Prospettive assistenziali, n. 154, aprile - giugno 2006
star bene insieme a scuola si
può?
Emilia de Rienzo
Nei giorni scorsi,
nella collana “Persona e società: i diritti da conquistare” edita
dall’Utet Università, è uscito il volume di Emilia De
Rienzo, Star bene insieme a scuola si
può?
All’autrice abbiamo
chiesto di indicarci quali sono i motivi che l’hanno spinta
a scrivere questo libro, che a nostro avviso riveste una grande importanza per
una scuola veramente formativa.
Qualche anno fa
l’Anfaa mi ha mandato la lettera di Anthony, un ragazzo adottato indiano, che era stata scritta
prima di togliersi la vita a sedici anni. Una lettera che
accusava con poche parole molto lucide la scuola.
Ho sentito l’urgenza
di rispondergli, di rispondere ad un ragazzo che è
morto senza riuscire a spiegarsi perché tanto dolore era toccato proprio a lui,
che nell’ultimo suo atto ci ha voluto rendere partecipi del senso di rivolta di
chi è, però, cosciente di avere subito un’ingiustizia.
È per questo che,
guardando ogni giorno negli occhi i miei alunni, non ho più
smesso di pensare ad Anthony. Sono tante le
storie, i drammi, le fragilità che si nascondono dietro a molti di loro, che
nessuno vuol vedere e di cui nessuno vuole farsi
carico.
Nel libro Star bene insieme a scuola si può? ho voluto avviare una riflessione che non ha la pretesa di
dare risposte definitive, ma che vorrebbe essere l’appello per un ripensamento
più collettivo sul nostro modo di fare scuola, su dove oggi la scuola sta
andando.
In un mondo dove
sempre più ci si abitua ad esprimersi attraverso slogan, assiomi e
contrapposizioni ideologiche, penso che dovremmo, almeno dal basso, ritrovare
il gusto del dialogo, della ricerca, di un confronto che abbia però il rigore
di un punto di partenza fondamentale: garantire a tutti il
diritto allo studio.
In questi ultimi
anni ho avuto modo di partecipare a convegni, ad aggiornamenti in cui ho
parlato con genitori, insegnanti, operatori sociali. Molti di questi incontri
erano indirizzati a genitori adottivi che lamentavano la mancanza di attenzione nei
confronti dei figli, della loro storia peculiare, delle loro difficoltà.
Affrontare i
problemi dei bambini adottivi è affrontare il problema di qualsiasi bambino
nella sua unicità. Avere ben presente che la diversità non
deve essere motivo di pregiudizio né deve indurre ad alcun giudizio in termini
di valutazione qualitativa. I bambini adottivi sono diversi fra di loro, come i bambini immigrati, i bambini di genitori
separati: i bambini sono bambini e basta e ognuno deve aver la possibilità di
crescere in modo sereno e sano.
Bisogna quindi
essere consapevoli che non è
la diversità a costituire un problema, ma quello che è
problematico è come essa viene percepita: e questo è un problema di tutti i
bambini.
Ci sono due scuole
davanti a noi: quella in cui i programmi si plasmano sugli alunni o viceversa
quella in cui sono gli alunni che devono plasmarsi sui programmi. Una scuola
dove i problemi e le difficoltà del ragazzo diventano un momento di ricerca per
trovare soluzioni e strategie o un’altra in cui la difficoltà è stigmatizzata da un voto negativo o da una sanzione.
«Abbiamo ampie prove del fatto che gli esseri
umani di ogni età sono più sereni e in grado di
affinare il proprio ingegno per trarre un maggiore profitto se possono
confidare nel fatto che al loro fianco ci siano più persone fidate che verranno
in loro aiuto in caso di difficoltà» (1). Così ci ammonisce John Bowbly.
«Del resto il modello liberista persegue un
ideale chiaro: quello di una società in cui gli individui siano indipendenti e
tesi alla realizzazione del proprio interesse (di ciò
che questo modello concepisce come tale). (…) Infatti,
secondo la razionalità sancita dal modello è meglio tradire piuttosto che
cooperare ogni volta che la cooperazione non offra a sua volta un tornaconto
individuale…» (2). Ed è su questo modello che la
scuola è andata a plasmarsi. In questa logica si sta formando una politica
scolastica che lascia che sia il mercato del lavoro a decidere sulle finalità e
l’organizzazione dell’istruzione. L’istruzione viene
vista come lo strumento per entrare nel mercato del lavoro, come strumento per
la formazione delle «risorse umane»
che devono dimostrare la loro impiegabilità e la loro
flessibilità.
La conseguenza è
chiara: più strumenti i bambini hanno, più avranno la possibilità nel futuro di
inserirsi nel mondo del lavoro.
E la tendenza
naturale che ne deriva, anche se non chiaramente esplicitata, è privilegiare quelli che dimostrano più «talento» e più capacità di approfittare di tale istruzione. La
scuola ritorna ad assumere una funzione così prevalentemente selettiva che
dimentica troppo facilmente il compito di evidenziare e valorizzare le capacità
specifiche di ogni allievo. È vero che l’istruzione
deve tener conto del mondo del lavoro, ma pensare la scuola solo in questi
termini è estremamente riduttivo e pericoloso per la
crescita e la maturazione umana e sociale dei nostri figli, che prima di essere
dei lavoratori devono diventare delle persone, devono crescere in modo sereno. Malgrado gli sforzi di molti educatori, il sistema spinge a
privilegiare la funzione di selezione dei migliori, piuttosto che la funzione
di valorizzazione delle capacità specifiche di ogni allievo. Cosa
importa se i ragazzi oggi sono sempre più ansiosi, se aumentano le depressioni,
se si spegne la voglia di vivere come dimostrano molte ricerche e come noi
insegnanti vediamo accadere tutti i giorni?
Dove vanno a finire
i bisogni reali dei bambini che necessitano di sguardi
attenti alla loro «buona» crescita,
al loro «ben-essere», non a quello solo materiale, ma a quello psicologico ed
affettivo?
È proprio vero che privilegiando l’intelligenza intesa come capacità di
prestazione si fa il bene del bambino più capace? O
non è altrettanto vero, se non più importante, che i bambini imparino anche il
senso di responsabilità, il rapporto con gli altri?
È
ormai trent’anni che lavoro nella scuola. Da ciò che ognuno di
noi vive, dai nostri sentimenti, dalle nostre
emozioni, dalle nostre gioie e paure, dall’incontro di più persone che si
mettono a confronto si esce più ricchi, più maturi, più disponibili ad
imparare. L’insicurezza che oggi sembra dominante si può combattere solo
costruendo legami affettivi forti e solidali, uscendo dall’isolamento in cui la
nostra società tende a rinchiuderci. Una scuola, invece, indirizzata alla
formazione lavorativa e alla produttività può portare ad un impoverimento della
società sul piano umano e dei valori, ossia ad una società più attenta al mondo
economico che alla crescita umana e ai rapporti tra le persone.
Nella realtà nella
scuola incontriamo ragazzi sempre più fragili. La famiglia, anche quando non
presenta particolari problemi, oggi sta attraversando momenti difficili. Ricerche
recenti hanno messo in rilievo l’inesistenza di ambiti
di socializzazione e di confronto.
Le famiglie,
prevalentemente, sono sole, mute, senza interlocutori significativi
e possono essere a rischio proprio
perché è andata sfaldandosi la sua vecchia rete di sostegno: sono finiti i
rapporti di vicinato e questo ha intaccato il sentimento di appartenenza ad una
comunità che poteva soccorrere chi era in difficoltà. Sempre di più i bambini
convivono con adulti stressati, troppo stanchi, troppo presi dai problemi che
la vita pone loro.
La nuclearizzazione delle famiglie, inoltre, l’incompatibilità
tra gli orari del lavoro e l’adempimento delle funzioni di genitori producono spesso solitudine infantile.
Molti bambini si
portano dentro ferite di cui non siamo a conoscenza, di cui neanche i genitori
ci parlano, perché loro stessi incapaci di riconoscerle o di affrontarle.
È troppo comodo dire che, se non c’è la famiglia, noi insegnanti non
possiamo fare niente. Proprio per questo, semmai, dobbiamo fare qualcosa. Non
possiamo dimenticare che metà della giornata, quando non di più, i ragazzi la
passano con noi. A volte la famiglia attraversa momenti delicati, difficili.
Siamo noi, semmai, insieme ai servizi sociali, che dobbiamo fare qualcosa. Altrimenti
l’alternativa è che un bambino, un ragazzo, dovrà
cavarsela da solo.
In una classe in
un’ora di supplenza una ragazza durante una discussione mi ha detto: «Noi capiamo che per i professori insegnare
sia solo un lavoro, che abbiano le loro
preoccupazioni, la loro famiglia, i loro figli, ma è possibile che noi non
contiamo proprio nulla? Eppur viviamo tante ore con loro!».
Al contrario un
altro ragazzo ha detto ad una mia collega: «Io
da scuola mi porto a casa nuove conoscenze, ma anche tutto l’affetto che ho
sentito per me e per i miei compagni».
I ragazzi, se li
lasciamo parlare, ce lo dicono continuamente, hanno
prima di tutto bisogno di entrare in un ambiente dove trovare persone che
sappiano accostarsi a tutti i bambini: adottivi, affidati, stranieri,
handicappati, tranquilli, meno tranquilli, persone che sappiano vederli
semplicemente come bambini, senza etichette, bambini da conoscere e da cui
farsi conoscere.
A scuola, però, ci
si aspetta che l’alunno sappia mettere in funzione la propria intelligenza, la
propria capacità di ragionare e di comprendere e raramente queste capacità vengono messe in correlazione col suo vissuto, con il suo
stato d’animo, con tutte le altre componenti emotive ed affettive che entrano
in campo quando si deve imparare qualcosa. La concezione che la ragione sia una
componente umana completamente staccata dalla parte
affettiva ed emotiva dell’uomo ha fatto del bambino a scuola un essere «bicefalo».
In realtà, come dice
Carotenuto, «la
sfera affettiva intreccia una continua relazione e scambio comunicativo con la
dimensione più propriamente cognitiva della nostra psiche, ed è da questa dinamica interelazionale che
scaturisce la soggettività di ogni essere umano, le sue peculiarità
psicologiche, il
suo modo di essere e di mostrarsi al resto del mondo» (3).
Il processo di apprendimento, infatti, è un processo circolare. Se si
tiene conto della sfera affettiva migliorerà
l’apprendimento, se il bambino sarà in grado di apprendere potrà sciogliere dei
nodi che bloccavano la propria sfera emotiva: attraverso l’apprendimento il
bambino imparerà a controllare le proprie emozioni e a incanalare le proprie
angosce.
Troppo spesso ancora
i ragazzi nella scuola incontrano, invece, un’istituzione dove si va ad
apprendere un sapere frammentato, un sapere che divide
il corpo dalla mente, la ragione dall’emozione, la conoscenza dall’esperienza. Quando
un bambino entra a scuola si prepara a contare non tanto come
persona, ma per la sua intelligenza. Il maestro o il professore il più delle
volte non vengono percepiti dai ragazzi come persone
che li possono guidare, aiutare ad orientarsi, ad affrontare le loro
difficoltà, a scoprire le loro potenzialità e ad accettare i propri limiti, ma
piuttosto come persone che li giudicheranno, a volte senza possibilità di
appello.
Ogni insegnante
dovrebbe sentire l’importanza del proprio ruolo che affianca e completa quello
educativo dei genitori e mai dovrebbe potersi permettere di umiliare un
ragazzo, di farlo sentire, come dice Anthony «un imbecille».
Quando si entra in
rapporto con i bambini o con i ragazzi bisogna uscire
da un sapere prestabilito. È solo nell’incontro con loro, instaurando con loro
un colloquio, che può nascere un progetto che deve essere condiviso, che non deve partire da pregiudizi e preconcetti.
Siamo ancora troppo
legati ad una concezione pseudo-scientifica che vuole
codificare il sapere dei bambini secondo griglie e modelli prestabiliti.
Bisogna combattere
la classificazione che, se può essere utile in certi casi, è pericolosa nel
trattare l’individuo singolo.
è inimmaginabile
lo stato di frustrazione derivante dall’essere inchiodati a
una definizione che distorce e mutila la propria complessità psichica.
«Il pericolo è quell’essere “denominati”», come afferma Binswanger, cioè etichettati e cristallizzati in una forma
che tradisce sempre la nostra ricchezza interiore.
Al contrario, la forza e la verità
dell’individuo albergano proprio nella sua incommensurabilità, nel fatto che
nessuno potrà mai distruggere la sua
unicità.
Settorializzare la visione del bambino vuol dire
veder spesso le difficoltà come insormontabili, ci impedisce
di vederlo nella sua vera luce, nella sua specificità psicologica e ricoglierne
quindi le potenzialità.
La nostra pochezza è
tale che riusciamo a cogliere dell’altro, molto più
spesso il limite, la negatività, la debolezza del tratto “negativo”, piuttosto
che gli aspetti più luminosi.
Stigmatizzare un bambino significa impedirgli
di evolversi, di sottrarlo alle sue potenzialità creative, vuol dire non
vederlo nelle sue potenzialità ma così come lo vogliamo vedere noi nel
confronto con un bambino “ideale” di cui abbiamo un’idea in testa sia come genitori
che come insegnanti.
Dobbiamo, invece,
imparare a conoscerli. La conoscenza non è però
semplicemente quella raccolta di dati anamnestici, quell’accumulo di notizie che ci dà l’illusione di sapere
già tutto quello che si deve sapere e che soprattutto ci permette di catalogare
fin dal primo approccio il bambino in una casella piuttosto che in un’altra. Un
accumulo di notizie questo che, invece di tenerci lontano dal pregiudizio, può
rafforzarlo.
Karl Jaspers
formulava la distinzione
tra il capire che vuole spiegare, che cerca le cause di un comportamento,
osservando l’altro a distanza, e il capire che vuole comprendere.
Comprendere
evidenzia un atteggiamento di partecipazione empatica,
un colloquio che nasce nello spazio privilegiato dell’intersoggettività, dello
scambio, per cui l’adulto non è più il soggetto che
agisce bensì è il chi si rende compartecipe di un processo di sviluppo
individuale.
Quello che aiuta il
ragazzo è il senso di appartenenza ad una comunità
solidale e in cui si senta in qualche modo protetto. L’assenza o la perdita di
questo senso di appartenenza è dannosa per tutti.
La tendenza di oggi di fronte ai problemi è quella di “medicalizzarli”, di rivolgersi sempre più spesso agli
specialisti e purtroppo anche ai “medicinali” veri e propri.
In certi casi
l’intervento di uno specialista può essere necessario, ma senza che questo voglia dire deresponsabilizzarsi.
Non dimentichiamo
che prima di tutto, tutti i bambini, anche quelli apparentemente più
equilibrati, hanno bisogno di atmosfere calde ed umane
per crescere sani e che comunque la quotidianità è terapeutica di per sé: senza
una buona quotidianità non esiste cura che tenga.
In questo contesto proprio il bambino più difficile, con una storia
alle spalle più problematica, deve capire che il posto, dove è entrato, è un
posto speciale dove anche lui, che si sente a volte triste, arrabbiato, solo, senza spesso neanche capire fino in fondo perché, troverà un luogo caldo e disponibile
ad ascoltarlo, ad ascoltare non solo quello che sa, ma anche quello che sente.
Questo modo di
vedere ci aiuta a fare della scuola un luogo dove «non si chieda di essere “forti”, ma in cui
sia possibile non essere né forti né deboli, e accettare insieme la fragilità
della vita, una scuola che sappia vedere nelle persone individui non
etichettabili, che riconosca la molteplicità: ogni individuo si può esprimere
in diversi modi e questo riconoscimento non dovrebbe riguardare solo le persone
che hanno problemi, ma anche quelle che si considerano normali, affinché
possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e
dolorosa etichetta di normale, per poter assumere e abitare le molteplici
dimensioni della fragilità (…). Infatti è proprio là
dove nessuno guarda, in quel “niente da segnalare”, della norma che una serie
di esseri umani vivono nella paura permanente di “dover essere forti”,
“all’altezza”, recidendo ogni legame con le dimensioni della propria fragilità
e complessità» (4).
Ciò che dovrebbe
essere la preoccupazione principale di un insegnante è
quella di creare prima di tutto un clima di classe dove ognuno possa trovare
una propria collocazione e possa sentirsi a suo agio. I bambini, oggi, sembrano
più adulti, perché hanno i desideri dei grandi, ma in realtà sono sempre più
immaturi affettivamente, sempre meno sanno decifrare le loro emozioni, sanno parlare dei loro sentimenti e delle loro paure.
Tra
di loro non
sono abituati, se nessuno glielo insegna, ad ascoltarsi, a soccorrersi. Si
giudicano per come vestono, per come riescono nei giochi, ma non si conoscono
veramente. L’aggredire l’altro è normale, prenderlo in giro, insultarlo è uno
“scherzo” , non hanno coscienza di far del male.
è quotidiano
prendere di mira qualcuno e sfotterlo, farlo oggetto
di scherzo senza accorgersi quando si supera il limite di sopportazione che
l’altro può sostenere. Non sanno dare risposte del loro
comportamento, non sanno quindi cosa “vuol dire essere responsabili”.
è compito di noi
adulti far comprendere la differenza tra scherzo e offesa, tra divertimento e
aggressione dell’altro, far notare che ciò che noi soffriamo è sofferenza anche
nell’altro, che la sensibilità può essere diversa, che qualcuno può essere più vulnerabile di un altro. Sta a noi educarli a
“dare risposte”, a essere responsabili dei loro
comportamenti non per “punirli”, ma per far loro prendere coscienza di quanto
ogni piccolo gesto può far del bene o del male. Per renderli partecipi della
vita degli altri, per aiutarli a sentirsi “individui” tra altri”individui” e non parte di un gruppo in cui comanda chi alza
più la voce per farsi sentire.
è un lavoro
lungo, continuo, attento. Troppo spesso liquidiamo questi comportamenti con un
“sono solo ragazzate” o “una sospensione”, due estremi che nulla hanno a che fare con il lavoro di educazione alla
responsabilità e all’affettività. L’insegnante deve entrare in gioco come
mediatore nel trovare una soluzione ai conflitti, nell’aiutare il bambino in
difficoltà con i compagni.
Bisogna restituire
ai ragazzi il senso di responsabilità, ma anche spazi di libertà. I bambini di oggi sono sempre più programmati, regolamentati, non da
regole, di cui avrebbero grande bisogno, ma da impegni. Difficilmente hanno
spazi in cui giocare, fermarsi a oziare, a pensare.
La paura dei genitori
dell’ambiente che ci circonda e del futuro che li aspetta sempre più minaccioso
ha, in genere, portato a sovraccaricare i ragazzi di impegni:
più vanno in luoghi organizzati, meno corrono pericoli, più sanno, più hanno,
più sono attrezzati per affrontare la realtà che è competitiva e dura. Un
atteggiamento questo controproducente per la maturazione psicologica del
ragazzo. I bambini, per mettere a frutto le proprie capacità e potenzialità,
devono avere spazi di ozio e vuoti da impegni, devono
ritrovare momenti di silenzio, devono imparare a fare i conti con i loro limiti
e le loro fragilità. E di questo sono i genitori a
dover dimostrare di non aver paura, altrimenti le seppelliranno dentro di loro
o le trasformeranno in forme aggressive o violente che danno a loro l’illusione
della forza e che nascondono il nulla che sentono dentro di loro.
Può succedere, dice
Si tratta spesso di un rischio “differito” che emerge più
avanti «quando l’intelligenza non basta
più per sentirsi vivi, amati e accettati. Quando si
cerca se stessi. E non ci si trova: perché l’intelligenza,
appunto, non è tutto nella vita di una persona» (5).
Per ricevere il volume Stare bene insieme a scuola si
può?,
Utet Università, pag. 166, euro 15,00, versare euro
15,00 sul conto corrente postale n. 25454109 intestato all’Associazione
promozione sociale, Via Artisti 36, 10124 Torino.
(1) John Bowlby,
Costruzione e rottura dei legami
affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1982.
(2) Ermanno Bencivenga, Parole
che contano, Arnoldo Mondatori Editore s.p.a. Milano, 2004.
(3) Aldo Carotenuto, Il
tempo delle emozioni, Studi Bompiani, Milano, 2003.
(4) Miguel Benasayag,
Gerard Schimt, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli Editore, Milano, 2004.
(5) Silvia Vegetti Finzi e Anna Maria Battistin, I bambini
sono cambiati, Arnoldo Mondatori Editori, 1996.
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