Prospettive assistenziali, n. 154, aprile - giugno 2006

 

 

Libri

 

 

Marco bobbio, giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza. Medici e industrie, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2004, pag. 289, euro 15,00.

Mentre il giuramento di Ippocrate dovrebbe vincolare i medici ad operare secondo “scienza e coscienza”, i colossali interessi dell’industria possono minare questo impegno.

L’Autore introduce la complessa problematica presentando alcuni esempi. Ne riproduciamo due:

1. «Un medico ambulatoriale si appresta a prescrivere un farmaco al paziente appena visitato; pochi minuti prima ha ricevuto un informatore che, regalandogli un costoso testo di medicina o invitandolo a una riunione scientifica e a una cena in un noto ristorante od offrendogli un CD-ROM con il prontuario farmaceutico nazionale, gli magnifica la qualità di un certo prodotto. Con quale indipendenza quel medico sceglierà il farmaco più idoneo, tra quelli che contengono la stessa molecola, ma che hanno un diverso nome commerciale?»;

2. «Un cardiologo emodinamista deve indicare le caratteristiche dei cateteri da angioplastica coronarica, affinché l’amministrazione dell’ospedale predisponga la gara d’appalto per l’acquisto. È appena tornato dal congresso della Società americana di cardiologia: il viaggio in business class, l’ospitalità in un albergo di lusso, l’iscrizione al congresso e le cene al ristorante sono stati completamente a carico di una casa produttrice di cateteri. Quale margine di indipendenza ha quell’emodinamista nel definire le caratteristiche dei cateteri da acquistare?».

Nelle suddette circostanze e nelle numerose altre analoghe, medici, ricercatori, esperti e dirigenti dei servizi sanitari sono vincolati in una misura più o meno rilevante, da un legame che ne condiziona le scelte.

Osserva Bobbio «Queste situazioni hanno in comune un altro aspetto fondamentale: non sono perseguibili per legge e non sono sanzionabili né con misure di tipo amministrativo da parte del datore di lavoro né con qualche forma di censura da parte dell’Ordine dei medici, a meno che si configuri il reato di corruzione per il dipendente pubblico chiamato a esprimere un parere tecnico».

Premesso che «i medici devono rispondere all’imperativo etico di operare nel migliore interesse dei pazienti, mentre le industrie devono rispondere alla necessità di aumentare i profitti», l’Autore precisa che «scopo di questo libro è quello di partire dalle affinità per potenziare i vantaggi e di analizzare senza imbarazzi le deformità per capire dove intervenire per riequilibrare un confronto che può e deve essere soddisfacente per entrambi le parti».

 

pierpaolo donati, ivo colozzi (a cura di), Il terzo settore in Italia - Culture e pratiche, Franco Angeli, Milano, 2004, pag. 327, euro 23,00.

Il volume dà conto di quanto è stato fatto per realizzare la ricerca Cofin 2001 concernenteIl terzo settore in Italia - Culture e pratiche” con l’obiettivo di indagare le caratteristiche sociologiche del privato sociale nel nostro Paese.

Gli aspetti studiati si riferiscono sia alla peculiarità soggettive (valori e norme), sia a quelle oggettive (organizzazione).

L’indagine è stata effettuata da una rete di ricerca che ha raccolto sei Università italiane, con il coordinamento nazionale di Pierpaolo Donati.

Cinque unità si sono concentrate nello studio di un tipo organizzativo specifico di privato sociale: associazione sociale (Università di Bologna), il volontariato (università cattolica di Milano), le associazioni familiari (Università di Verona), le cooperative sociali (Università di Trento), le fondazioni (Università del Molise).

La sesta unità (Università di Palermo) ha svolto un’analisi comparativa delle organizzazioni del privato sociale sotto il profilo della religiosità e delle dimensioni comunitarie riferite ai loro aderenti.

Gli obiettivi della ricerca sono stati perseguiti mediante un’indagine campionaria sia sull’universo degli associati utilizzando un questionario individuale, sia sull’insieme delle organizzazioni di privato sociale tramite un altro questionario rivolto ai responsabili di dette organizzazioni.

Il campione della prima indagine è costituito da 2.326 interviste individuali, mentre quello riguardante le organizzazioni comprende 588 unità, così distribuite: 213 associazioni di promozione sociale, 127 organizzazioni di volontariato, 111 cooperative sociali, 60 associazioni familiari e 77 fondazioni sociali.

Dalla ricerca emerge che «il privato sociale è fortemente differenziato nel modo in cui organizza le sue forme associative, sia al proprio interno, sia nelle relazioni con gli altri attori» e che la loro caratterizzazione è «quella di agire privatamente per scopi sociali» allo scopo di «dare il proprio contributo alla sfera pubblica non perché lo richieda la legislazione statale o il desiderio di un profitto proprio, ma per motivazioni sorgive che devono trovare modalità operative autonome e viabili di azione».

Per quanto concerne l’indagine sul volontariato, condotta da Lucia Boccacin e da Giovanna Rossi, sono state prese in esame le seguenti problematiche: gli orientamenti culturali dei volontari, gli aspetti normativi e funzionali delle relative organizzazioni, nonché le risorse e gli obiettivi.

L’analisi degli elementi di cui sopra ha consentito di identificare quattro quadranti in cui si iscrive il volontariato organizzato italiano: il volontariato del fare che «evidenzia uno stile pragmatico sia nell’intervento che nell’organizzazione»; il volontariato come occasione di socialità che «si qualifica come occasione per esprimere una socialità che, mediante l’espressività, diviene generativa»; il volontariato che «guarda alla comunità di appartenenza come humus che alimenta l’azione solidaristica e che da essa trae beneficio» e il volontariato che «promuove legami sociali e rafforza gli esistenti».

 

CARITAS ITALIANA - FONDAZIONE E. ZANCAN, Vuoti a perdere - rapporto 2004 su esclusione sociale e cittadinanza incompiuta, Feltrinelli, Milano, 2004, pag. 322, euro 14,00.

Il volume, curato da Walter Nanni e Tiziano Vecchiato, affronta problematiche relative ai cittadini che la società «non riesce a proteggere».

Fra i vari argomenti trattati (“L’evoluzione storica dei modelli di solidarietà” di Domenico Donati, “Una società a responsabilità limitata e a debito differito” di Tiziano Vecchiato, “Mobilità e Tempi di vita” di Don Giancarlo Perego, “Il cammello nella cruna dell’ago: le responsabilità sociali dei ricchi” di Marco Di Marco e Francesco Marsico, “Vulne­rabilità sociale nel lavoro atipico e flessibile” di Augusto Palmonai e Guido Sarchielli, “Le depressioni: vuoti a rendere” di Franco e Cinzia Neglia), abbiamo rivolto la nostra attenzione al capitolo “Deterioramento cognitivo, disturbi comportamentali, bisogni assistenziali in età avanzata” contenente i contributi di Claudia Bellabio, Fabrizio Giunco, Tiziano Lucchi e Carlo Vergani.

Dopo aver sottolineato che «la sindrome di demenza rappresenta uno degli attuali problemi sociali e di sanità pubblica (che) coinvolge poco meno di un milione di italiani», viene affermato da Fabrizio Giunco che «questo numero è destinato a raddoppiare entro il 2050 per l’effetto combinato della maggiore aspettativa di vita e del miglioramento dello stato di salute della popolazione generale».

Al riguardo, a noi sembra essere profondamente contraddittorio sostenere che a seguito «del miglioramento dello stato di salute della popolazione generale» il numero delle persone colpite da demenza senile sia «destinato a raddoppiare entro il 2050».

Infatti, occorre tener conto, come rilevato da Barbara Maero e Fabrizio Fabris nell’articolo “Invecchiamento, malattia e disabilità”, Prospettive assistenziali, n. 138, 2002, che è presente un incremento del periodo di autonomia dei soggetti anziani, fatto di estrema importanza per quanto concerne la programmazione dei servizi.

A questo proposito ricordiamo che le errate valutazioni sulle esigenze degli anziani autosufficienti ha determinato la creazione di numerose case di riposo, rimaste inutilizzate fino alla loro ristrutturazione in Rsa.

Com’è ovvio, se si vuole evitare che le persone affette da demenza senile continuino ad essere dei “vuoti a perdere”, è indispensabile che le istituzioni rispettino il loro diritto alle cure.

Trattandosi di soggetti malati, le prestazioni più importanti sia diagnostiche che terapeutiche sono quelle di competenza della sanità.

Purtroppo nel volume, e questa allarmante constatazione riguarda anche ad esempio la cura delle persone depresse, non si fa alcun riferimento agli obblighi del Servizio sanitario nazionale, né sono indicate le iniziative che possono essere assunte dai congiunti o dagli altri soggetti coinvolti (ad esempio, tutori e amministratori di sostegno) per ottenere il rispetto delle leggi vigenti.

Nulla viene, altresì, segnalato per quanto concerne i contributi economici che i Comuni e Asl pongono illegalmente a carico dei pazienti e dei loro familiari, nei casi di frequenza di centri diurni e di ricovero presso strutture residenziali.

Nel volume viene giustamente precisato che «la casa è il luogo naturale di accoglienza della persona affetta da sindrome di demenza» e che «circa il 96% delle persone colpite vede risolte entro le mura domestiche tutte le proprie esigenze», senza però chiarire che il Servizio sanitario nazionale non svolge i compiti assegnatogli dalle vigenti disposizioni di legge.

È estremamente positivo che le famiglie assicurino ai congiunti malati e non autosufficienti la permanenza al loro domicilio, ma dovrebbe essere chiarito da parte delle istituzioni e degli esperti che si tratta di attività di volontariato intrafamiliare che il Servizio sanitario nazionale ha l’obbligo anche giuridico di sostenere concretamente, se necessario anche sotto il profilo economico.

Infatti, fermo restando il notevole vantaggio per i malati, è deplorevole che la prosecuzione delle cure domiciliari determini notevoli profitti finanziari alla sanità a scapito dei congiunti, spesso costretti a vivere in condizioni di vera e propria miseria economica, come risulta da alcune ricerche, svolte anche dalla Caritas italiana.

 

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