Prospettive assistenziali, n. 154, aprile - giugno 2006

 

 

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE CIAMPI

Roberto Tarditi

 

 

Riceviamo e pubblichiamo integralmente la lettera inviata da Roberto Tarditi al Presidente Ciampi il 3 maggio 2006, rilevando che, limitatamente alle questioni concernenti la fascia più debole della popolazione, durante lo scorso settennato, il Presidente della Repubblica non ha assunto nessuna iniziativa, nemmeno di natura promozionale, a favore della fascia più debole della popolazione, nonostante le loro allarmanti condizioni di vita. Basti pensare che ai soggetti con handicap impossibilitati a svolgere qualsiasi attività lavorativa proficua e privi di ogni risorsa economica, l’importo mensile della pensione è di euro 238,07. Adesso confidiamo che il nuovo Presidente della Repubblica si ricordi delle centinaia di migliaia di persone che in Italia sono costrette a condizioni di vita subumana.

 

Mi chiamo Roberto, sono un cittadino di 61 anni, dalla nascita affetto da tetraparesi spastica, rinchiuso all’età di due anni al Cottolengo di Torino, una struttura «deputata a fornire una residenza a categorie diverse di persone socialmente indesiderate». Luogo sul quale in passato sono stati sparsi (e tuttora) fiumi d’inchiostro; riguardo al ruolo del Cottolengo, molti giornalisti hanno scritto sempre però da un punto di vista pietistico e tendente a ribaltare il reale rapporto tra cause ed effetti. Tutti ponevano l’accento sul fatto che fosse un luogo di sofferenza non già per l’alienante organizzazione dell’esistenza all’interno di un istituto, ma per le condizioni fisiche e mentali dei ricoverati. Ricoverati che, non per mancanza di stimoli ed attenzione, ma sempre per la loro menomazione, avevano lo sguardo vuoto e fisso, si lasciavano vegetare. Così negli anni è nato il mito della Piccola Casa dove mostri innocenti, il cui unico ruolo era di espiare i peccati del mondo con la loro sventura, erano accolti e protetti dalla misericordia di preti, suore e volontari.

Io che al Cottolengo ho passato non qualche ora da volontario ma 35 anni da recluso, posso dire che i “mostri” e i “predestinati alla sofferenza” non esistono. Esistono solo persone con delle loro specificità. Persone che non chiedono pietà, ma solo l’affermazione dei loro diritti, diritti che non devono essere il prodotto di un atto caritatevole ma di un elementare riconoscimento di dignità.

Signor Presidente, il Csa (Coordinamento sanità e assistenza tra movimenti di base), che opera nel campo del volontariato dei diritti dal 1970, ha alle spalle un lungo e intenso percorso di rivendicazioni in difesa dei diritti delle persone svantaggiate. Tra le numerose iniziative, ha contribuito a realizzare il nostro sogno. Fu infatti il primo ad avviare la deistituzionalizzazione delle persone con handicap. Al fine di realizzare questo obiettivo, propose ed ottenne dall’Assessore alla casa del Comune di Torino l’assegnazione di alloggi dell’edilizia popolare per la coabitazione di persone con handicap che intendevano uscire dagli istituti o non volevano essere ricoverati, stabilendo che i loro punteggi personali potevano essere sommati. La proposta ha consentito a molte persone con handicap anche grave di vivere insieme agli altri cittadini.

Grazie a questa conquista, nel settembre 1981, finalmente il Comune di Torino ha assegnato a me e al mio amico Piero (focomelico sia negli arti superiori che inferiori) un alloggio di edilizia residenziale pubblica. Con l’aiuto dei nostri amici siamo riusciti ad arredarlo alla meglio. All’inizio il problema fondamentale è stato quello di ricominciare una vita, trasformarsi in altre parole da persone passive e assistite a persone attive che devono organizzare, in due, il loro quotidiano. È chiaro che nei primi tempi la mancanza di una struttura protettiva si faceva sentire e, quindi, le paure e le incertezze erano all’ordine del giorno.

Sono già trascorsi 25 anni dalla conquista dell’indipendenza, da quando il cancello della Piccola Casa della Divina Provvidenza – il Cottolengo – si è spalancato per lasciarci finalmente libera la strada verso casa nostra. Ricordo come questa scelta nacque a mo’ di scommessa e come fu vista con scetticismo anche da molti conoscenti; solo pochi amici colsero l’importanza della sfida e ci aiutarono concretamente a superare le difficoltà morali e materiali che si sarebbero presentate quotidianamente alle prime due persone affette da un handicap fisico grave in Torino che fortemente rivendicavano e lottavano per ottenere la propria individualità, la propria vita e la propria casa.

È traendo spunto dalla nostra esperienza positiva che nel 2000, contestualmente alla pubblicazione del libro Anni senza vita al Cottolengo (1) in cui viene raccontata la nostra vicenda, ho costituito insieme ad altre persone l’Associazione “Mai più istituti d’assistenza”.

L’Associazione raccoglie le esperienze e le testimonianze di persone che, sotto diversi punti di vista e modalità, si sono confrontate con la realtà del ricovero in istituti d’assistenza, ricovero nato dalla diversità e dalla debolezza, sia questa dipendente da un handicap che semplicemente legata alla minore età, a situazioni di trascuratezza o abbandono.

Tra gli scopi principali dell’Associazione vi sono l’istituzione di un servizio diretto a richiedere, per tutte le persone ricoverate durante la loro minore età, il risarcimento dei danni morali e materiali, e la forte richiesta alle Regioni e ai Comuni della realizzazione di servizi sul territorio quale condizione indispensabile per l’effettivo superamento degli istituti. Una vita reclusa all’interno di un istituto, infatti, ha effetti negativi sulla personalità ed in particolare su quella dei bambini e dei ragazzi, lasciando traumi psicologici indelebili per tutta la vita. Per questi motivi, l’Associazione lotta con forza per garantire il diritto di tutti i bambini – compresi quelli handicappati o malati – a crescere in una famiglia, anzitutto quella d’origine, assicurando ad essa i necessari servizi sociali e assistenziali e, quando questo non sia possibile, ad essere inseriti in una famiglia affidataria in caso d’inidoneità temporanea dei loro genitori, oppure in un’adottiva quando siano completamente privi di assistenza morale e materiale.

 

Fatte queste premesse Le sottoporrei alcuni punti di riflessione

La motivazione che mi ha spinto a scriverLe è la volontà di precisare e ribadire alcuni concetti che ritengo fondamentali.

Nel Suo intervento riportato il 24 giugno 1999 (pubblicato da la Repubblica con il titolo “Con la passione la vita sarà più bella”), Lei rispondeva a uno studente con handicap che chiedeva maggior rispetto e considerazione per i ragazzi posti nella medesima sua condizione garantendo «il massimo impegno nell’assistenza di tutti coloro che soffrono».

Mi permetto, Signor Presidente, di ricordarLe che la vita delle persone handicappate non si esprime solamente attraverso il patimento e la sofferenza. Infatti, se, come dice Carlo Levi, «le parole sono pietre», il continuare a svilire la dignità umana e morale di alcune persone – celebrando il rito della retorica cristiana, che parla di corpi straziati e menti imperfette – è denigrante ed offensivo almeno quanto la sofferenza che Lei intende porre come elemento di priorità della vita di queste persone.

Le persone con handicap di varia entità vanno considerati e sono cittadini a tutti gli effetti con eguali diritti e doveri dinanzi al mondo, che non chiedono solamente assistenza medica o tanto meno morale, ma una reale possibilità di integrazione sociale, l’applicazione concreta di quei diritti a Lei tanto cari. Per questo ritengo sia equivoco, offensivo e inutile inquadrare l’opera e il lavoro dei volontari che interagiscono quotidianamente con queste persone come un atto e  una pratica consolatoria nei riguardi di vite che sembrano essere guardate con pietà e non con dignità. Si svilisce ancor di più l’importanza della relazione umana e dello scambio emotivo reciproco  che valorizza un equilibrio tra differenze e uguaglianze appartenente all’essere umano nella sua totalità e che si manifesta sempre nell’ambito delle relazioni uno a uno.

Per questo reputo quanto meno preoccupante, se non deludente, il fatto che Lei, che si dice così attento alle istanze e ai bisogni difesi dal mondo del volontariato, abbia di fatto respinto e annullato la richiesta di un incontro-confronto con il Csa (che attualmente raggruppa ben ventidue organizzazioni che lavorano in difesa dei diritti imprescindibili inclusa la nostra associazione) ed anche  sollecitazioni e riflessioni che venivano dallo stesso Csa con l’intento di aprire nuove strade materiali e culturali attorno alla difesa dei diritti delle persone più indifese.

Riporto alcuni stralci  della lettera indirizzataLe dal Csa il 19 luglio 1999 e pubblicata su Prospettive assistenziali, n. 129, 2000, affinché Lei prenda un’effettiva posizione.

«Certamente il volontariato dei diritti, che abbiamo introdotto nel nostro paese, è quasi sempre scomodo. Operiamo, difatti, perché vengano riconosciuti diritti effettivamente esigibili a coloro che sono, spesso volutamente, messi ai margini della società essendo incapaci di autodifendersi a causa dell’età (bambini in situazione di parziale o totale privazione dell’assistenza morale e materiale da parte dei loro congiunti) o per gravi carenze di salute (malati di Alzheimer, dementi senili, anziani malati cronici non autosufficienti, pazienti psichiatrici con limitata o nulla autonomia).

«Al riguardo, sottoponiamo alla Sua attenzione il problema (segnalato inutilmente ai Suoi predecessori) dei soggetti malati sopra elencati che, in violazione di ogni principio di umanità e delle leggi in vigore dal 1955, continuano ad essere espulsi con preoccupante frequenza dagli ospedali anche nei casi in cui i soggetti non vengono accolti e curati dai loro familiari. In sostanza viene applicato il barbaro principio secondo cui essere inguaribili significa essere incurabili o poco curabili».

Ribadisco che il volontariato dei diritti non gestisce servizi, ma pone le istituzioni di fronte alla responsabilità di compiere il loro dovere secondo la “Costituzione della Repubblica italiana” e dunque di farsi voce dei più deboli a tutti i livelli, rimuovere le cause dell’emarginazione e prevenire il disagio, fornendo delle risposte concrete ed adeguate ai bisogni sul piano sanitario, assistenziale, culturale, abitativo, ambientale, relazionale delle persone svantaggiate e indifese. Persone a cui lo Stato dovrebbe garantire il riconoscimento e la tutela degli inviolabili diritti dell’uomo (art. 2) e dell’eguale dignità dei cittadini (art. 3 Costituzione).

Per contro però vi sono gruppi di volontariato che svolgono un ruolo consolatorio. Piuttosto di eliminare le cause che provocano disagio, emarginazione ed esclusione sociale della fascia della popolazione impossibilitata a realizzare una vita dignitosa, si limitano invece ad alleviare la loro sofferenza.

È mia convinzione che la sofferenza è l’obiettivo da eliminare e che il problema non è solo quello di esaltare la sacralità della vita ma di affermare con forza la qualità della vita.

Eppure anche in alcuni Suoi discorsi rivolti alle associazioni di volontariato e al terzo settore emergono parole  deludenti, parole che esprimono la crisi dello Stato sociale. Parole di esaltazione del ruolo del volontariato che sostituisce le funzioni dello Stato. Altre parole sono rivolte ai giovani esortandoli a scegliere il servizio civile per portare il loro sorriso a chi soffre. Afferma infine che il mondo del volontariato conosce più dello Stato i bisogni reali di quella parte dell’umanità che chiede servizi che dovrebbero essere riconosciuti e garantiti dalle leggi dello Stato.

Ma Lei, Signor Presidente, nel Suo intervento del 24 novembre 2003, in occasione della consegna del Premio nazionale della solidarietà 2003 “Luciano Tavazza”, promosso dalla Fondazione italiana per il volontariato, ammette che lo Stato non riesce più a garantire i servizi fondamentali eguali per tutti i cittadini a causa dell’aumento dei costi e della diminuzione delle risorse nell’attuale società che continua a produrre nuovi poveri ed emarginati.

Nel Suo discorso, infatti, rivolto al mondo del volontariato, soprattutto al terzo settore, raccomandandogli di gestire i servizi con un criterio di economicità, non c’è una parola che affermi i diritti esigibili o la qualità dei servizi essenziali pensati alle specifiche esigenze di chi dovrà fruirne.

Sottopongo alla Sua attenzione alcune questioni che riguardano i cittadini più svantaggiati e dimenticati dallo Stato. È per questo che esprimo con forza  tutta la mia indignazione nei confronti delle istituzioni e/o associazioni di categoria che si propongono di farsi carico della difesa dei diritti delle persone svantaggiate con altisonanti dichiarazioni di principio mai realizzate nei fatti. Persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, poiché le loro pensioni sono definite assistenziali, non sono mai state equiparate alle altre pensioni inps.

In particolare descrivo la realtà delle persone con handicap, soprattutto quelle affette da handicap gravi e gravissimi con limitazioni  dell’autonomia personale, che anche loro vivono al di sotto della soglia di povertà; infatti, l’importo delle loro pensioni di invalidità, il cui livello attuale (euro 238,07) è tale da non consentire nemmeno la sopravvivenza fisica.

E che dire poi dell’indennità d’accompagnamento (450,83 euro) che dovrebbe permettere a molte persone con handicap anche grave di vivere insieme agli altri cittadini. Ribadisco il concetto: è un assegno statale destinato alle persone che non possono compiere gli atti quotidiani,  bisognose di assistenza continuativa 24 ore su 24.

Chiedo a Lei, Signor Presidente, dove siano finiti egualitarismo e garantismo del diritto nel permettere che chi ha maggiori difficoltà percepisca economicamente minori aiuti!

Volendo essere ancora più puntiglioso e fastidioso, Le chiedo quando e se mai si arriverà alla tanta agognata equiparazione dei livelli pensionistici!

Le chiedo ancora, Signor Presidente, cosa ha fatto concretamente lo Stato nei confronti delle persone con handicap? A mio avviso nulla, anzi quel poco che ci è stato concesso ora rischia di essere tolto, pur essendo stato conquistato con fatica.

Negli ultimi venti anni, infatti, si continua a mettere in discussione le conquiste acquisite. Conquiste conseguite faticosamente da parte delle organizzazioni di volontariato dei diritti e dei comitati per ottenere dallo Stato delle leggi a favore dell’integrazione e dell’autonomia delle persone handicappate quali: l’effettiva eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici e spazi pubblici ed aperti al pubblico e nelle abitazioni private sia di nuova costruzione che soggetti ad intervento edilizio; la piena accessibilità dei trasporti pubblici e l’attivazione di servizi di trasporto integrativi quali pulmini accessibili, utilizzo di taxi; il superamento delle scuole speciali-differenziali riservate a persone con diverse tipologie di handicap e il loro inserimento nelle scuole normali prevedendo classi ridotte e un adeguato numero di insegnanti di sostegno; infine il diritto ad un futuro inserimento lavorativo con un corretto orientamento post-obbligo, una garanzia di formazione professionale integrata e specifica per le persone con handicap intellettivo e fondi adeguati per l’incentivazione all’assunzione di persone con un vero handicap, impegno a far rispettare a tutti i soggetti pubblici e privati come prevede la nuova legge 68/1999 sul collocamento obbligatorio e mirato.

Le devo rammentare che, in questi ultimi tempi, il governo continua attuare pesanti riduzioni delle risorse destinate al sociale; per ovvia conseguenza lo Stato non riconosce e non garantisce i diritti dettati dalla Costituzione, la Sua e per tutti noi seconda Bibbia, riferimento essenziale, mentre (art. 3) «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno  sviluppo della persona umana».

Infine, l’ultima riflessione. Ho letto, in questi giorni, la Sua prefazione del libretto che accompagna il dvd del film di Paolo Damosso “Una cosa in mente”, San Giuseppe Benedetto Cottolengo, pubblicizzato da La Stampa - Specchio di Torino del 22 aprile 2006.

Nella Sua prefazione esprime due concetti importanti: «Il Cottolengo è una delle espressioni più avanzate di volontariato…» e l’altro un ricordo della Sua fanciullezza da ragazzo insieme ai suoi genitori, venendo a Torino, visita il Cottolengo.

È vero, Signor Presidente, Lei ha un ricordo della sua fanciullezza che con il tempo non si è offuscato. Anche io ho dei ricordi della mia fanciullezza sempre presenti nella mia memoria e rimarranno vivi tutta la vita: «Moltitudini di visitatori con sguardi che apparivano famelici di sofferenza, che si aggiravano nei vari reparti del Cottolengo in cerca di qualcosa da raccontare in famiglia, e dove invece c’erano solo donne, uomini, ragazzi e bambini che inutilmente chiedevano dignità e rispetto della loro specificità. Esaurita la loro curiosità, la loro commiserazione e la loro pietà, i nostri visitatori uscivano lasciando il loro obolo come se chiedessero indulgenza, la remissione dei loro peccati. Sono questi la maggior parte dei volti senza volto dei ricordi della mia fanciullezza. Io non credo che esistano “mostri”, perché i mostri non esistono. Ci sono persone che hanno subito un torto dalla Natura, o per chi crede, da quel Creatore cui si chiede pietà».

Signor Presidente, spero che Lei modifichi la Sua posizione sul ruolo del volontariato e sulle strutture dedicate a noi; il punto non è essere soddisfatti della presenza di strutture come quella del Cottolengo, contenitori di umanità rifiutata dalla società, a mio avviso è necessario realizzare una prospettiva che si contrapponga ad una simile condizione.

Il concetto d’assistenza, infatti, non dovrebbe in alcun modo essere collegato ad un’idea di priva­zione della libertà e di svilimento della dignità umana, come invece accade all’interno degli istituti. Il prendersi carico della propria esistenza, se si è concordi su quanto dovrebbe significare “assistere”, non può che partire da un luogo che ci accolga come casa.

Signor Presidente, concludo esortandoLa a riflettere su quanto ho illustrato e invitandoLa a riconoscere l’operato del volontariato dei diritti e ad accettare un confronto dialettico nella prospettiva del Suo futuro. Un futuro certo il Suo, Senatore a vita come è dovuto a un ex Capo di Stato, che non preclude di compiere doveri dettati dalle leggi dello Stato verso quella parte di umanità indifesa.

È compito della Repubblica italiana essere il “Maestro dei diritti”, non del mondo del volontariato.

In attesa di una Sua cortese risposta, porgo distinti saluti.

 

(1) Le Autrici del libro, edito da Rosenberg & Sellier, sono Emilia De Rienzo e Claudia De Figueiredo.

 

www.fondazionepromozionesociale.it