è un servizio
indispensabile anche per la prevenzione dell’abbandono e dell’infanticidio
Alessandro Salvi, responsabile dell’area
programmazione dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, dopo aver esposto la
cornice legislativa in merito al non riconoscimento, ha ricordato come il
quadro normativo attualmente abbia minori riferimenti
alle leggi nazionali che in passato poiché la «legge 328 del
Salvi ha quindi evidenziato quale
è stato il percorso della Regione Toscana relativamente ai temi legati
all’abbandono e all’adozione e quali sono stati gli atti amministrativi in
merito: «Prima, con la deliberazione di
Giunta regionale n. 1218 del 12 novembre 2001, approvando un Accordo di
programma per l’applicazione delle leggi in materia di adozione
tra
Secondo Salvi tutto ciò non è sufficiente; bisogna quindi
definire linee guida per sostenere processi finalizzati a:
«1) promuovere
accordi e intese tra le diverse istituzioni per sancire un patto di
collaborazione che costituisca la necessaria premessa dell’integrazione tra i
diversi settori nello svolgimento del percorso di intervento
(sociale, sanitario, ospedaliero, educativo, giudiziario, amministrativo). Ciò
richiede di essere auspicabilmente inquadrato nei
principi legislativi dalle Regioni, ma poi rinvia anche a gradi successivi di
perfezionamento e attuazione che non escludono di passare attraverso strumenti
specifici di regolarizzazione e formalizzazione delle
intese e delle collaborazioni interistituzionali;
«2) determinare il
modello organizzativo più funzionale in relazione ai
seguenti criteri relativi al contesto preso in esame: dimensione relativa del
fenomeno; risorse disponibili; caratteristiche della realtà territoriale (sotto
il profilo socio-culturale, economico, geografico); forme di programmazione e
gestione delle politiche; modalità di gestione degli interventi; buone pratiche
in atto;
«3) riconoscere gli
snodi operativi del percorso di intervento, prima,
durante e dopo l’evento rappresentato dal non riconoscimento (il territorio ove
il bisogno può manifestarsi e l’impegno dei servizi a intercettare i fenomeni
di disagio della donna e del nucleo familiare; l’apporto delle strutture di accoglienza
per gestanti in gravi difficoltà psico-sociali; il
rapporto con gli operatori sanitari, il medico curante, i servizi distrettuali;
il contesto ospedaliero dove spesso il problema della scelta se riconoscere il
figlio emerge per la prima volta, con i complementi rappresentati dagli aspetti
delicati del ricovero e dell’accettazione e il ruolo dei reparti di ostetricia-ginecologia;
la fase post-parto, la denuncia di nascita, la segnalazione alla magistratura
minorile, la tutela e l’assistenza della donna);
«4) riconosciute le forme dei diversi “crocevia”, fornire ai servizi
protocolli operativi che – come bussole – sappiano delineare
il percorso interistituzionale e interdisciplinare, fondato su una rete
efficiente di servizi e che definiscano le procedure di intervento, così da
porre ogni operatore in grado di individuare e attivare canali operatori
corretti».
Alessandro
Salvi ha
concluso il suo intervento ricordando:
• «in primo luogo il valore della documentazione e del contributo che essa
può dare alla definizione delle esperienze, alla loro diffusione e
consolidamento; questo apporto specifico non è affatto
trascurabile se pensiamo, come bene testimoniano anche gli stessi protagonisti
del progetto “Madre segreta” di Milano e “Mamma segreta” di Prato, che
interventi migliori possono nascere proprio dalla migliore comprensione dei
fenomeni e dei diversi aspetti in gioco elaborati e utilizzati dagli operatori
in prima persona attraverso strumenti e metodologie corrette e rigorose;
• «in secondo luogo il valore dell’investimento che il sistema di servizi
compie nel corrispondere positivamente agli interventi in materia di
prevenzione e contrasto agli abbandoni e agli infanticidi: penso in particolare
all’esigenza di integrazione che questo tipo di
interventi richiama e richiede a tutti i soggetti e alla possibilità di
utilizzare al meglio questa sollecitazione per potenziare le capacità dei
servizi di mettersi in rete e di produrre giochi a somma positiva;
• «in terzo luogo, penso in particolare all’esperienza che più ho avuto modo di conoscere da vicino, quella realizzatasi a
Prato, e al fatto che parti o elementi di quel progetto sono state “sfruttate”
positivamente in termini di ritorno e ricaduta ad esempio per riflettere e
migliorare le strategie e gli strumenti della comunicazione pubblica in
rapporto all’utenza dei servizi o ancora per effettuare una ricognizione
aggiornata delle risorse pubbliche e private di accoglienza e assistenza
esistenti sul territorio».
Michela Calabria e Maria Brigida Frasca:
Il sostegno psico-sociale
alle partorienti in gravi difficoltà e la necessaria collaborazione dei servizi
ospedalieri con quelli territoriali
L’Ospedale
ostetrico-ginecologico Sant’Anna di Torino, uno dei
maggiori centri europei di maternità, con i suoi circa 8.500 parti all’anno, è sicuramente un osservatorio privilegiato in
merito all’argomento nascite. Fin dal 1975 presso l’Ospedale è attivo il
servizio sociale ospedaliero, all’epoca istituito per assistere le gestanti
nubili in difficoltà e per permettere uno sveltimento
delle procedure dell’adozione dei neonati non
riconosciuti alla nascita. Le azioni svolte dal Servizio sociale negli anni si
sono consolidate e si sono adattate ai cambiamenti verificatisi in merito ai
riferimenti legislativi, al contesto istituzionale,
mutato sia a livello sanitario che socio-assistenziale, e alla tipologia di
utenza.
Michela Calabria, assistente sociale del sopra citato ospedale Sant’Anna,
ha esaminato e sviluppato il tema del ruolo del servizio sociale ospedaliero
prima, durante e dopo il parto nei riguardi delle donne che decidono di non
riconoscere il nascituro. L’osservazione del fenomeno del non riconoscimento
alla nascita ha le seguenti finalità:
• «analizzare l’intervento offerto dal servizio sociale
ospedaliero, prima, durante e dopo il parto alle gestanti che decidono di non
riconoscere il proprio nato;
• «riconoscere i bisogni delle gestanti per rispondervi
in modo adeguato;
• «puntualizzare sia l’intervento dei servizi territoriali coinvolti, sia
il comportamento di altre professionalità che operano
in ospedale (personale medico e paramedico);
• «formulare ipotesi operative che permettano di
migliorare l’assistenza alla gestante e garantire al neonato il diritto ad
avere una famiglia nel più breve tempo possibile, attraverso interventi precoci
e tempestivi».
Le analisi fatte dal servizio
sociale testimoniano come le donne che non hanno riconosciuto il proprio nato
dopo il parto nel periodo 1990-2004 siano state 179 e
che, mentre nel 1990 si trattava quasi esclusivamente di italiane, col passare
degli anni le donne straniere sono diventate sempre più numerose, tanto che nel
2004 raggiungono il numero di 12 su 17. Per quanto riguarda l’età di queste
donne la fascia più numerosa risulta essere quella
compresa fra i 18 e i 29 anni.
Come ricordato da Michela
Calabria «la stragrande maggioranza è
rappresentata da donne nubili, separate e divorziate, che al momento del parto
sono prive di un legame affettivo peraltro talvolta interrotto proprio a causa
dello stato di gravidanza. L’elemento che accomuna la quasi totalità di queste donne è la
solitudine nella quale si trovano sia durante la gravidanza, sia
al momento del parto».
Per quanto concerne
invece la situazione lavorativa «il dato
più evidente è legato alla mancanza di occupazione da
parte della stragrande maggioranza di donne che non riconoscono il loro nato,
mentre solo una piccola parte risulta occupata. Questo significa che la
disoccupazione e le precarie condizioni economiche sono
indubbiamente fattori determinanti in questa scelta».
In merito alle donne
italiane e straniere che riferiscono di guadagnare prostituendosi, Michela
Calabria riferisce che «per quanto riguarda le italiane in genere si tratta di giovani donne
nubili, spesso con problemi di tossicodipendenza. In entrambi i casi la gravidanza viene considerata “un incidente sul
lavoro” e la scelta di lasciare il bambino è quasi obbligata».
Segnala inoltre che
«più numerosi nel passato, oggi sempre
più sporadici sono i casi di donne che provengono dal Sud. Generalmente sono
molto giovani e vivono in famiglia; si trasferiscono a Torino solo negli ultimi
mesi di gravidanza (quando il loro stato diventa
evidente e non è più possibile nasconderlo) con il consenso della famiglia
ospiti presso parenti o presso comunità per gestanti. Dopo il parto, a distanza
di qualche giorno tornano a casa: sono sicuramente tra le più sole e che vivono
questa esperienza in modo drammatico».
Sulla base
dell’esperienza maturata nel settore, in merito alle motivazioni che
determinano la scelta di non riconoscere il proprio nato, ha rilevato che «non c’è mai una sola causa, ma una
compresenza di motivazioni legate a problemi di carattere sociale e personale,
con implicazioni di natura psicologica. La causa più frequente è la mancanza di appoggi, l’impossibilità di contare sul partner o sulla
famiglia d’origine, la quale risulta spesso multiproblematica e non può
costituire una risorsa utilizzabile. La ricerca di un supporto esterno deriva
anche da inadeguate condizioni economiche o da problematiche personali quali
handicap fisici, psichici, tossicodipendenza. Per le giovanissime, la
motivazione è legata all’età: non se la sentono di assumersi la responsabilità
di un figlio che impedisce loro di realizzare i loro progetti di vita (finire
gli studi, cercare un lavoro, continuare la vita di una qualunque coetanea)».
Puntualizza che «il pregiudizio e la cultura della comunità di appartenenza riguarda una piccola parte di donne italiane
(soprattutto se vivono in piccoli centri), mentre è generalmente riferibile
alle straniere per le quali un figlio fuori dal matrimonio è motivo di vergogna
e di esclusione sociale».
Per quanto riguarda
le donne straniere la loro esperienza ha evidenziato
che la scelta del non riconoscimento dipende quasi sempre da:
• «una condizione lavorativa connotata da aspetti molto
restrittivi: un lavoro da colf o da badante che non si
vuole e non si può perdere e che appare incompatibile con la presenza di un
bambino;
• «una condizione familiare di solitudine perché il
coniuge è rimasto nel Paese d’origine o per la mancanza di un partner in
Italia;
• «la carenza di risorse e
servizi per le madri con bambini piccoli, soprattutto se prive del permesso di
soggiorno;
• «la normativa del Paese
d’origine che non riconosce la madre sola come soggetto di diritto».
Come ricordato da
Michela Calabria una donna che arriva alla scelta del non riconoscimento «se maturata con consapevolezza, ricevendo il
necessario sostegno per elaborarla, può viverla come responsabile “atto
d’amore”, ovvero come decisione di affidare a mani più
sicure delle proprie il bambino messo al mondo, per consentirgli l’accoglienza,
l’accettazione, le cure, l’amore di cui ha bisogno per crescere in modo sereno
ed equilibrato».
Maria Brigida Frasca, ostetrica presso l’Ospedale Sant’Anna ha
raccontato la sua esperienza riferendo come le ostetriche non abbiano contatti prima dell’inizio del travaglio con le
donne che non riconoscono il bambino. Dal punto di vista tecnico l’assistenza
non differisce da quella prestata alle altre donne (valutazione della
dilatazione, ascoltazione del battito cardiaco del nascituro, verifica del buon
andamento del travaglio), ma diverso è lo stato
emotivo delle donne che intendono non riconoscere. Ricorda Maria
Brigida Frasca che «il momento
dell’ascoltazione del battito cardiaco fetale è critico per questo tipo di
donna: solitamente è emozionante per una neomamma sentire il suono del cuore
del proprio bambino, mentre in questo caso specifico, è addirittura doloroso,
forse più della contrazione stessa, come se ci fosse un continuo ricordarle che
c’è un bambino che deve nascere e che sta bene. Tutto ciò avviene più volte
durante il travaglio e la donna mantiene
frequentemente un atteggiamento di apparente distacco dal nascituro, spesso
voltando il viso dalla parte opposta, come se questo potesse bastarle».
Ruolo dell’ostetrica
è anche gestire l’emozione della partoriente «senza lasciar trapelare giudizi e preconcetti, rispettando la donna
che ha di fronte e che compie una così difficile scelta. Particolare attenzione
viene prestata per il contenimento del dolore, se la
donna lo desidera e non vi sono controindicazioni mediche, con analgesia peridurale o con rimedi alternativi non farmacologici.
La difficoltà maggiore, riscontrata dall’ostetrica, è l’impossibilità di fare
riferimento al bambino come motivazione per affrontare nel miglior modo
l’esperienza difficile del parto».
Maria Brigida Frasca ha poi riportato
alcuni casi realmente accaduti:
–
«Una donna di circa 30 anni, sposata, da
qualche anno alla ricerca di un bambino, venne
ricoverata per espletamento del parto. Fu sottoposta a taglio cesareo per
difficoltà nel proseguimento del travaglio e con sorpresa partorì una bambina down. La allattò per tre giorni e non la riconobbe, d’intesa
con il marito, che non se la sentiva di occuparsi di una bambina con problemi;
– «una donna di nazionalità francese di circa 30 anni
venne a partorire al Sant’Anna. Era il suo secondo
parto. Ebbe una bambina che tenne in braccio, in camera con sé, solo per poche
ore. Quando chiese di portarla al nido perché non si
sentiva troppo bene, si tolse il braccialetto identificatore
e lasciò la bambina e l’ospedale;
– «una donna di circa 25 anni venne a ricoverarsi un po’ di tempo prima della data presunta
del parto per contrazioni. Dichiarò immediatamente l’intenzione di non
riconoscere il suo bambino. Quando tornò qualche
settimana dopo per partorire, ci raccontò che si era da poco separata e
che aveva avuto un incontro occasionale con un altro uomo, dal quale aspettava
il bambino che
portava in grembo. Abbandonata dalla famiglia, dall’ex marito, dal padre del
bambino decise di non riconoscerlo. Quando nacque il bambino qualcosa scattò
dentro di lei: i genitori le si riavvicinarono
promettendo il sostegno che le avevano negato in tutti quei mesi e, dopo tre
giorni, decise di portare suo figlio a casa con lei. Sembrava felice della
scelta fatta;
– «una giovane donna musulmana, dopo il parto, dice di
non voler riconoscere il suo bambino. Chiede di poterlo tenere un po’ tra le
braccia. Poi ce lo affida e non lo riconosce;
– «una giovane donna magrebina
partorisce assistita da una parente. Al momento della nascita del suo bambino
ci comunica che non lo riconoscerà. Neanche l’accompagnatrice ne era informata. Vuole vedere il bambino, che subito dopo
affida all’ospedale;
– «una rumena di 17 anni dichiarò al momento del ricovero
che non avrebbe riconosciuto il suo bambino. Non vuole nessuno accanto a lei al
momento della nascita, neanche sua madre che rimane fuori ad aspettare. Non
vuole vedere la sua bambina».
Sulla base della sua esperienza
ha poi evidenziato l’importanza di creare presupposti per la migliore
accoglienza possibile nelle strutture sanitarie delle donne che scelgono il non
riconoscimento. «Inoltre per tutelare la
segretezza del parto è auspicabile che, al momento del ricovero ospedaliero,
non siano indicati i dati anagrafici della donna nella cartella sanitaria, ma venga individuato un codice ad hoc».
Aurora Tesio: Progetto “Sos donna e parto segreto”
Aurora Tesio, Assessore pari opportunità della Provincia di Torino, ha
portato, per quanto riguarda il problema del non riconoscimento, l’esperienza
di “Sos donna”, progetto partito a Torino nel 1996 e
attivato in collaborazione con il Centro italiano femminile, come strumento per
contrastare il fenomeno degli abbandoni che mettono in pericolo la vita dei
neonati. Nel territorio provinciale, ha ricordato
La campagna partì
con lo slogan “Non avere paura. La legge ti protegge”, utilizzato in spot pubblicitari messi in onda da televisioni e da radio,
in locandine, cartelli e anche sulle confezioni del latte.
Oggi alla dicitura “Sos donna” è stata aggiunta la parte relativa
al parto segreto per caratterizzare il tipo di intervento e l’aiuto che
può essere richiesto in merito. Il numero verde (800-231310), legato
all’iniziativa, è attivo in orario di ufficio, mentre
per le restanti ore funziona la segreteria telefonica.
A
partire dal
1996 le telefonate ricevute sono state 3.200, di cui 350 relative al parto
segreto, di cui 45 decisive per il futuro dei nascituri e «tra queste si può affermare con ragionevole certezza che senza
l’intervento delle telefonate e dei colloqui, almeno 24 donne avrebbero potuto
lasciare il bambino in situazione di grave rischio».
Le altre telefonate
avvenivano da parte di minori che chiedevano informazioni sulla contraccezione,
di donne e uomini che volevano informazioni sulle separazioni e di donne
vittime della tratta.
Il progetto ha
inoltre previsto giornate informative per il personale degli ospedali ed in
specifico dei reparti di ginecologia e di ostetricia,
ha attivato rapporti con le altre Province ed oggi vi è la forte speranza che
il numero verde possa essere offerto su tutto il territorio regionale. Il
progetto è stato inserito anche nei progetti della legge 285/1997, quando ottenne un finanziamento e vennero organizzate informazioni
giuridiche e attuate iniziative di sensibilizzazione degli operatori volontari.
Ovviamente grande importanza ha la distribuzione di
materiale informativo, che col passare degli anni è stato
predisposto in più lingue. È prevista, nelle prossime settimane, la
distribuzione di 20mila copie di un opuscolo, in collaborazione con l’Unione
per la lotta contro l’emarginazione sociale che avrà il testo in italiano,
francese, inglese, spagnolo, russo, arabo e cinese, per rispondere alla sempre
maggiore presenza sul nostro territorio di donne straniere.
Vi è poi una nota informativa, che comparirà su alcuni
giornali quali “City” e “Metro”, distribuiti gratuitamente in città, poiché si
è pensato che potesse essere uno dei modi per riuscire a raggiungere anche le
donne immigrate, che è difficile acquistino un
quotidiano, ma che più facilmente possono avere in mano uno di queste
pubblicazioni gratuite.
Spesso per le donne immigrate il
problema dell’interruzione di gravidanza e quello dell’utilizzo della legge
relativa al parto segreto sono legate alle condizioni lavorative: il nostro
territorio dovrebbe essere più accogliente e non considerare le straniere come
un’emergenza, ma come donne che hanno diritti e quindi devono poter accedere ai
servizi come gli altri cittadini.
Noemi Imprescia: Esperienze di sostegno alle gestanti, alle madri e ai minori
Noemi Imprescia, assistente sociale dell’Asl 4
di Prato, ha presentato il progetto “Mamma segreta” di Prato, promosso
dall’Assessorato alle politiche sociali della Regione Toscana in collaborazione
con l’Istituto degli Innocenti di Firenze, a cui partecipa un gruppo di 14
persone con varie professionalità.
«L’abbandono
traumatico – ha
ricordato Noemi Imprescia – per quanto statisticamente “raro” costituisce una questione di grande complessità che tende a sfuggire alla rete dei
servizi sul territorio e che necessita di operatori con specifici strumenti
professionali e metodologici. La questione dell’abbandono alla nascita si
presenta come un tema complesso e rispetto al quale è
necessario un tentativo di definizione che possa essere condiviso anche a
partire da un esame semantico del termine. La definizione nella nostra
esperienza parte da due aspetti: rifiuto e rinuncia. Il termine “abbandono” infatti è una parola con un duplice significato nel senso
che può rappresentare sia il rifiuto e l’indifferenza ma anche la rinuncia e la
delega. Il sovrapporsi di tali significati tende a confondere senso e valore al
termine producendo pregiudizi e stereotipi sociali relativamente
alle madri che abbandonano. L’abbandono può essere scelto dalla madre o
da entrambi i genitori che, così facendo, rinunciano di fatto
al compito di crescere ed allevare un figlio».
Per comprendere meglio il fenomeno, secondo Noemi Imprescia, è opportuno proporre due livelli di riflessione.
«La prima riflessione riguarda
il fatto che l’abbandono è un comportamento che incide in maniera
significativa sulla vita e il destino di almeno due soggetti: la madre e il
bambino. Il termine rinuncia significa “potere di un soggetto di abbandonare un
diritto di cui è titolare” (Zingarelli, Vocabolario della lingua Italiana, Zanichelli, Bologna, 2003): in questo caso l’accento viene posto sul
diritto di chi rinuncia a svolgere il ruolo di genitore, ma non viene preso in
considerazione il diritto di chi viene abbandonato di essere figlio.
«La seconda
riflessione riguarda i diversi livelli di consapevolezza dei genitori che optano per l’abbandono alla nascita del figlio. La rinuncia
alla dimensione della genitorialità non richiede
necessariamente una consapevolezza da parte della madre o dei genitori di effettuare, mettere in atto, realizzare una scelta
nell’interesse del neonato. Il termine scelta
significa “decisione volontaria in base alla quale tra le tante possibili si
assume una determinata possibilità” (Zingarelli, Ibidem); pertanto se viene chiarito il carattere non coattivo,
volontario, della scelta rimangono in ombra le reali motivazioni che portano ad
assumere certe decisioni.
«Sul piano della
realtà ci si trova di fronte, anche, a madri, pur consapevoli di ciò che stanno
facendo, ma proprio per questo totalmente incapaci, in quel preciso momento, di
mettersi empaticamente nei panni del bambino e
comprendere le conseguenze del loro comportamento. A questo proposito è utile segnalare il fatto che alcune di queste madri tendono a
strutturare l’esperienza dell’abbandono come una esperienza traumatica e
drammaticamente dolorosa sul piano intrapsichico e “trascorrono la loro vita
percependo il dolore come per l’amputazione di un arto inesistente” (Sorosky A., Baran
A., Pannor R.,
The adoption triangle: the effects of the seated recordon adpotees, birth parents and adoptive parents, Anchor Press, New
York, 1978). A queste considerazioni sulla complessità antropologica
e psicologica che è sottesa all’esperienza dell’abbandono, va aggiunto un ulteriore livello di riflessione sugli effetti
dell’abbandono dal punto di vista del neonato. Le modalità con cui il genitore
realizza l’abbandono possono incidere sul processo di elaborazione
del trauma da parte del neonato, ma è arduo potersi esprimere circa le
possibilità che il bambino possa essere preservato in qualche misura dalle
conseguenze post-traumatiche. A questo punto diventa importante e significativo la messa in atto di una buona pratica adottiva
che possa accogliere la complessità esperienziale del
soggetto».
Il lavoro svolto dall’équipe di
“Mamma segreta” (che, purtroppo, è un servizio di bassa soglia, che quindi non
tiene interamente conto delle norme della tuttora vigente legge
2838/1928) è quello di accompagnare in modo discreto e puntuale la donna
sia dal punto di vista informativo che emotivo. «Il progetto – ha spiegato Noemi Imprescia
– è stato avviato nell’anno 1999 ed è
stato caratterizzato dalla costruzione di un gruppo di operatori
appartenenti agli enti ed alle istituzioni partner (pubbliche e private), di
area sociale, sanitaria ed educativa, coinvolti a diverso titolo e per le
rispettive competenze nella gestione di casi di abbandono e non riconoscimento
del bambino alla nascita. Il gruppo ha affrontato una formazione e a
conclusione del periodo di sperimentazione ha avuto il riconoscimento a livello
istituzionale come gruppo funzionale e trasversale alle altre realtà pubbliche,
territoriali e ospedaliere; si è realizzato così uno spazio dedicato, e non un
servizio ad hoc, per un intervento a bassa soglia
senza presa in carico istituzionale. Gli operatori infatti
mantengono il proprio inquadramento professionale e dedicano uno spazio del proprio
ambito alle attività di mamma segreta. L’obiettivo è quello di offrire un
servizio rivolto a sostenere, in maniera competente, la volontà della donna,
nel momento particolare della sua vita, quando, prima, durante e dopo il parto,
sta riflettendo sulla propria situazione e su quella del bambino, sulla
possibilità/volontà di essere madre o meno. I
destinatari dell’intervento di “Mamma segreta” sono quindi due soggetti: la
donna che non intende riconoscere il neonato e il neonato
non riconosciuto».
Matilde Guarnieri: Esperienze di sostegno alle gestanti, alle madri e ai minori
Matilde Guarnieri, responsabile
del Servizio “Madre segreta” della Provincia di Milano, ha esposto l’esperienza
del suddetto servizio, istituito nel 1996, per approfondire il tema del non
riconoscimento nella realtà locale e per promuovere e gestire gli interventi in
merito.
Il dato di circa 400 non riconoscimenti all’anno sul territorio nazionale testimonia «la realtà di un’impossibilità materna. Più
numerose ancora sono le situazioni di disagio nel rapporto madre/bambino trattate dai diversi servizi, a volte con l’esito doloroso
di una separazione dalla madre e di un’adozione tardiva. (…)
In alcuni casi la donna diviene consapevole della propria impossibilità e
sceglie con sofferenza di rinunciare al figlio separandosene alla nascita. In
altri casi lo tiene con sé, ma può dare l’avvio ad un legame estremamente
difficile se nasconde il problema per paura di essere giudicata e si nega la
possibilità di essere aiutata ad affrontare ciò che prova».
Spesso, infatti, la donna che non riconosce il bambino è
giudicata male dal punto di vista socio-culturale.
«A livello dei
servizi gli operatori si confrontano con problematiche istituzionali,
professionali e personali; aspetti emotivi ed affettivi complicano inoltre
ancor più il lavoro. Nei servizi sociali e negli ospedali lo sforzo di
integrare comprensione e azione, competenze professionali e culture
territoriali è continuo. Questo si scontra però con
una debolezza di riferimenti di metodo e di “apprendimenti dall’esperienza” in
grado di orientare specifici progetti di sostegno, comprensione, contenimento e
attenzione al neonato».
Proprio dall’analisi di questa situazione nacque “Madre
segreta” che, come ha ricordato Matilde Guarnieri, svolge la sua attività “in
tre aree collegate tra loro:
• «le donne in difficoltà, con la
linea verde 800.400.400 e il Progetto Arianna;
• «il territorio nei suoi servizi sociali e sanitari con
interventi di formazione, aggiornamento, promozione delle
reti locali e consulenza, oltre che con la gestione di uno spazio di
documentazione;
• «il contesto sociale in
generale, con interventi di comunicazione e di sensibilizzazione».
Il numero verde,
attivo dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22 e il sabato e festivi dalle 10
alle 14, è a copertura nazionale e consente l’anonimato. «Le donne che chiamano parlano di sé e della propria gravidanza, portano
la loro realtà di vita e i loro problemi, chiedendo
ascolto e informazioni. Un gruppo di persone, appositamente preparate e in
costante supervisione, garantisce una prima risposta di accoglienza,
ascolto e informazione in collegamento con i professionisti di “Madre segreta”,
che quando è necessario intervengono direttamente. Questo primo contatto può
innescare percorsi diversi, dall’informazione su diritti, risorse
e procedure, all’avvio ad un servizio territoriale adatto, alla consulenza dei
professionisti di “Madre segreta” (telefonica o presso la sede del servizio) e
a quant’altro può essere opportuno per rispondere a
questa richiesta».
Ogni anno viene svolta un’indagine statistica, in forma anonima, sulla
base dei dati di un campione di trecento chiamate. La statistica del 2003,
ultima effettuata, ha fornito questi dati, riportati
da Matilde Guarnieri: «La linea verde è utilizzata in prevalenza dalle donne italiane che
costituiscono il 62%. La presenza delle straniere dal 1999 è però
progressivamente aumentata fino a raggiungere il 38% nel 2003. Riguardo
all’età, il 74% è nella fascia tra i 18 e i 36 anni. (...)
Il 77% delle donne è nubile. (…) Il 33% è privo di
occupazione, mentre studia il 24 % e lavora il 33%. Il 73% è alla prima
gravidanza, mentre il 27% che ha avuto altri figli è costituito in prevalenza
da donne straniere, che chiedono spesso informazioni per l’accesso
all’assistenza sanitaria e a risorse assistenziali. (…) Per il 62% la relazione con il padre del nascituro si è
interrotta. Nell’81% dei casi l’uomo è al corrente
della gravidanza, ma di questa percentuale il 64% non è disponibile alla
paternità. (…) Nel 51% delle situazioni il contesto
famigliare è dichiarato assente, cioè non è percepito come una possibile
risorsa di supporto affettivo. (…) La prima chiamata
alla linea viene fatta nel 38% dei casi entro il terzo mese di gravidanza, tra
il terzo e il sesto nel 33% e dopo il sesto nel 29%».
È stata organizzata un’importante rete di riferimenti
verso i quali vengono indirizzate le donne
che telefonano alla linea verde e che coinvolgono i servizi sociali e sanitari
delle Asl e dei Comuni e le organizzazioni che si
occupano dell’area materna.
Precisa la dottoressa Guarnieri:
«Per le situazioni in cui è utile un
intervento preparatorio all’avvio al servizio territoriale, e per quelle che
non possono trovarvi un riferimento, “Madre segreta” ha strutturato
presso il servizio un’area specialistica protetta e riservata». Le donne in assoluto anonimato vengono informate sul diritto di essere aiutate e tutelate
nel gestire la propria situazione; in tal modo acquisiscono la fiducia
necessaria per rivolgersi al servizio locale.
Tutta questa rete consente alle donne di avere un punto
di sostegno che le aiuta ad affrontare l’angoscia e l’isolamento e «permette inoltre di recuperare la propria
capacità progettuale favorendo una scelta ponderata e consapevole alla nascita
del bambino. La consapevolezza delle proprie motivazioni nel riconoscimento o
nella rinuncia potrà aiutare la donna a continuare la propria vita con
sufficiente forza e serenità».
È stato inoltre attivato il “Progetto Arianna” per tutte
quelle donne, molto meno numerose, che temono di potere essere individuate e
per questo non sono disposte ad avvalersi del servizio locale.
«Attraverso il
Progetto Arianna le donne vengono seguite dalla
gravidanza fino alla nascita del bambino, secondo un programma di interventi di
supporto personale e sociale adeguati alla loro particolare situazione. Viene loro assicurata inoltre la possibilità, anche nel
tempo, di ricevere un sostegno personale dopo la separazione dal bam-bino. Quando
le donne scelgono di riconoscere il bambino ed occorre attuare un progetto di aiuto, viene coinvolta la rete dei servizi pubblici e del
privato sociale che intervengono nell’area della famiglia».
Con il Progetto Arianna sono state seguite, dal 1998 al
2003, 149 donne, 58 italiane e 91 straniere: di queste circa il 40% ha poi
riconosciuto il bambino, mentre il 60% non lo ha riconosciuto.
Luciano Tosco: Esperienze di sostegno
alle gestanti, alle madri e ai minori
Luciano Tosco, coordinatore delle politiche socio-sanitarie e del
settore minori del Comune di Torino, in merito al tema ed alle finalità del
convegno ha svolto alcune considerazioni sulle condizioni che possono,
nell’interesse del minore, rendere necessari interventi di allontanamento
del bambino dall’ambiente familiare.
«Le situazioni di fragilità o esclusione della donna con
figli che spesso comportano la necessità di interventi
di aiuto e sostegno in accoglienze di tipo residenziale sono riconducibili alle
seguenti condizioni:
- grave deprivazione e marginalità socio-culturale-relazionale-reddituale (povertà
relativa). In particolare si riscontra, soprattutto nelle madri, un aumento
delle problematiche relative alla salute mentale senza
interventi richiesti e/o attivati dai servizi sanitari preposti nonché delle
violenze e maltrattamenti intrafamiliari ai figli e/o
alla donna;
- presenza in condizione di irregolarità
sul territorio nazionale sia del genitore che del minore in situazione di
povertà assoluta (assenza o precarietà dei beni primari quali casa e reddito);
- sfruttamento grave (es. prostituzione);
- dipendenza da sostanze e/o disturbi psichiatrici del/i genitore/i;
- carcerazione di un genitore (in genere il padre);
- trascuratezza grave, abusi sessuali da parte di un
genitore».
Inoltre, secondo
Tosco «occorre rilevare che spesso le
condizioni sopra elencate sono compresenti nella stessa famiglia (quasi sempre priva di una rete sociale primaria in grado e
disponibile ad aiutarla) prospettando un quadro ancora più difficile e
complesso di multiproblematicità».
Pertanto la
diversità delle situazioni crea differenti bisogni; ne consegue che gli
interventi ed i servizi in merito debbono essere
numerosi, vari ed articolati.
Luciano Tosco ha
rilevato che le donne per le quali si rendono necessari interventi residenziali
possono essere in una situazione di:
- «esclusione, cioè non
capacità/possibilità personale di “giocare” con le risorse e le regole
socialmente accettate. In questi casi si prospetta un pregiudizio per la
crescita del bambino per situazioni di rilevanti carenze
relazionali, di accudimento, materiali, di abilità
sociali e di organizzazione della vita quotidiana. Si pensi per esempio alla
situazione di tossicodipendenza che rende estremamente
problematico il reperimento e il mantenimento di un lavoro ma anche l’esercizio
delle capacità e competenze genitoriali oppure a
problematiche di salute mentale. È quindi necessario (anche a seguito di
provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile) un ambiente “protetto”, con
una presenza educativa costante ed intensa, per il sostegno, l’osservazione e
la valutazione delle competenze genitoriali;
- fragilità sociale, cioè
capacità di “giocare” con le risorse e le regole socialmente accettate ma in
condizioni tali da rendere difficile l’esercizio di queste competenze. Per
esempio la donna vittima di
continue violenze intrafamiliari ma con sufficienti
competenze nella relazione con i figli e ad esercitare una attività
lavorativa. Oppure la donna con figli in difficoltà non solo abitativa ma per
la quale gli interventi di sostegno alla genitorialità
avrebbero potuto essere effettuati presso la propria
casa, se disponibile (es. affidamento diurno, educativa territoriale,
assistenza domiciliare) e per la quale quindi non è necessario un inserimento
in ambiente “protetto”».
Di fronte a tutta
questa varietà di situazioni l’obiettivo principale è quello di favorire
l’unità
familiare e dare al bambino l’opportunità di vivere con almeno un genitore, che
avrà comunque
bisogno di un sostegno educativo, psicologico e lavorativo.
Inoltre
per le donne di cui sopra vanno promosse iniziative affinché non siano escluse
dal punto di vista sociale. «Questo comporta
la costruzione, sperimentazione e/o implementazione di una rete di servizi,
interventi ed accoglienze plurali tali da permettere risposte il più possibile differenziate a bisogni sempre più diversi e articolati,
nonché percorsi individualizzati all’interno della rete stessa. In specifico:
– comunità alloggio madre/bambino educative e
terapeutiche per le situazioni più difficili ove è necessario osservare,
sostenere e valutare le competenze genitoriali
affettive, relazionali e pratiche, nonché aiutare allo
sviluppo delle capacità sociali. Nella realtà piemontese le comunità alloggio educative mamma-bambino sono normate,
relativamente ai requisiti strutturali, gestionali ed organizzativi dalla
deliberazione della Giunta regionale 15 marzo 2004 n. 41-12003 alla cui stesura
il Comune di Torino ha fornito un significativo apporto di esperienza;
– le comunità
terapeutiche per donne con problemi di dipendenza in gravidanza oppure con i
loro figli o ancora per coppie tossicodipendenti con figli sono previste, ma
non normate dal citato provvedimento. Nello specifico
della realtà torinese la maggior parte delle comunità di cui sopra in cui
– strutture di autonomia e gruppi appartamento per quelle donne con
figli che si trovano nella condizione di fragilità sociale o sono uscite da
quella di esclusione ma non ancora in grado di “camminare con le proprie
gambe”. Le strutture di autonomia sono denominate
dalla citata delibera della Giunta regionale piemontese n. 41-12003:
“Pensionati integrati”. Sono strutture extraalberghiere
ai sensi della legge regionale 31/1985 che possono ospitare, su specifico
progetto, madri con bambino e giovani già ospiti in strutture residenziali o
per i quali, dato il loro livello di autonomia, non è
accettato né opportuno l’inserimento in comunità. I gruppi appartamento per
gestanti e madri con bambino sono normati dalla
citata deliberazione. Hanno come obiettivo quello di offrire a persone con una
significativa capacità di autogestione sia un so-
stegno temporaneo a livello abitativo sia un supporto
e un accompagnamento all’autonomia professionale e lavorativa. Ciò attraverso l’apporto anche di personale con funzioni
educative, di appoggio e di orientamento. Possono far parte del gruppo
appartamento donne in difficoltà grave, anche con bambino, per motivi
socio-ambientali, che rendono necessaria una diversa sistemazione dal nucleo di origine ma il cui rapporto con il figlio è valido e un
allontanamento dalla mamma risulterebbe di pregiudizio per lo sviluppo dello
stesso. Inoltre è rivolto a donne che hanno già fatto un percorso in strutture
residenziali in cui è stato aiutato e supportato lo sviluppo della competenza genitoriale e verificato un positivo
rapporto madre-bambino ma che necessitano ancora di protezione prima di essere
avviate in via definitiva a percorsi di autonomia;
– progetti di autonomia, a cura delle comunità alloggio educative e
terapeutiche, che prevedono interventi individualizzati (es. reperimento
alloggio in affitto per il nucleo mamma-bambino e sostegno alcune ore la
settimana da parte di un educatore). Nello specifico della realtà torinese i
progetti di autonomia sono previsti dagli accordi di
accreditamento del Comune con gestori di strutture residenziali per minori
(comprese quelle madre con bambino).
Dibattito
Prima del termine dei lavori della
mattinata è stato aperto un dibattito al quale sono intervenuti alcuni dei
partecipanti al convegno.
Raffaella Moioli, del Consultorio “La persona al
centro” di Biella ha segnalato il progetto, partito nel 2002, “Maternità in
famiglia” presso l’ospedale di Biella. Nella loro realtà è presente il problema
delle donne straniere e di quelle affette da problemi psichiatrici, piuttosto
che da dipendenza da altre sostanze. Sono numerose le interruzioni di
gravidanza da parte di persone che non hanno queste caratteristiche, ma che
giungono in ospedale con tale richiesta soprattutto a causa di condizioni
sociali e lavorative precarie o di situazioni affettive non stabili.
Lavoro dunque importante è quello degli operatori, in
questa fase del percorso della donna che ha difficoltà ad assumere il ruolo di
genitore. Inoltre Raffaella Moioli ha ricordato
l’importanza del supporto da garantire alla donna che sceglie di riconoscere il
bambino, ma che lo alleva con un livello di conflittualità
estremamente alto.
Claudia Deagatone, operatrice sanitaria della Asl 20, consultorio di
Tortona, ha chiesto chiarimenti in merito al ruolo delle mediatrici culturali.
Ha risposto Michela
Calabria, ricordando che presso l’ospedale Sant’Anna
di Torino è presente dal 1997 la mediatrice culturale, inizialmente solo di
lingua araba poi, in seguito al sempre maggior numero di donne straniere che
accedono al servizio sanitario, sono state inserite anche mediatrici di altri Paesi. L’integrazione tra operatori e mediatori è buona e si lavora bene perché è chiaro che il loro ruolo
non è solo quello di interpretare, ma di mediare le esigenze della donna con
quelle dell’operatore; inoltre non devono essere rigide e portare avanti solo
la loro esperienza culturale, ma tenere conto della cultura del Paese nel quale
sono inserite o dal quale provengono le partorienti. Si tratta dunque di un
lavoro in rete di collaborazione a livello linguistico e culturale: gli esiti
sono validi ed hanno permesso di aiutare le donne a fare le loro scelte nel
modo più sereno possibile.
In merito
all’argomento Giulia De Marco ha sottolineato che le
mediatrici fungono un po’ da interpreti e un po’ da mediatrici e che bisogna
spiegare loro bene i due momenti e non permettere che si faccia confusione. Ci
sono momenti in cui si pongono domande che devono essere tradotte alla lettera
ed altri in cui la mediatrice, nei colloqui con il giudice, spiega e rende
partecipi, media fra le due culture per spiegare perché è stata data una certa
risposta o perché non viene data alcuna risposta o
perché una persona tiene un determinato atteggiamento.
Come ha ricordato la
stessa De Marco si tratta di un lavoro difficile e non tutti purtroppo hanno
ancora raggiunto una preparazione adeguata.
Claudia Roffino, dopo aver evidenziato di essere presente grazie
al fatto di non essere stata abbandonata, ma non riconosciuta alla nascita, ha
ricordato come nei suoi confronti siano state fatte due scelte, doppiamente
consapevoli e responsabili: quella di chi l’ha messa al mondo, che ha compreso
di non essere in grado di svolgere il ruolo di genitore, e quella di chi, i
suoi genitori adottivi, ha scelto invece di svolgere quel ruolo.
Ha poi ribadito l’importanza dei
diritti di cui si è parlato nella mattinata: la scelta di non riconoscere;
l’informazione, tenendo conto delle nuove e sempre più frequenti realtà di
donne straniere, per cui sarebbe adeguata l’attivazione di un numero verde
nazionale per rendere più agevole la possibilità di usufruirne; il segreto del
parto, da mantenere nella sua assolutezza, nonostante la richiesta di alcuni
non riconosciuti ormai adulti di poter accedere ai dati della donna che li ha
messi al mondo, ricordando che i diritti fondamentali sono quelli del bambino e
non dell’adulto. L’unico cruccio che afferma di avere è il dubbio che la donna
che l’ha messa al mondo, facendole il dono della vita, non abbia
avuto l’adeguata assistenza prima, durante e dopo il parto, diritto che
le spettava in virtù di quei diritti espressi dalla legge del non
riconoscimento numero 2838 del 1928.
Marco Borgione:
Apertura
dei lavori del pomeriggio
Marco Borgione, Assessore alla famiglia e ai servizi sociali del Comune
di Torino, ringraziando per l’invito rivoltogli a partecipare nella veste di
moderatore, ha aperto i lavori del pomeriggio in cui sono stati affrontati i
temi dei diritti di tutti i bambini fin dalla nascita alla famiglia e della
prevenzione dell’abbandono dei minori con un taglio
più istituzionale.
Ha sottolineato come la legge
sancisca il diritto del minore alla famiglia: le scale di priorità prevedono
dapprima un sostegno alla famiglia originaria con interventi sociali e di
sostegno al reddito; quando tali aiuti non bastano è necessario procedere
all’affidamento, poiché in tal caso la permanenza del minore presso il suo
nucleo familiare sarebbe un grave pregiudizio allo sviluppo del minore stesso. Per
quanto concerne la città di Torino gli affidamenti residenziali disposti ogni anno ammontano a circa seicento.
Ha poi ricordato quanto detto in
mattinata da Luciano Tosco in merito alle strutture residenziali per madre e
bambino e alle comunità presenti nel territorio cittadino: la città di Torino
ha attivato non solo queste strutture, ma anche le opportunità di accesso ai
servizi primari per le famiglie.
Pasquale Andria:
Come
garantire fin dalla nascita ai minori in gravi difficoltà il diritto alla famiglia
Pasquale Andria, presidente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la
famiglia e del Tribunale per i minorenni di Potenza, dopo aver ringraziato gli
organizzatori del convegno per aver offerto questa importante
occasione di riflessione sulle problematiche relative alle gestanti e alle
madri in difficoltà, ha affrontato l’argomento con un taglio tecnico-giuridico.
In merito al problema del come garantire fin dalla
nascita ai minori il diritto alla famiglia ha ricordato che nel sistema
legislativo vigente vi sono contraddizioni che, a suo dire, sono più apparenti
che reali, ma che al momento della loro applicazione si rivelano spesso distorsive.
Pasquale Andria ha evidenziato,
per quanto concerne la segretezza del parto, l’importante legge del 1928 n.
2838, ripresa nell’ordinamento dello stato civile del 1939 e poi dal nuovo
ordinamento dello stato civile del 2000, che offrono la possibilità o meglio il
diritto alle donne di non essere nominate.
Il non riconoscimento è una scelta saggia a tutela del
bambino, concreta alternativa alla interruzione di
gravidanza, all’infanticidio e all’abbandono non protetto, ma è anche una forma
di tutela della donna da altre scelte ben più traumatiche e laceranti, vissute
nella solitudine e nella disperazione, ovviamente a condizione che questa
decisione sia assunta con la massima responsabilizzazione possibile e con la
più ampia libertà da condizionamenti esterni.
I temi dell’accompagnamento, del sostegno, della responsabilizzazione nella fase preparto
e di quella immediatamente successiva, condotti in modo integrato tra servizi
ospedalieri e servizi del territorio, come ha sottolineato Andria,
sono quanto mai importanti perché anche i diritti della donna non divengano
degli atti meramente formali o non si traducano in scelte forzate.
Per quanto riguarda il diritto del bambino non
riconosciuto alla famiglia il Presidente del Tribunale per i minorenni di Potenza ha ricordato la norma centrale, l’articolo 11 della
legge 184/1983 sull’adozione, modificata dalla legge 149/2001.
Il suddetto articolo, con i suoi
vari commi, prevede un procedimento accelerato e molto semplificato
dell’adottabilità: affida al Tribunale per i minorenni l’iniziativa
nella promozione del procedimento di adottabilità per i non riconosciuti e
attraverso l’accelerazione procedurale conferma in qualche modo implicitamente
l’opzione presente nel nostro ordinamento giuridico, non da oggi, ma dal 1928
con la legge 2838.
L’articolo 11 della legge
184/1983 consente dunque l’immediata dichiarazione dello stato di adottabilità: il mantenimento di questa norma e la sua
corretta applicazione sono elementi fondamentali per realizzare il diritto alla
famiglia dei minori non riconosciuti.
La disciplina di questa rapida
pronuncia dell’adozione prevede una ipotesi di
sospensione obbligatoria, disposta di ufficio, nel caso in cui il genitore non
possa riconoscere il figlio perché minore di sedici anni: in questo caso la
sospensione si prolunga fino al compimento del sedicesimo anno, con possibile
proroga di altri due mesi, purché sussistano le condizioni di assistenza del
minore.
Questa norma, come ha sottolineato Andria, contrasta con
la legge sulla interruzione volontaria di gravidanza, che prevede che la minore
di sedici anni possa decidere di interrompere la gravidanza; però se la stessa
porta avanti la gravidanza la legge non le consente di riconoscere il nato.
Vi è poi una sospensione decisa
dal giudice, su richiesta del genitore ultrasedicenne,
che chieda un termine per effettuare il riconoscimento: in questo caso il
giudice può concedere un termine non superiore a due mesi, sempre che
sussistano le condizioni di assistenza del minore.
La dichiarazione di adottabilità e l’affidamento preadottivo,
una volta intervenuti, rendono inefficace il riconoscimento; pronunciata
l’adozione in via definitiva, l’eventuale giudizio concernente la dichiarazione
giudiziale di paternità o di maternità naturale, già sospeso durante la
procedura di adottabilità, si estingue.
La legge che riconosce alle donne
il diritto di non essere nominate al momento del parto
è stata pienamente confermata dalla legge 149/2001. Pur
avendo aperto l’accesso alle origini da parte degli adottati, ha però previsto
la preclusione dell’accesso alle informazioni se l’adottato non sia stato
riconosciuto alla nascita dalla donna che l’ha procreato e qualora anche uno
solo dei genitori abbia dichiarato di non volere essere nominato o abbia
manifestato il consenso all’adozione, a condizione di rimanere anonimo.
Pasquale Andria
ha poi ricordato l’articolo 93 (certificato di assistenza
al parto) del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196, con cui è stato
adottato il codice per la protezione dei dati personali (Gazzetta ufficiale del 29 luglio 2003, n. 174, supplemento
ordinario n. 123), contenente l’importantissimo articolo 30, che prevede che «il certificato di assistenza al parto o la
cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile
la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della
facoltà di cui all’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della
Repubblica 3 novembre 2000 n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale
a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla
formazione del documento». L’articolo 177, 2° comma, del suddetto decreto
legislativo stabilisce che l’accesso alle informazioni non è consentito nei
confronti della donna che abbia dichiarato al momento del parto di non voler
essere nominata. Vietare l’accesso alle informazioni solo nei confronti della
donna sembrerebbe, secondo Andria, consentire questa
possibilità per il caso in cui ci sia stato il
riconoscimento da parte del padre: aprire questa possibilità significa
innescare una bomba ad orologeria, poiché indebolisce fortemente la donna, che
invece l’esperienza ci ha insegnato essere soggetto da tutelare fortemente, in
quanto, attraverso l’accesso alle informazioni sull’identità del padre,
l’adottato potrebbe arrivare ad identificare la donna che lo ha partorito.
Antonio De Poli.
Il trasferimento
delle competenze assistenziali dalle Province ai
Comuni: il ruolo delle Regioni
L’Assessore alle politiche
sociali della Regione Veneto e Coordinatore interregionale degli Assessori
alle politiche sociali, Antonio De Poli,
ha inviato una lettera al convegno, letta dall’Assessore Angela Teresa Migliasso, che è riportata integralmente nell’allegato
4 delle conclusioni operative.
Angela Teresa Migliasso:
Le scelte della Regione Piemonte volte ad assicurare idonee prestazioni
socio-psico-sanitarie alle gestanti, alle madri e ai
minori in difficoltà
Angela Teresa Migliasso, Assessore al welfare della Regione Piemonte, ha ringraziato
Ha poi espresso la sua profonda
preoccupazione in merito ai tagli finanziari che si stanno profilando per il
2006; molte delle prestazioni a cui hanno fatto riferimento i precedenti
relatori, infatti, rischiano di essere messe pesantemente in discussione:
sempre più difficile sarà perciò attivare, mantenere e potenziare i servizi.
Angela Teresa Migliasso
ha poi esteso la sua preoccupazione anche in merito al recente disegno di legge
presentato al Senato dalla Ministra Prestigiacomo
sulle adozioni internazionali, le cui norme prevedono che la
selezione/preparazione degli adottanti non sia più affidata ai servizi sociali
degli enti locali e sia sufficiente la semplice presentazione di una autocertificazione da parte delle coppie.
«In queste settimane – ha poi ricordato – con l’Associazione di promozione sociale e con l’Associazione nazionale
famiglie adottive e affidatarie abbiamo lavorato ad un
disegno di legge che pensiamo possa, da un lato, chiarire responsabilità e
dall’altro assegnare risorse, per garantire la segretezza del parto e la
continuità assistenziale alle nate e ai nati non riconosciuti e alle donne in
difficoltà. È composta, naturalmente,
di pochissimi articoli; modifica un articolo della legge della Regione Piemonte
numero 1 dell’8 gennaio 2004, che prevede l’applicazione della legge regionale
328/2000, intitolata “Norme per la realizzazione del sistema regionale
integrato di interventi e servizi sociali e riordino
della legislazione di riferimento”. Si compone di un solo articolo, che
modifica l’articolo 9 di questa legge, in 5 commi»
(5).
Le norme a cui fa riferimento
L’Assessore al welfare della Regione Piemonte ha sottolineato
l’importanza di queste questioni e ha manifestato la propria soddisfazione per
essere riuscita ad arrivare al cuore del problema predisponendo in tempo utile
per il convegno la bozza di questo articolato che ora dovrà seguire l’iter
istituzionale all’interno della Regione Piemonte, per essere poi esaminato
dalla IV Commissione del Consiglio regionale ed
infine ottenere l’approvazione del Consiglio stesso.
Angela Teresa Migliasso
si augura «che questo iter
(…) possa essere portato in porto abbastanza rapidamente, perché penso che ci
sia una sostanziale uniformità di intenti, sulla necessità di garantire alle
donne, sia che riconoscono il loro nato, la loro nata, sia che non lo
riconoscono, e ai piccoli, gli interventi di cui hanno bisogno e hanno
diritto».
I nati non riconosciuti, lungi
dal diminuire, come sembrava fino a non molti anni fa, stanno invece aumentando
e la casistica prevalente, secondo quanto evidenziato anche da precedenti
interventi, non è più quella della adolescente
italiana, ma è rappresentata prevalentemente da donne straniere o da donne in
stato di forte deprivazione sociale: queste persone, che più di altre hanno
avuto nel loro percorso di vita eventi dolorosi, traumatici per i quali portano
dentro di sé ferite non facilmente sanabili e forse nemmeno guaribili, devono
essere prese in carico e amorevolmente seguite, professionalmente accompagnate
nel loro percorso di reinserimento sociale.
Il cambiamento della tipologia
oltre che del numero dei soggetti colloca, secondo Angela Teresa Migliasso, la segretezza del parto e anche le attenzioni
nei confronti della donna, che ha riconosciuto o non riconosciuto il proprio
nato, in una dimensione che va oltre il diritto civilissimo alla segretezza:
impone un approccio di sostegno ad alto contenuto assistenziale
e sociale, spesso anche sanitario, richiede l’assegnazione di consistenti
risorse e
l’intervento delle diverse professionalità coinvolte, che devono essere
rafforzate e numericamente ampliate.
«Penso alle mediatrici culturali – ha proseguito Angela Teresa Migliasso – alle assistenti sociali, agli educatori, ma
anche al mondo della sanità, che apparentemente pare non essere coinvolta dopo
l’evento del parto, ma che invece, proprio per tutte le situazioni dolorose e
traumatiche vissute, dovrebbero essere in campo, come risorsa preziosa».
Con l’approvazione del disegno di
legge preannunciato, con la messa a disposizione delle risorse necessarie, con
il coinvolgimento pieno della rete delle autonomie locali e dei vari presidi socio-assistenziali e sanitari sul territorio,
nonché con la competenza e l’impegno dei Comuni, l’Assessore Migliasso ritiene che sarà possibile raggiungere
l’obiettivo prefissato.
Gina Pedroni:
Il
trasferimento delle competenze assistenziali delle
Province alla luce delle esperienze del Comune di Reggio Emilia in materia di
sostegno alle gestanti, alle madri e ai minori
Gina Pedroni, Assessore ai diritti di
cittadinanza e pari opportunità del Comune di Reggio Emilia, dopo aver
ricordato che tutte le azioni presentate oggi in materia di sostegno alle
gestanti, alle madri e ai minori, portate avanti con grande
fatica dagli amministratori e da chi «lavora
in trincea», devono anche essere nutrite con finanziamenti adeguati,
associandosi all’Assessore Migliasso in merito alla
preoccupazione per i tagli previsti, ha sottolineato la preziosa importanza
della “Carta del gemellaggio sociale”. Parlare di diritti è importantissimo:
bisogna fare in modo che questi non rimangano sulla carta, ma che siano
esigibili ed applicabili.
Dopo aver poi
richiamato rapidamente quelli che sono stati gli sviluppi legislativi in merito
alla tutela dei diritti della famiglia, della mamma e del bambino, ha rimarcato
che ognuna di queste leggi non tutela mai abbastanza le persone, per cui sono sempre necessarie nuove integrazioni; inoltre
ci sono zone che hanno lavorato di più ed altre di meno e per questo è
necessario compiere controlli e verifiche.
Ha poi riassunto la
normativa della Regione Emilia Romagna: la legge regionale 27/1989 “Norme
concernenti la realizzazione di politiche di sostegno alla scelta di
procreazione ed agli impegni di cura verso i figli” che ha portato alla
costruzione di iniziative riguardanti in particolare
la procreazione e la genitorialità. In seguito a
questa legge sono nati servizi per le famiglie: si tratta di centri di accoglienza, informazione, ascolto, attivazione di
progetti di mutuo aiuto, istituiti dai settori pubblico e privato, con la
collaborazione delle parrocchie, delle Circoscrizioni e dei Centri sociali per
anziani.
La legge regionale
9/2005, che prevede l’istituzione del garante regionale per l’infanzia e
adolescenza, si pone l’obiettivo di assicurare la piena attuazione di tutti i diritti
riconosciuti ai bambini e alle bambine, ai ragazzi/ragazze presenti sul
territorio dell’Emilia Romagna.
Ha infine esposto le
delibere del Consiglio regionale in tema di abuso
sessuale, adozione ed affido:
• n. 1425/2004
concernente il protocollo regionale di intesa in
materia di adozione tra
• n. 1495/2003
riguardante l’approvazione delle linee di indirizzo per
le adozioni nazionali ed internazionali in Emilia Romagna;
• n. 1378/2000
avente per oggetto una direttiva regionale in materia di affidamento
familiare;
• n. 1294/1999 che
stabilisce le linee di indirizzo in materia di abuso
sessuale sui minori.
Gli sportelli
famiglia sono attualmente aperti in alcune
Circoscrizioni e c’è il progetto di estenderli in tutte. Attraverso questi
sportelli, che operano anche come banca dati, vengono
raccolte tutte le indicazioni utili alla continua verifica.
A Reggio Emilia,
grazie ai finanziamenti della Regione, è stato aperto lo Sportello donna, che
oltre alle funzioni di informazione e accompagnamento
offre assistenza legale.
Le donne che nel
2004 si sono rivolte allo Sportello donna sono state
799, di cui più della metà straniere; rispetto alle problematiche relative alla
segretezza del parto si sono rivolte ai consultori circa quindici donne
clandestine all’anno e quest’anno, nel primo
semestre, già venti.
All’interno dei
consultori vi è l’“open g”, cioè il consultorio giovane,
dove si accompagnano i minori nel percorso di comprensione per aiutarli a
prendere una decisione, affiancandoli anche nel rapporto con i genitori, nel
comunicare la notizia e nel decidere se tenere o no il bambino.
Una delle nuove
iniziative della Regione Emilia Romagna ricordata da Gina Pedroni
riguarda «l’inserimento nei servizi di
una nuova figura professionale denominata “esperto giuridico” con l’obiettivo
di affiancare le tradizionali figure come gli assistenti sociali, gli psicologi
e gli educatori nella tutela dell’infanzia, dell’adolescenza e delle famiglie».
Con questo nuovo professionista si vogliono raggiungere i seguenti
obiettivi: «Supportare
giuridicamente i servizi nelle situazioni difficili; potenziare l’efficacia e
la tempestività nelle emergenze; sostenere gli operatori nella collaborazione
con gli uffici giudiziari e gli organi di polizia; curare l’aspetto della
legalità nelle relazioni tra enti e mass media per la tutela della dignità
delle persone e della corretta rappresentazione del modo di funzionamento dei
servizi».
Il territorio è un
laboratorio in cui agiscono i vari soggetti pubblici e privati: i poli
territoriali a Reggio Emilia corrispondono con le Circoscrizioni proprio perché
tengono conto della specificità del territorio. È stata creata una figura
specifica per l’accoglienza, in modo da poter costruire insieme il percorso più
idoneo.
La politica del territorio parte
dall’etica della cura assunta come valore pubblico: il territorio è il luogo di
partecipazione del diritto di cittadinanza. L’orizzonte
della normalità (poiché si lavora non solo sulle famiglie in sofferenza, ma
anche sulla prevenzione) e la progettazione partecipata, cioè
la condivisione e la conoscenza delle iniziative in atto, sono finalizzate alla
promozione dei diritti, nonché alla presa di coscienza dei doveri, mettendo al
centro le persone e le relazioni.
La persona con la sua famiglia ed
il suo contesto sono assunti come riferimenti
essenziali: i servizi hanno il compito di promuovere, di facilitare l’accesso,
di abilitare, puntando sull’educazione, per trasformare l’assistenza in sussidiarietà.
Dibattito
Lucia Borgia, Vicepresidente
della Commissione nazionale per le pari opportunità è intervenuta illustrando
la campagna di informazione sul diritto al non
riconoscimento che la Commissione sta attuando tramite un opuscolo in cinque
lingue, distribuito anche ai partecipanti al convegno.
Tale campagna è partita
nell’estate del 2005 con l’invio di opuscoli e depliants ai consultori familiari, alle aziende sanitarie
locali, alle principali strutture ospedaliere, ai centri della Caritas, alle parrocchie, alle principali associazioni
femminili, agli organismi di pari opportunità. L’invio è stato anticipato da
una lettera informativa al Direttore della Caritas
italiana, al Presidente della Conferenza episcopale italiana, ai venti
Assessori regionali, agli Assessori dei Comuni con popolazione superiore ai
15mila abitanti, ai Direttori delle Asl, nonché ai dirigenti dei consultori familiari, delle
associazioni e degli organi di parità.
Nel frattempo è cominciata, sui
principali quotidiani e settimanali, la pubblicazione del simbolo del bambino
chiocciola in cui viene illustrato il diritto a non
riconoscere. «Spirito della nostra
campagna – ha ricordato Lucia Borgia – è soprattutto mettere il
bambino prima di tutto, ma anche tenere molto in considerazione la madre
e non puntare a salvare solo il bambino, ma anche la madre, in una rete di
informazione e prevenzione».
La donna che lascia il bambino
può essere arrivata al culmine della disperazione e della solitudine, incapace
di proiettarsi nel futuro e senza prospettive per la propria esistenza. Ci sono
casi in cui arriva persino ad eliminare la creatura appena venuta alla luce
perché pensa che aggraverebbe la sua già disperata esistenza.
Maria Grazia Breda, rappresentante del Coordinamento
sanità e assistenza tra i movimenti di base di Torino, è intervenuta per
focalizzare alcune proposte operative che sono emerse dagli interventi dei
relatori.
In primo luogo ha invitato
l’Assessore a rilanciare nel coordinamento degli Assessori regionali ai servizi
sociali i contenuti della lettera inviata al convegno dall’Assessore De Poli
affinché si traducano in leggi regionali. Allo scopo
ritiene utile che il disegno di legge anticipato dalla stessa
Angela Teresa Migliasso venga assunto come
riferimento.
Ritiene inoltre che sia
indispensabile individuare tre o quattro poli fra quelli attualmente
preposti alla gestione delle attività socio-assistenziali, per tutta
Altro nodo è quello di riuscire a
raggiungere le interessate perché siano informate sui loro diritti e su quelli
del nato. In merito ha ricordato, come anticipato dall’Assessore Aurora Tesio,
la predisposizione di un opuscolo da parte dell’Unione per la lotta contro
l’emarginazione sociale e il rilancio del numero verde della Provincia di Torino: l’auspicio è che si giunga presto alla
possibilità di un numero verde per tutta
Frida Tonizzo, assistente
sociale dell’Associazione nazionale famiglie adottive
e affidatarie, ha sottolineato l’importanza dell’uso dei termini appropriati
quando si affrontano questi temi: il non riconoscimento, essendo un gesto
responsabile, un “gesto d’amore” come lo definisce Catherine
Bonnet, non ha in sé la connotazione negativa di
“abbandono” e pertanto tale vocabolo non dovrebbe essere utilizzato per i
bambini di cui parliamo.
Per quanto riguarda il termine
genitore è pertinente a chi si prende effettivamente cura di un bambino,
indipendentemente dal fatto di averlo generato. Ha poi invitato a “educare” i
mass-media affinché comunichino in modo corretto:
anche istituzioni, magistrati, operatori e non solo le associazioni dovrebbero
scrivere alle direzioni dei giornali e delle televisioni per creare la cultura
ed il clima favorevole affinché le persone che hanno difficoltà si rivolgano
invece con più fiducia alle istituzioni ed ai servizi.
Frida Tonizzo
ha infine richiamato le competenze istituzionali delle Province e invitato la
magistratura, qui rappresentata da Pasquale Andria,
ad agire nei confronti degli enti locali che non applicano correttamente le
vigenti disposizioni di legge relative all’assistenza
alle gestanti e madri in difficoltà e ai loro nati.
Eleonora Artesio:
Iniziative di “Gemellaggio sociale” e
chiusura dei lavori
Eleonora Artesio, Assessore alla solidarietà
sociale della Provincia di Torino, ha ricordato che uno degli obiettivi del
convegno era quello di porre il tema del diritto di tutti i bambini fin dalla
nascita alla famiglia e la prevenzione dell’abbandono all’attenzione delle
amministrazioni pubbliche, non perché nelle diverse legislazioni regionali il
problema sia trascurato, ma affinché il diritto che si dà per riconosciuto ed
affermato possa essere tenuto presente nelle relazioni
operative dei servizi e nelle responsabilità di intervento e di spesa degli
enti locali.
«Direi – ha affermato Eleonora Artesio – che l’impegno, il quadro di riferimento e
il luogo sono stati individuati; forse a noi (Associazione promozione sociale
ed enti che hanno promosso il convegno) tocca un passaggio aggiuntivo, cioè di provare a definire, in maniera puntuale, a partire
dalla legislazione in corso presso
Una seconda questione riguarda un
lavoro di diffusione delle buone pratiche che questo convegno ha promosso e che
riguardano in particolare:
- «i protocolli tra le amministrazioni e gli ospe-dali;
- «il ragionare e interrogarsi rispetto al rapporto madre/bambino,
ai tempi di permanenza nelle comunità di accoglienza e all’interesse superiore
del minore;
- «le segnalazioni, le compilazioni e le trasmissioni dei dati, affinché
siano puntuali ed i servizi coerenti;
- «la presentazione al Tribunale per i minorenni di un procedimento
completo ed uniformemente leggibile, in modo tale che i tempi di decisione sul
bambino siano a suo vantaggio e non richiedano ulteriore
ricostruzione di percorsi burocratici».
«Tutte queste questioni – ha proseguito Eleonora Artesio
– possono diventare oggetto di un lavoro
di puntualizzazione, per accogliere le idee di
regolare e rendere generali le sperimentazioni, che sono in atto in alcuni
territori, e per ragionare su come la rete che si costituisce possa adottare
l’idea, il servizio, lo strumento e progressivamente farlo diventare almeno di
scala regionale, quando non di scala nazionale».
Riprendendo quanto
emerso nel dibattito in merito all’uso di un linguaggio appropriato, ha altresì
rimarcato l’importanza dell’attenzione e della puntualità dell’uso dei termini adeguati in primis nella stesura dei testi
normativi, ma anche nella diffusione della comunicazione, per informare nel
modo più corretto possibile e per fare un’adeguata promozione culturale.
Tutto questo richiede
naturalmente, che quanto definito nell’odierno convegno, venga
riproposto anche in altre sedi: sarebbe opportuno che appuntamenti simili siano
promossi in quelle parti d’Italia, che oggi non sono riuscite a partecipare,
per diffondere quell’idea di cultura dei diritti qui
emersa, in ordine al diritto del minore ad avere una famiglia e in ordine al
diritto della donna di poter partorire nella dimensione del segreto del parto,
nonché in merito alla cultura dei diritti su cui si fonda l’idea del
“Gemellaggio sociale”.
Nei lavori di oggi
si è ragionato sulla reale esigibilità di un diritto che peraltro era già
formalmente sancito e definito nella vigente normativa. Va però evidenziato che
non sempre le interpretazioni sono corrette per cui
succede che i diritti non siano a volte realmente esigibili.
L’idea del “Gemellaggio sociale”
ha come oggetto fondamentale proprio la tematica della
cultura dei diritti. L’esigibilità dei diritti non è condizionabile dalle
maggioranze politiche. Non a caso la nostra Carta costituzionale, quando nomina
i diritti delle persone, dice anche che lo Stato e
«La legge 328/2000 – ha precisato Eleonora Artesio
– riprende il tema dell’esigibilità dei
diritti, attraverso la definizione della possibilità di usufruire delle
prestazioni e dei servizi, affermandone il carattere di universalità
e definendo quale è il livello essenziale, ma non minimo, sul quale si devono
attestare le prestazioni».
La stessa legge 328/2000
attribuisce alle Province il compito di funzionare come osservatorio delle
politiche sociali, garantendo agli enti territoriali la conoscenza della
dimensione statistica e di tendenza del territorio sul quale si programma; è
quindi l’organo che, per dovere normativo, dovrebbe in primo luogo interpretare
e segnalare ai soggetti gestori quale è la dimensione
economica e sociale del territorio e quali sono le nuove tendenze.
Il “Gemellaggio sociale” può
diventare una sorta di catena delle amministrazioni provinciali che sottoscriveranno il relativo protocollo di intenti, per cui,
a partire dai temi sui quali vanno realizzate le garanzie fondamentali,
ciascuna Amministrazione provinciale possa promuovere, nell’arco di un anno, un
appuntamento collettivo.
Questo gemellaggio non deve
essere solo un impegno politico ed operativo, ma anche un’alleanza sociale; ad
oggi vi hanno aderito le Province di Alessandria,
Biella, Cagliari, Caltanissetta, Cuneo, Firenze, Frosinone, Lodi, Lucca, Milano, Parma e Pescara. Ulteriori adesioni saranno ricercate attraverso l’invio
della documentazione concernente i lavori di questo convegno.
(4) Il documento base del “Gemellaggio sociale” è riportato
in allegato nel capitolo riguardante le conclusioni operative.
(5) Il testo integrale del disegno di legge è riportato
nell’allegato 5 delle conclusioni operative.
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