Prospettive assistenziali, n. 154, aprile - giugno 2006
L’ADOZIONE MITE: UNA INIZIATIVA ALLARMANTE E ILLEGITTIMA,
FRANCESCO SANTANERA
La questione della cosiddetta
adozione mite è stata affrontata nuovamente da Franco Occhiogrosso,
Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari, in un articolo riportato sul
numero 3, 2005 di Minorigiustizia (1), in cui ancora una volta ha
affermato il falso e cioè che detta procedura è una «prassi giuridica autorizzata dal Consiglio
superiore della magistratura».
Al riguardo segnaliamo che in
data 23 maggio 2006 il Segretario generale di detto Consiglio
superiore ha inviato all’Anfaa (Associazione nazionale famiglie adottive e
affidatarie) la seguente lettera: «Comunico
che la settima Commissione, nella seduta del 16 maggio 2006, con riferimento
alla nota in oggetto indicata (2), ha
deliberato di comunicare che il Consiglio non ha autorizzato la prassi
giudiziaria per “l’adozione mite” presso il Tribunale per i minorenni di Bari,
essendosi limitato a prendere atto della nota in data 6 maggio 2003 del
Presidente di quel Tribunale con la quale veniva
comunicato che era stata istituita “l’adozione mite”, trattandosi, peraltro, di
attività giurisdizionale e di interpretazione di norme giuridiche su cui il
Consiglio superiore della magistratura non ha alcuna competenza» (3).
I fuorvianti presupposti dell’adozione mite
Anche nel secondo articolo, il
Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari pone a sostegno dell’adozione
mite presupposti assolutamente inconsistenti o fuorvianti.
In altre parole,
l’adozione mite è una creazione del Tribunale per i minorenni di Bari che, per
poterla ancorare a qualche elemento concreto, ha alterato, come abbiamo visto,
in autorizzazione una semplice presa d’atto del Consiglio superiore della magistratura.
2. È,
altresì, significativa l’ammissione di Franco Occhiogrosso che, nel citato articolo “L’adozione mite due
anni dopo”, è costretto a riconoscere che nessun Tribunale per i minorenni «ha finora seguito l’esempio di quello di
Bari, sicché la sperimentazione dell’adozione mite è rimasta isolata».
In effetti, da
quanto mi risulta nessun altro Tribunale per i
minorenni ha violato le norme
attualmente operanti in materia di adozione e nessun altro giudice ha finora
ritenuto che l’adozione mite abbia «la
dignità di un progetto culturale qualificante (…) destinato a modificare
sensibilmente le linee normative attualmente vigenti in tema di adozione e
affidamento familiare», come, con un’argomentazione di comodo, il
Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari si autocompiace
di definire i suoi provvedimenti in materia.
3. Franco Occhiogrosso segnala, altresì, che il punto di partenza
dell’adozione mite «è costituito dalla
constatazione che il numero dei bambini adottabili e poi adottati è andato notevolmente
diminuendo negli ultimi anni, a conferma che le situazioni di pieno abbandono
morale e materiale tendono a ridursi, mentre resta sempre alto quello delle
domande di adozione. A ciò si aggiunge che l’adozione internazionale, verso cui
molte coppie si orientano, ha costi alti, che spesso scoraggiano gli aspiranti
adottanti». Pertanto, secondo lo stesso Occhiogrosso
«una consistente risorsa umana,
costituita dalle grandi capacità affettive ed
educative delle tante persone (per lo più senza figli) che propongono domanda
di adozione nazionale e non vedono coronare il loro sogno di adottare, rischia
di andare perduta. Di qui, – conferma il Presidente del
Tribunale per i minorenni di Bari – è sorta la prima idea di parlare agli
aspiranti adottanti (ma anche ad altri) dell’adozione mite».
Dunque, ammette Franco Occhiogrosso, il progetto dell’adozione mite è stato
costruito partendo dalle numerose domande presentate da aspiranti adottanti e
non dalle pur pressanti esigenze dei minori in gravi difficoltà, esigenze che
una società veramente matura dovrebbe riconoscere e sancire come prioritari
diritti esigibili. Per il rispetto di dette esigenze e per il riconoscimento
dei relativi diritti esigibili vi era e vi è l’urgente
necessità che le persone ed i gruppi interessati (e quindi anche i magistrati
minorili) premano sulle autorità preposte (Parlamento, Governo, Regioni,
Comuni, Asl, ecc.) affinché predispongano le misure
occorrenti per la prevenzione del disagio e per fornire le prestazioni volte ad
eliminare o almeno ridurne i deleteri effetti.
Priorità assoluta
delle esigenze dei minori in condizioni di disagio
Com’è noto, partendo
dal riconoscimento effettivo dell’assoluta preminenza delle esigenze dei
minori, le leggi 431/1967, 184/1983 e 149/2001 hanno stabilito il diritto alla
famiglia di tutti i fanciulli «privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei
parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a
causa di forza maggiore di carattere transitorio». Allo scopo di evitare in
tutta la misura del possibile la sottrazione di minori
ai congiunti in difficoltà, il legislatore ha previsto una serie di misure
(procedimento di adottabilità, ricorsi, ecc.) finora dimostratesi
sostanzialmente efficaci, anche se occorre deplorare che il Parlamento non
abbia ancora approvato le norme volte ad assicurare l’assistenza legale del
minore, dei genitori e degli altri parenti ed a snellire le procedure
concernenti la dichiarazione di adottabilità (4).
Per quanto concerne
i fanciulli non dichiarabili in stato di adottabilità,
appartenenti a nuclei familiari in gravi condizioni di disagio, le leggi
vigenti stabiliscono, come indiscutibile priorità, il sostegno ai genitori e allo stesso minore al fine di evitare per
quanto fattibile la loro separazione.
È ben vero che
l’affermazione contenuta nel 1° comma dell’articolo 1 della
legge 184/1983 – «Il minore ha
diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia» –
è teorica e non sono previste nel nostro ordinamento norme organiche che ne
prevedano l’esigibilità (5), ma è altrettanto certo
che occorrerebbe che tutti coloro che operano nel settore minorile, e quindi
anche i magistrati dei Tribunali e delle Procure per i minorenni,
sollecitassero il Parlamento, le Regioni ed i Comuni per l’approvazione delle
disposizioni occorrenti per il passaggio dalla sopra citata valida affermazione
di principio a concreti provvedimenti attuativi.
Sarebbe, infatti, estremamente grave sotto tutti i punti di vista (etico,
giuridico, umano, familiare e sociale) che, nei confronti dei nuclei familiari
in difficoltà, i servizi sociali intervenissero esclusivamente o
prioritariamente mediante l’affido dei minori ad altre famiglie o persone,
oppure – peggio ancora – tramite il ricovero presso strutture
assistenziali.
In primissimo luogo
occorre, invece, che i genitori e, se del caso, gli altri congiunti, siano
tempestivamente e adeguatamente sostenuti al fine di risolvere per quanto
possibile le situazioni di disagio e di evitare separazioni ingiustificate dei
minori dal loro nucleo d’origine. D’altra parte, nei casi di affido,
dovrebbe essere privilegiato l’inserimento del minore presso i congiunti
disponibili e idonei.
Inoltre, se agissero
in modo corretto, gli enti preposti non dovrebbero solamente fornire
prestazioni assistenziali, ma garantire innanzitutto
l’utilizzo dei servizi di base: casa, sanità, scuola, ecc. (6).
Nessuna forma di adozione e/o altri istituti giuridici dovrebbero
costituire un alibi per le Regioni, gli enti locali e le altre istituzioni
volto a non fornire i necessari interventi di prevenzione del disagio e di
eliminazione o riduzione dei suoi effetti, spesso devastanti.
A mio avviso, questi
sono gli interventi assolutamente prioritari da assumere a difesa delle
esigenze dei minori e dei nuclei familiari in difficoltà.
Precisazioni sul ruolo dell’affidamento familiare a scopo educativo
Anche nel secondo articolo,
Franco Occhiogrosso ripete quasi parola per parola
quanto aveva già sostenuto nel primo per quanto riguarda l’affidamento
familiare a scopo educativo, e cioè che al compimento
del 18° anno di età del minore «la loro
famiglia di origine nella massima parte dei casi continuerà a non essere in
grado di accoglierli (pur mantenendo con loro rapporti personali, sia pure per lo
più sporadici), mentre gli affidatari non saranno più impegnati in alcun modo
ad accoglierli nella loro famiglia». Si tratta di una affermazione
estremamente grave che considera tutti gli affidatari come persone prive di
umanità, decise a buttare allo sbaraglio i ragazzi, magari accolti da molti
anni e che fornisce alle Regioni e agli enti gestori delle attività sociali
una preoccupante giustificazione al loro disinteresse nei confronti del futuro
di questi giovani (7).
Nel mio precedente articolo (8)
avevo citato le positive iniziative assunte dal Comune
di Torino (presenti altresì in altre città) sia in merito alla prosecuzione
dell’affidamento familiare a scopo educativo fino al compimento del
venticinquesimo anno del ragazzo, sia anche oltre il suddetto limite nei casi di
soggetti con handicap o altre difficoltà. Dette iniziative erano state promosse
dall’Anfaa e da Prospettive assistenziali, proprio in considerazione delle
disponibilità pervenute da numerose famiglie affidatarie.
Vi sono e certamente vi saranno in futuro situazioni in cui i nuclei familiari di origine,
nonostante gli interventi di sostegno, non sono in grado di provvedere a tutte
le esigenze affettive ed educative dei loro figli. A mio avviso devono poter
contare su aiuti sociali, e se possibile su un altro nucleo familiare, senza
che questo affiancamento si
trasformi in una sottrazione dei loro congiunti. Dunque, vi sono e vi saranno
sempre affidamenti familiari a scopo educativo a lungo termine, anche se va ribadito che, com’è ormai da anni accertato in modo
incontrovertibile, i servizi (e non solo quelli socio-assistenziali) (9) devono
intervenire nei riguardi sia del nucleo affidatario
sia di quello d’origine.
Troppo spesso le difficoltà di
gestione degli affidamenti familiari a scopo educativo e gli ostacoli al
rientro in famiglia dell’affidato o all’autonomo suo inserimento sociale sono
la conseguenza diretta delle carenze di intervento dei
servizi.
Evidentemente, per gli enti
pubblici è assai più semplice e meno costoso trascurarei
nuclei di origine dei minori, soprattutto quelli molto
problematici e asserire che non c’è nulla da fare nei loro riguardi e quindi
scaricare tutte le responsabilità su coloro a cui viene concessa l’adozione
mite.
In ogni caso ritengo che i
servizi dovrebbero sempre presentare ai Tribunali per i minorenni relazioni con la dettagliata descrizione degli interventi
concreti proposti e dei relativi comportamenti di accettazione o di rifiuto
assunti dai componenti del nucleo familiare di origine dell’affidato (10). Solamente
in questo modo, del tutto opposto alla facile autoreferenzialità,
gli enti pubblici gestori dei servizi sarebbero veramente in grado di
documentare il loro operato anche alle autorità
giudiziarie minorili.
Nello stesso tempo i nuclei
familiari di origine avrebbero concreti riferimenti
per la presentazione di osservazioni, di proposte alternative o di ricorsi.
L’affidamento familiare di minori
a scopo educativo dovrebbe essere disposto solo quando
le difficoltà dei nuclei d’origine non sono state risolte o rese sopportabili
mediante gli interventi di sostegno forniti al nucleo familiare di appartenenza
dei minori dagli enti preposti all’erogazione delle prestazioni della sanità,
della casa, dell’istruzione, della formazione professionale, del lavoro e,
occorrendo, dei servizi socio-assistenziali.
Purtroppo, nonostante la priorità
delle iniziative sopra indicate (11), Franco Occhiogrosso
continua a proporre l’adozione mite come l’intervento idoneo e indispensabile
per i ragazzi che non possono rientrare nella loro famiglia di
origine, compresi quelli che, come precisa lo stesso Occhiogrosso,
mantengono «un legame affettivo che non
consente l’interruzione totale dei rapporti» senza nemmeno prevedere
l’apertura di un apposito procedimento giudiziario. Essendo presenti detti legami affettivi, che dovrebbero essere
sempre considerati come componenti essenziali della
dignità delle persone coinvolte, non è accettabile che, come sostiene il
Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari, la semplice constatazione del
mancato rientro in famiglia dell’affidato possa determinare una situazione di
“semiabbandono permanente” senza nemmeno prevedere l’apertura di un apposito
procedimento giudiziario.
Le insidie del semiabbandono permanente
Nell’articolo in oggetto, Franco Occhiogrosso ritiene corretto «identificare la situazione di semiabbandono permanente in quella che
comporta la pronuncia del provvedimento giuridico di decadenza dei genitori dalla potestà del figlio» in quanto il
mancato rientro in famiglia determina “un
pregiudizio grave” per il minore (12).
D’altra parte non comprendo come
possa essere disposta la decadenza nei casi in cui, come riconosce lo stesso Occhiogrosso, i genitori mantengono «un legame affettivo» con il proprio figlio.
Il Presidente del Tribunale per i
minorenni di Bari ritiene addirittura valida la proposta di legge n. 5724 (cfr. la nota 3) secondo cui la
pronuncia dell’adozione mite «non esige
l’accertamento giuridico caso per caso della situazione di semiabbandono
permanente». Non essendo previsto alcun procedimento giudiziario volto ad
accertare la situazione di semiabbandono permanente, l’adozione mite può
determinare – il che è assolutamente inaccettabile – la sottrazione dei figli
ai nuclei familiari in difficoltà.
Il fuorviante
riferimento all’articolo 44, comma 1, lettera d) della legge 184/1983
riguardante l’adozione nei casi particolari
Franco Occhiogrosso
insiste nel sostenere che la pronuncia dell’adozione mite è attuabile in base all’articolo 44, comma 1, lettera d) della legge 184/1983
concernente l’adozione nei casi particolari (13).
Come avevo già osservato nel mio
precedente articolo, risulta invece evidente che, per
poter applicare la suddetta disposizione, non solo «occorre accertare l’impossibilità
della realizzazione dell’affidamento preadottivo
del minore» com’è esplicitamente previsto dalla lettera d), ma bisogna
altresì tener conto che «condizione sine qua non perché
possa essere disposto l’affidamento preadottivo di un
minore è la dichiarazione da parte del Tribunale per i minorenni della sua
adottabilità».
Infatti, la legge 184/1983
stabilisce che possono essere accolti in affidamento preadottivo
esclusivamente i minori dichiarati in stato di adottabilità.
Se fosse valida l’interpretazione
del Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari, secondo cui l’adozione
mite può essere disposta anche senza la preventiva dichiarazione di adottabilità, ciò significherebbe che:
a) tutti i minori affidati a
scopo educativo che non rientrano nel loro nucleo familiare di
origine possono essere sottratti ai loro genitori e agli altri congiunti
(14);
b) alle persone sole è
riconosciuta, alla pari delle coppie, la possibilità di adottare addirittura
indipendentemente (si veda il comma 4 dell’articolo 44 della legge 184/1983)
dai limiti massimi della differenza di età fra
adottanti e adottandi prevista per i coniugi dalle norme sull’adozione
legittimante.
In sostanza, la posizione assunta
dal Tribunale per i minorenni di Bari snatura tutti i presupposti fondamentali
della legge sull’adozione legittimante: l’obbligo della preventiva
dichiarazione dello stato di adottabilità, la
pronuncia dell’adozione esclusivamente nei riguardi delle coppie sposate, il
rispetto dei limiti massimi della differenza di età intercorrente fra gli
adulti ed i minori.
Segnalo, altresì, la
contraddizione in cui è caduto Franco Occhiogrosso quando scrive che «esiste
una forma di adozione in casi particolari, quella prevista dall’articolo 44,
lettera d) della legge 4 maggio 1983 n. 184, che consente l’adozione di bambini
quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo»,
e precisa che «questa espressione
della legge viene intesa dalla giurisprudenza come riferibile sia ai bambini
portatori di difficoltà personali, sia a quelli in cui un bambino abbandonato
si trovi già presso una famiglia a cui è legato da un rapporto affettivo solido,
tanto che un allontanamento determinerebbe per lui un serio pregiudizio».
Riconosce dunque il Presidente
del Tribunale per i minori di Bari che l’articolo 44, lettera d), della legge
184/1983 è ritenuto dalla giurisprudenza applicabile al «bambino abbandonato»,
ma non tiene conto che dalla stessa legge è ritenuto tale
solo quello dichiarato in stato di adottabilità.
Inoltre, contrariamente a quanto
scrive Franco Occhiogrosso, l’adozione nei casi
particolari non è mai praticabile nei riguardi dei «bambini portatori di difficoltà personali», ma esclusivamente nei
confronti del
minore (cfr. la nota
12) che si trova «nelle condizioni indicate dall’articolo 3, comma 1 della legge 5
febbraio 1992 n. 104 e sia orfano di padre e di madre» e cioè del fanciullo
non solo privo dei genitori (condizione
omessa dal Presidente del Tribunale per i minori di Bari), ma che presenta
anche «una minorazione fisica, psichica o
sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di
apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare
un processo di svantaggio sociale o di emarginazione» come stabilisce il
sopra richiamato articolo 3, comma 1 della legge 104/1992 (15).
Una citazione scorretta
Per sostenere la sua posizione
sull’adozione mite, Franco Occhiogrosso cita anche
l’ordinanza della Corte costituzionale n. 347/2005 in cui viene
stabilito che è «ammissibile l’adozione
internazionale negli stessi casi in cui è ammessa l’adozione nazionale
legittimante o in casi particolari» (16).
Orbene, è vero che
Dunque, anche
Alcune conseguenze
sfavorevoli dell’adozione nei casi particolari
Com’è noto, gli
effetti dell’adozione nei casi particolari sono molto negativi per
l’adottato rispetto all’adozione legittimante. Infatti:
a) non diventa figlio legittimo
dei coniugi adottanti e non stabilisce alcun rapporto di parentela con i componenti della famiglia adottiva;
b) può essere adottato anche da
una sola persona;
c) l’adottato non rompe i
rapporti con la sua famiglia di origine anche se il o
gli adottanti nei casi particolari esercitano i poteri parentali nei suoi
riguardi. Pertanto restano fermi i doveri dell’adottato
nei confronti di tutti i suoi congiunti d’origine, compresa, ad esempio, la
prestazione degli alimenti;
d) quasi sempre
l’adottato deve anteporre al proprio il cognome dell’adottante. A causa del
doppio cognome è facilmente individuabile come figlio adottivo;
e) il o gli adottanti possono
essere persone anche molto anziane non essendo
previsti limiti massimi alla differenza di età fra gli addottanti
e il minore;
f) il Tribunale per i minorenni
può pronunciare l’adozione anche senza l’assenso dei genitori «ove ritenga il rifiuto ingiustificato o
contrario all’interesse dell’adottando»;
g) l’adozione nei casi
particolari può essere disposta anche senza interpellare i fratelli e le
sorelle dell’adottando nonché gli altri congiunti del
minore;
h) l’adozione può essere revocata
anche se solo per gravi motivi.
Inoltre, occorre tener presente
che «la posizione del minore adottato
nei casi particolari, dal punto di vista delle registrazioni anagrafiche,
conserva tutte le indicazioni relative ai rapporti di
famiglia, che vanno integrate con quelle conseguenti a tale forma di adozione
e, altrettanto, in sede di certificazione, sia essa d’anagrafe che di stato
civile, per cui esse, quando rilasciate nei soli casi in cui sia ammessa
l’indicazione della paternità/maternità (articolo 2 del decreto del Presidente
della Repubblica 2 maggio 1957, n. 43) indicheranno la paternità/maternità
integrata dall’indicazione di “adottata/o da…”» (17). Inoltre, nel caso di
decesso dell’adottato nei casi particolari, rimasto orfano dei genitori
adottivi, hanno diritto all’eredità i congiunti della sua famiglia di origine, esclusi solamente, ai sensi della legge
137/2005, i genitori d’origine (e non gli altri parenti) qualora essi siano
stati dichiarati decaduti dalla potestà genitoriale.
Conclusioni
A mio avviso l’adozione è e deve
restare l’istituto giuridico preposto al pieno inserimento familiare dei minori
totalmente privi di sostegno morale e materiale da parte dei genitori e degli
altri parenti d’origine. Adottare significa diventare madre o padre di un
minore procreato da altri e conseguentemente per l’adottato vuol dire diventare
figlio di persone che non l’hanno procreato, ma l’hanno accolto, amato e
cresciuto.
Si tratta di genitorialità
vere e di filiazioni vere.
L’adozione cosiddetta mite non è
prevista nel nostro ordinamento giuridico e non deve essere ammessa sia per
rispettare la vera essenza della filiazione e della genitorialità
adottive, sia per evitare che possa essere concepita o
diventare una forma di sostegno assistenziale o peggio possa essere utilizzata
per sottrarre i figli ai nuclei familiari in gravi difficoltà.
Per quanto riguarda l’affidamento
familiare a scopo educativo, occorre ribadire che può
essere disposto esclusivamente nei casi in cui non siano concretamente
praticabili gli aiuti psico-sociali al nucleo
familiare di origine.
Effettuato l’affidamento, detto nucleo non
deve mai e per nessun motivo, essere abbandonato a se stesso, ma, in parallelo
alle azioni sociali rivolte al fanciullo e agli affidatari, deve essere
sostenuto per consentire il rientro del minore e, se questa eventualità non è
possibile, per promuovere rapporti positivi con il minore.
Nei casi in cui, nel corso
dell’affidamento familiare a scopo educativo il minore venga
dichiarato adottabile, perché totalmente privo di sostegno morale e materiale
da parte del suo nucleo d’origine, dovrebbe essere disposta l’adozione
legittimante, assicurando la permanenza del ragazzo nella famiglia o presso la
persona che l’ha accolto.
(1) Cfr. Franco Occhiogrosso, “L’adozione mite due
anni dopo”, Minorigiustizia, n. 3, 2005. Sulla stessa
rivista, n. 1, 2003 era stata pubblicata, fra l’altro, la circolare del 1°
aprile 2003 del Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari in cui veniva avviata la sperimentazione relativa all’adozione
mite. Da notare che detta circolare è stata spedita prima del pronunciamento
del Consiglio superiore della magistratura.
(2) In data 7 ottobre 2005 l’Anfaa ha inoltrato una
nota al Presidente, al Vice Presidente e ai Componenti del Consiglio superiore
della magistratura chiedendo che detto Consiglio, tenuto conto che le sue
funzioni «non contemplano la facoltà di
autorizzare interpretazioni giuridiche innovative della normativa vigente»,
si pronunciasse nuovamente sull’autorizzazione concessa al Tribunale per i
minorenni di Bari per l’avvio della sperimentazione relativa all’adozione mite «rettificando quanto a suo tempo
deliberato». Il testo integrale della lettera inviata dall’Anfaa al
Consiglio superiore della magistratura è riportato sul n. 152, 2005 di Prospettive assistenziali.
(3) Poiché i due citati articoli di Franco Occhiogrosso pubblicati su Minorigiustizia avevano indicato
l’autorizzazione del Consiglio superiore della magistratura come fondamento dei
provvedimenti assunti dal Tribunale per i minorenni di Bari sull’adozione mite,
confidiamo che, per evidenti esigenze di corretta informazione in questo delicato
settore, Minorigiustizia
segnali ai suoi lettori la precisazione sopra riportata inviata all’Anfaa dal
Segretario generale di detto Consiglio superiore. Al riguardo, ricordiamo che
nella proposta di legge n. 5724 “Modifiche della legge 4 maggio 1983 n.
(4) Nei due citati articoli di Franco Occhiogrosso non c’è alcun cenno a queste importanti
questioni.
(5) Diritti esigibili nei riguardi dei minori e dei
loro congiunti in gravi difficoltà sono previsti solamente dalla legge della
Regione Piemonte n. 1/2004. Cfr. Giuseppe D’Angelo,
“La nuova legge regionale piemontese sull’assistenza”, Prospettive assistenziali, n. 147, 2004,
nonché dalla legge 2838/1928 per quanto concerne i figli di ignoti ed i minori
riconosciuti dalla sola madre.
(6) Si veda in questo numero l’articolo di Mauro Perino, “Per una corretta ridefinizione
del ruolo del settore socio-assistenziale”.
(7) Ricordo che, ai sensi dei vigenti articoli 154 e
155 del regio decreto 773/1931, i Comuni sono obbligati ad assistere le persone
che non sono in grado di vivere con le proprie risorse.
(8) Cfr. Francesco Santanera, L’adozione mite: come svalorizzare
la vera adozione, Prospettive assistenziali, 147, 2004.
(9) Si pensi, ad esempio, alle situazioni assai
frequenti in cui coesistono problematiche del nucleo d’origine e/o di quello affidatario concernenti la sanità, la scuola, la casa e
altri settori sociali.
(10) Spesso le relazioni contengono giudizi senza
riferimenti a fatti concreti. Cfr. Alina
Balma, “Carenti le relazioni sociali inviate al
Tribunale per i minorenni di Torino. I risultati di una ricerca”, Prospettive assistenziali,
n. 127, 1999.
(11) Nell’articolo in oggetto, Franco Occhiogrosso asserisce che il Tribunale per i minorenni di
Bari sta procedendo alla sottoscrizione di protocolli di intesa con i servizi
territoriali. Questa potrebbe essere l’occasione per una definizione degli
interventi che detti servizi dovrebbero impegnarsi a garantire per sostenere i
nuclei familiari di origine anche al fine di favorire
il rientro dell’affidato, o per consentire, se necessario, la prosecuzione
degli affidamenti al raggiungimento del diciottesimo anno di età, oppure per
supportare l’autonomo inserimento sociale del giovane.
(12) L’articolo 330 del codice civile è così redatto:
“Il giudice può pronunziare la decadenza
della potestà quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o
abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio. In tale caso, per
gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla
residenza familiare”.
(13)
L’articolo 44 della legge 184/1983 è così redatto:
«1. I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le
condizioni di cui al comma 1 dell’articolo 7:
a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o
da preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di
padre e di madre;
b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo
dell’altro coniuge;
c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate dall’articolo 3,
comma 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e sia orfano di padre e di madre;
d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento
preadottivo.
«2. L’adozione, nei casi indicati nel comma 1, è consentita anche in presenza di figli legittimi.
«3. Nei casi in cui alle lettere a), c) e d) del comma 1, l’adozione è
consentita, oltre che dai coniugi, a chi non è coniugato. Se l’adottante è
persona coniugata e non separata, l’adozione può essere tuttavia disposta solo
a seguito di richiesta da parte di entrambi i coniugi:
«4. Nei casi in cui alle lettere a) e d) del comma 1 l’età dell’adottante
deve superare di almeno diciotto anni quella di coloro che egli intende
adottare».
A sua volta il comma 1 dell’articolo 7 della legge 183/1984 stabilisce che «l’adozione è consentita a favore dei minori
dichiarati in stato di adottabilità (…)».
(14) Ovviamente, nei casi in cui i minori in
affidamento siano dichiarati in stato di adottabilità e il relativo
provvedimento del Tribunale per i minorenni sia diventato definitivo, è
auspicabile il pronunciamento dell’adozione legittimante di modo che l’affidato
continui a rimanere nella famiglia che l’ha accolto e benefici dei notevoli
vantaggi che l’adozione legittimante presenta nei confronti dell’adozione mite.
(15) L’accertamento della condizione di persona con
handicap è demandato dalla legge 104/1992 alle apposite Commissioni mediche
delle Aziende sanitarie locali. Come avevo già sostenuto nel mio precedente
articolo, è auspicabile che la norma riguardante i
minori con handicap venga applicata esclusivamente ai soggetti in situazione di
gravità e nei casi in cui non sia praticabile l’adozione legittimante, e cioè
nei casi in cui il minore con handicap è stato accolto da una persona sola.
(16) Cfr. Francesco Santanera, “Ordinanza della Corte costituzionale in merito
all’adozione di minori stranieri da parte di persone singole”, Prospettive assistenziali,
n. 151, 2005.
(17) Cfr. Nicola Corvino e Vincenzo Mercurio,
“Adozione nei casi particolari, effetti, relazioni familiari”, I servizi demografici, n. 7/8, 2005.
www.fondazionepromozionesociale.it