Prospettive assistenziali, n. 154, aprile - giugno 2006

 

 

Notiziario dell’Unione per la tutela degli insufficienti mentali

 

 

un appello agli insegnanti perché informino i familiari degli alunni con handicap sul loro futuro

 

Riportiamo la lettera inviata nel mese di aprile 2006 da Vincenzo Bozza, presidente dell’Utim, agli insegnanti delle scuole pubbliche e private di ogni ordine e grado.

Chi vi scrive è il genitore di una giovane donna di 34 anni, handicappata intellettiva in situazione di gravità. Questa lettera che ho deciso di scrivere è un appello al corpo insegnanti di tutte le scuole perché anche da loro può arrivare un aiuto consapevole e stimolante ai genitori degli allievi con handicap intellettivo affinché si attivino per tempo per il futuro dei loro figli. Ho sempre sognato, sperato, lavorato perché mia figlia vivesse il più a lungo possibile nella mia casa con la mia famiglia, e ciò è stato possibile e lo è tuttora perché, dopo la scuola dell’obbligo, è stata inserita in un Centro diurno. Ciò mi ha permesso di continuare a lavorare e mantenere le capacità psicofisiche per affrontare l’impegno di assisterla ed amarla. Ho sempre sperato, lavorato perché nella mia città si aprissero e funzionassero Comunità alloggio con al massimo otto posti più due di pronto intervento o sollievo situate nel contesto abitativo, non troppo lontano dalla mia (sua) casa, dove io mi possa recare, quando non sarò più in grado di accudirla, senza troppe difficoltà, a trovarla, magari a prenderla per il fine settimana; da dove tutti i giorni possa continuare a frequentare il Centro diurno dove oggi va, dove ha i suoi amici e le sue attività. Purtroppo le cose non stanno più andando come ho sperato e lavorato.

Spesso si dà per scontato che nel momento della necessità troveremo posti disponibili nei Centri diurni e Comunità alloggio. Ma non è così. Già oggi nei Centri diurni comunali si svolgono poche attività. Già oggi nelle Comunità alloggio esistenti viene negata la frequenza ai centri diurni alle persone ricoverate che quindi sono costrette a vivere per 24 ore al giorno (salvo pochissime ore dove ci sono le attività esterne) tutti i giorni, dentro le mura della comunità. Già oggi le comunità alloggio non vengono più programmate e ci si limita ad accreditare (a comprare) posti letto in strutture grandi, minimo 20 posti letto, accorpate con altre, spesso fuori città con il  risultato di trovarci, nuovamente, strutture da 40/60/80 posti letto lontane dagli occhi e dagli affetti dei parenti e degli amici. Già oggi gli istituti stanno prepotentemente tornando alla ribalta.

Ancora una volta, come sempre forse, il futuro di questi figli particolari dipende da noi. Non aspettiamo che qualcuno ci pensi “dopo di noi”, pensiamoci adesso. Se si lascia semplicemente  al caso, i Centri diurni non ci sono o sono pieni, le risposte arrivano molto parzialmente, quando arrivano, e le famiglie devono arrangiarsi da sole. Sovente uno dei genitori smette di lavorare per assistere il proprio congiunto. Ancora più drammatica appare la condizione di queste persone nell’età avanzata. Chi vi parla si è impegnato nell’associazionismo da oltre 30 anni. Attualmente è un esponente di una associazione di volontariato (Utim) che si occupa della tutela e della difesa dei diritti di queste persone.

Fin dagli anni Settanta, insieme ad altri genitori, ho contrastato l’istituzionalizzazione e richiesto l’apertura di Centri diurni e Comunità alloggio.

La storia dei servizi socio-assistenziali, almeno in Torino, ha dimostrato che con l’inserimento scolastico prima e con l’apertura dei Centri diurni dopo l’età dell’obbligo, le famiglie hanno potuto, oltre che voluto, mantenere le persone handicappate intellettive nel proprio nucleo familiare. L’apertura delle comunità alloggio in città ha fatto tornare, da istituti situati in luoghi molto distanti, decine di persone handicappate ed ha evitato altre deportazioni assistenziali. L’impegno costante di quei genitori ha reso possibile la realizzazione di una rete di servizi che si proponeva di far star bene le persone handicappate intellettive prima in famiglia e quindi, “dopo”, in strutture adeguate ai bisogni ma inserite nei normali contesti abitativi. Purtroppo però ho l’impressione che nelle nuove generazioni non ci sia più la stessa consapevolezza e determinazione. Le scelte di chi ci amministra sono troppo importanti per il futuro dei nostri figli per lasciare che ad occuparsene siano solo loro. Sarebbe bene che si sviluppasse la consapevolezza che, se i genitori non diventano protagonisti, il “dopo di noi” sarà sempre meno a misura dei bisogni delle persone con handicap intellettivo in situazione di gravità.

Per “dopo di noi” non intendo quando non ci saremo più, ma intendo momenti molto più vicini. Ad esempio, al termine del ciclo scolastico, cosa faranno questi figli, dove andranno? Oltre a ciò che “noi” genitori potremo fare per loro, “dopo” cosa ci sarà?

Per chi ha potenzialità lavorative, che vi siano possibilità reali di inserimenti lavorativi dipenderà da quanto i genitori avranno fatto per ottenere corsi di formazione professionale, corsi pre-lavorativi, operatività dei Centri per l’impiego. Che ci siano Centri diurni assistenziali attrezzati e ricchi di attività interne ed esterne per gli handicappati intellettivi che non sono in grado di lavorare, che ci siano strutture residenziali sul modello familiare (Comunità alloggio, Gruppi appartamento, Convi­venze guidate) dipende da quanto, e anche da quando, i genitori hanno saputo chiedere e incidere sulle scelte programmatiche di chi ci amministra (Stato, Regioni, Comuni).

 

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