Prospettive assistenziali, n. 155, luglio - settembre 2006
IN RICORDO DI GIANNI
SELLERI
Gianni Selleri,
fondatore e presidente da oltre quarant’anni dell’Aniep (Associazione nazionale per la promozione e la difesa
dei diritti civili e sociali degli handicappati), è
deceduto il 6 luglio 2006.
Ricercatore e docente di
psicologia sociale presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli
studi di Bologna, si è occupato degli aspetti psico-sociali
delle devianza.
È stato un apprezzato esperto e
consulente di legislazione socio-assistenziale con particolare riferimento ai
problemi dell’integrazione delle persone con handicap (riabilitazione,
inserimento scolastico, formazione professionale, collocamento al lavoro,
assistenza economica, barriere architettoniche).
Autore di libri, monografie e
ricerche, ha collaborato con riviste specializzate sui temi giuridici,
psicologici e sociali riguardanti l’autonomia e la partecipazione dei soggetti
con handicap.
A ricordo del suo impegno umano e
sociale e della sua lungimiranza, riportiamo integralmente, fra gli articoli
pubblicati su Prospettive
assistenziali, quello
apparso sul n. 15, luglio-settembre 1971 sul “Ruolo delle associazioni di
categoria”, le cui considerazioni di fondo sono tutt’ora
valide.
La
libertà di associazione e l’organizzazione
“pluralistica” dell’assistenza indicata nell’articolo 38 del
Nel
discorso sulla situazione e le
prospettive della assistenza pubblica e privata in
Italia, è quindi importante analizzare il ruolo svolto dalle “associazioni di
categoria”: quelle che traggono origine dall’antica legge del 1890 e quelle che
sono sorte e si sono giuridicamente giustificate dopo l’ordinamento
costituzionale.
Nell’evoluzione
storica della beneficenza pubblica, dalla fine del secolo scorso
all’instaurazione della Repubblica, si possono distinguere fasi ideologiche
diverse.
Abbiamo
anzitutto un primo nucleo di motivazioni di ordine
moralistico e caritativo nei confronti dei poveri, degli abbandonati e degli
inabili per i quali si sviluppa l’azione di rappresentanza legale e di tutela
delle Congregazioni di carità (più tardi Eca), delle
istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (tutt’ora
operanti), delle istituzioni elemosiniere e della munificenza “di privati
facoltosi”; questo momento risente della contrapposizione fra Stato e Chiesa e
della volontà di laicizzare e centralizzare la beneficenza.
Successivamente l’assistenza trae spunto da ragioni di pubblica sicurezza (repressione
dell’accattonaggio, segregazione degli “alienati”, tutela dell’ordine morale:
protezione delle giovani e delle donne già prostitute) e si giunge ad una
gestione repressiva (organizzata in istituzioni totali), tanto che si configura
una vera e propria penalizzazione del bisogno e della devianza.
Nel
periodo fascista l’assistenza pubblica si indirizza
inoltre alle cosiddette categorie post-belliche che hanno “bene meritato dalla
patria”: mutilati, ex-combattenti, reduci, profughi, ecc.
Da
ultimo (e contemporaneamente alla creazione di Enti
istituzionali quali l’Onig - Opera nazionale invalidi
di guerra, l’Onmi - Opera nazionale per la protezione
della maternità e dell’infanzia, ecc.) emergono tendenze assistenziali, a
carattere prevalentemente sanitario, nei confronti di particolari gruppi di
handicappati ed ammalati (tubercolotici, encefalitici, luetici, poliomielitici
ed altri) e nel periodo post-concordatario si ha una forte ripresa della
gestione “religiosa”.
Su
questo filone di interventi frammentari, settoriali e
classificatori s’innesta l’espansione delle associazioni di categoria e si crea
una dinamica tutt’ora in atto per cui ad ogni tipo di bisogno o di menomazione, corrisponde un
sodalizio, con o senza personalità giuridica, i cui compiti sono la tutela e la
protezione degli interessi materiali e morali dei propri iscritti (riguardo ai
quali ci si propone spesso “l’elevazione spirituale”) ed un costante sforzo
per ottenere privilegi e assistenza economica.
Per
limitarci al gruppo degli invalidi civili (che sono coloro che
hanno subito una diminuzione della capacità lavorativa non inferiore ad
un terzo, non per causa di guerra, di lavoro o di servizio ed esclusi i ciechi
ed i sordomuti), si possono, fra le più importanti associazioni, ricordare
quelle dei mutilati ed invalidi civili in senso generale (oltre 20), quella per
gli spastici, per gli irregolari psichici, dei poliomielitici e altri minorati
fisici, per i miodistrofici, dei laringectomizzati,
per la sclerosi multipla e molte altre.
Nell’ambito
di ciascuno di questi gruppi agiscono poi in concorrenza una ridda di associazioni minori derivate da scissioni,
contaminazioni, proliferazioni, interessi economici, interessi politici,
gestionali di istituti, di servizi sanitari, di corsi di addestramento, di
laboratori, di vacanze, di pubblicazioni periodiche, ecc.
Molte di
queste ultime associazioni hanno consistenza provinciale o comunale e
sussistono per la possibilità di effettuare una
annuale raccolta di fondi, di ottenere un contributo dal Ministero
dell’interno, lo 0,1% dei fondi destinati alla beneficenza dalle lotterie
nazionali, e altre appaiono e scompaiono nei tre o quattro mesi di una
campagna elettorale.
Dopo questa prima panoramica è opportuno chiedersi, riferendoci
alle associazioni a carattere nazionale, quale sia stata la loro origine e
quale sia in generale la loro metodologia e funzione in senso politico e
sociologico.
Dopo che
nel 1954 i ciechi civili ottennero “con una marcia” la concessione di un
assegno a vita e la istituzione di un proprio Ente, si
verificò una sorta di reazione a catena fra tutti gli altri gruppi di
handicappati la cui azione si sviluppò sostanzialmente su due direttrici
alternative: ottenere con pubbliche manifestazioni pensioni e riconoscimenti
giuridici; oppure attuare servizi assistenziali di emergenza. Sulla prima linea
ritroviamo anzitutto
All’origine
di questi movimenti vi è dunque la condizione di bisogno e di
abbandono di cittadini minorati i cui diritti vengono però sempre
valutati secondo un’ottica settoriale o parziale definita dal tipo di handicap,
anziché da una visione globale della persona, e poiché molti di questi sodalizi
ottengono un qualche successo politico o economico (che pochi traducono in
servizi e molti invece strumentalizzano), si verifica una vera e propria gara
per accaparrarsi la “tutela” di qualche gruppo ancora senza sigla.
Compaiono
quindi i professionisti dell’assistenza, l’assistenza diventa un affare
economico ed elettoralistico, una fascia ambigua di attività, in cui convergono speculazioni e impegno
sociale, autenticità e delinquenza, truffa ed abnegazione, clientelismo e
lucro.
Dal
punto di vista organizzativo e funzionale si può osservare che nella stragrande
maggioranza delle associazioni di invalidi sono
rifluiti alcuni principi fondamentali della assistenza pubblica quali la presa
in carico totale degli aderenti (tutela e rappresentanza), il paternalismo, la
contaminazione di motivazioni giuridiche ed etiche e soprattutto una implicita
sfiducia nelle capacità degli handicappati di gestire in proprio un discorso
politico collegato con i temi evolutivi della realtà sociale e comunitaria del
Paese.
Né si
può dire che questi difetti di fondo vengano mitigati
dalla struttura delle associazioni, anche se i loro organismi sono elettivi,
perché di fatto la “base” associativa è costituita da minori o da persone che
vivono in stato di isolamento, di marginalità e perciò partecipano solo
occasionalmente alla vita associativa (1).
Nella
maggioranza dei casi è quindi facile orientare ed indirizzare le categorie
secondo una alternativa che oscilla fra i poli del
paternalismo e della demagogia facendo leva ora sulla protesta e la
contrapposizione, ora su sentimenti solidaristici-pietistici.
Si può
affermare che negli ultimi venti anni l’associazionismo degli invalidi anziché
garantire il pluralismo e l’evoluzione della assistenza,
ha finito per essere, a causa del suo frammentarismo,
strumento di conservazione e di parzialità anche perché condizionato
economicamente e giuridicamente dalla classe politica e burocratica e quindi
non ha seguito e addirittura ritarda il progresso delle politiche sociali.
Uno dei
principali compiti della Direzione generale dell’assistenza pubblica del
Ministero dell’interno è «la vigilanza,
l’indirizzo e l’impulso nei confronti egli enti assistenziali
a carattere nazionale e degli enti assistenziali pubblici e privati operanti a
livello locale».
È
difficile dire se ha fatto parte di un disegno politico preciso, esercitare
tale «alta vigilanza» (che è poi
soprattutto il dare e non dare soldi), in modo che i cittadini in stato di
bisogno fossero suddivisi e classificati.
È certo comunque che il favorire e sostenere questa frammentazione
dell’assistenza ha consentito di rinviare i problemi di fondo della società
nella sua dimensione partecipativa e democratica.
Riteniamo
tuttavia che sia rilevante analizzare il risvolto
sociologico di questa particolare forma di associazionismo per esclusi e
stigmatizzati.
Si può
anzitutto rilevare la distorsione concettuale che sta alla base della
definizione di categoria quando questa assume come
motivo di affiliazione o di appartenenza al gruppo un handicap fisico o
psichico o sensoriale e quando i leaders finiscono
per fare del proprio stigma una “professione”.
È
evidente che finché le associazioni di invalidi sono o
restano dei movimenti di promozione sociale, di sensibilizzazione pubblica o di
pressione politica, essi rientrano funzionalmente in una logica
democraticamente corretta e sociologicamente
motivata; ma quando questi gruppi costituiscono un insieme di “compagni di
sofferenza” cui si deve necessariamente appartenere perché ci si identifica
come diversi rispetto all’ambiente sociale, allora il gruppo stesso diventa uno
strumento di esclusione e di autosegregazione.
A questo
fatto è conseguente che i dirigenti anziché politicizzare i problemi del gruppo
finiscano per attuare degli schemi ideologici secessionistici fino ad esaltare la specifica menomazione
come un “valore”, come un segno distintivo e definitivo.
Per
attirare poi l’attenzione sulla situazione di vita degli appartenenti al gruppo
si trasforma in immagine pubblica la propria diversità e si definisce un gruppo
sociale distinto; mentre si elencano i soprusi subiti e si protesta contro la
società che respinge ed emargina, si rinuncia alla integrazione
e si preferisce rimanere separati dalle persone “normali”.
In
definitiva il chiedere privilegi, particolari forme di tutela e di assistenza, una specifica configurazione giuridica,
significa per gli invalidi accettare e confermare gli stereotipi della devianza
e la negazione della propria dignità e identità sociale.
In
questa realtà consiste il più grave fallimento dell’associazionismo tra
invalidi e da questa fenomenologia scaturiscono ulteriori
deviazioni sul piano politico e legislativo.
Di fronte alle
problematiche ed alle proposte di riforma di soppressione degli enti e di
decentramento della assistenza, intesa come servizio
per tutti i cittadini, così come la sanità e la previdenza, gli enti pubblici
nazionali di assistenza, d’accordo con il Ministero dell’interno, organizzano
un disegno di radicale conservazione.
Interessa
al Ministero dell’interno conservare il controllo dell’assistenza (e su vasti
strati di popolazione possibili turbatori dell’ordine pubblico), interessa agli enti conservare organici e
cospicui stanziamenti, patrimoni e funzioni pubbliche.
Il sistema assistenziale italiano è una indefinita stratificazione di
interessi, di norme, di leggine, dì decreti ed emergono motivate proteste e
chiari interrogativi sul tipo di intervento, sui destinatari, sulle modalità di
erogazione, sui bisogni, sui costi di gestione, sulle fonti di finanziamento.
Ma è comunque evidente che l’assistenza è un grosso affare,
dietro ogni ente c’è un partito, collegata ad ogni associazione o istituto c’è
una congregazione religiosa, un prefetto, un onorevole, un alto burocrate o
almeno un gruppo di elettori. Di qui la vischiosità del sistema e la credibilità di un discorso che faccia riferimento a
interessi parziali.
Non interessa ora
documentare questa situazione, quanto piuttosto rilevare i pretesti e le
“giustificazioni” che si contrappongono agli intenti di riforma.
L’Onig, che ha ovvi problemi di sopravvivenza, tenta di
unificare tutti gli enti che assistono invalidi nell’Opera nazionale invalidi (Oni) e propone le seguenti giustificazioni:
a) che ogni
cittadino portatore di invalidità è costantemente
impedito in ogni aspetto della sua vita e nei rapporti con la collettività, la
quale fonda ogni sua normativa sulla misura del cittadino integro;
b) che i cittadini
invalidi costituiscono, nel loro complesso, un insieme nettamente distinto dal
popolo italiano;
c) che
d) che
e) infine che lo Stato deleghi ad
un unico Ente di diritto pubblico ogni azione di pubblico intervento e quindi
dell’istruzione e dell’addestramento professionale degli invalidi e del loro
collocamento al lavoro, dell’assistenza sanitaria, di quella sociale, morale e
giuridica, ecc. (2).
L’Onig pare che incontri qualche
difficoltà nella attuazione di questo assurdo e
grottesco disegno di apartheid (che
pure recepisce i più importanti filoni della legislazione assistenziale
italiana) e sta ora ripiegando sulla richiesta di gestire direttamente il
collocamento obbligatorio (le proposte di legge si sprecano).
Forse il nostro discorso sull’associazionismo degli
invalidi potrebbe terminare qui, perché sono dimostrate le premesse, ma vale la
pena di accennare ad alcune impostazioni più sofisticate,
benché radicate nel medesimo contesto concettuale.
L’Unione nazionale degli enti di beneficenza ed
assistenza afferma in un recentissimo documento che per assistenza si deve
intendere «le prestazioni e gli
interventi in favore di tutti i cittadini che si trovano. in
particolari condizioni in relazione ad un loro stato fisico, psichico, sociale
o economico che non permette loro di usufruire in modo autonomo e
autosufficiente dei servizi messi a disposizione dalla comunità, ovvero che
hanno bisogno di servizi specializzati».
Ecco che riappare, sia pure in forma razionale, l’antica
radice segregativa dell’assistenza e la profonda
sfiducia nella capacità e nella dignità dei poveri, degli handicappati, dei
disadattati.
Se essi non possono usufruire in modo autonomo dei
servizi messi a disposizione di tutti, vuol dire che
questi servizi non sono a misura di tutti e il problema vero non consiste nel
creare servizi specializzati, ma nel riformare quelli esistenti. Non si tratta
di istituire strutture per gli “anormali” ma di riscattare questi dai loro
bisogni e di rimuovere gli ostacoli che impediscono la partecipazione e la socializzazione.
È acquisizione comune che ogni struttura finisce per
perpetuare i bisogni, né si può continuare a gestire l’assistenza (con il nome
di “servizi sociali”) come strumento di emergenza per
supplire a carenze legislative e a disfunzioni economiche e sociali dello
Stato.
Per quanto infine riguarda la posizione del Ministero
dell’interno per la conservazione dell’assistenza, si afferma che l’articolo
117 della Costituzione prevede che venga trasferita
alle Regioni tutta la materia della beneficenza pubblica «mentre nell’articolo 38 della Costituzione è sancito il principio che
le particolari forme dell’assistenza sociale sono svolte dallo Stato o da
organi dipendenti o finanziati dallo Stato. Solo in questo modo si può
assicurare ai cittadini della stessa categoria quella parità di
trattamento prevista dall’articolo 3 della Costituzione, altrimenti
potrebbe accadere che in determinate Regioni si concedono pensioni di un certo
livello mentre in altre più modeste» (3).
È chiaro che è già stato
stabilito il criterio per ripartire alle Regioni fondi ed organi (legge 16
maggio 1970 n. 281) così come è chiaro che all’articolo 3 della Costituzione si
può attribuire ogni significato, ma non quella di suddividere i cittadini in
“categorie”.
È forse comprensibile che il Ministero dell’interno
compia ogni sforzo per impedire l’autonomia dei servizi assistenziali
e contrasti ogni azione intesa a una configurazione dell’assistenza come
diritto per tutti i cittadini, tuttavia sono tali e tanti gli squilibri e le
distorsioni del settore che non è più possibile frenare la rivendicazione di
decentramento e di democraticizzazione.
Una delle principali obiezioni che si fanno alla tendenza
di attribuire al Ministero dell’interno compiti assistenziali
è che il medesimo si configura come “Ministero della polizia”, ciò che trova
riscontro negli stretti collegamenti che esistono fino dal 1889 fra i problemi
dei cittadini in situazioni di bisogno e gli impegni della pubblica sicurezza
(che sono di repressione, di reclusione e di emarginazione, regio decreto 19
novembre 1889 n. 5535). Né si può sostenere che le cose siano cambiate se è vero che lo stesso Direttore generale dell’assistenza
pubblica solo pochi mesi fa dichiarava, parlando dei problemi del controllo
degli istituti e degli enti assistenziali:
«La soluzione di questo grave problema potrebbe trovarsi innanzi tutto nel
rilasciare l’autorizzazione a gestire gli istituti con giusto rigore. Dal momento che per gestire una locanda occorre
l’autorizzazione di polizia non. vedo per quale motivo
la nostra legislazione non abbia previsto una formale autorizzazione anche per
gestire istituti assistenziali e di ricovero» (4).
Ma una simile impostazione non giustifica le gravi
omissioni (di atti di ufficio) del Ministero e
configura una concezione antitetica alla partecipazione democratica della
gestione dell’assistenza.
L’assistenza in Italia ha antiche e marcie radici, deformazioni istituzionali, giuridiche e
sociologiche, si è instaurata dal liberalismo autoritario al fascismo. Lo
Stato democratico e repubblicano non trova sufficienti motivi di riforma
immediata e gli Enti e le associazioni assistenziali
coinvolti o compromessi (con o senza consapevolezza) in una logica di potere e
di conservazione.
Ecco perché il discorso deve rifluire nell’ambito che gli
è proprio: quello della comunità civile e delle lotte per la giustizia sociale.
(1) Un esempio clamoroso di questa incapacità di
controllo della base sui gruppi dirigenti è rappresentato dal fatto che nel
1966 fu possibile al Presidente dell’Ente di diritto pubblico Anmic (Associazione nazionale mutilati e invalidi civili) e
contemporaneamente Presidente della Lanmic di
stipulare, «abusando della sua qualità di
Presidente dell’Ente di diritto pubblico Anmic, con
le associazioni tra gli industriali della Intersind e
Confindustria, un accordo in base al quale, contro
promessa di versamento della somma di lire 550 milioni, si impegnava di fare in
modo che da parte delle associazioni fra invalidi si aderisse ad
interpretazione più favorevole ai datori di lavoro della legge sul collocamento
obbligatorio al lavoro degli invalidi civili e, sostanzialmente, perché il
termine posto per la entrata in vigore di detta legge venisse prorogato di
ulteriori tre anni, impegnandosi allo scopo a non fare pressioni sugli uffici
competenti per la copertura nelle aziende della percentuale obbligatoria di
invalidi prima del decorso di tale termine; quale Presidente della Lanmic apparentemente stipulando l’accordo, giustificandosi
la promessa di denaro con la necessità di finanziamento di corsi di
qualificazione professionale degli invalidi, mai peraltro effettivamente
istituiti». In Roma il 23-2-1966. Vedasi la
sentenza di rinvio a giudizio del Giudice istruttore del
Tribunale di Roma (Sez. VI istruttoria) in data 22
aprile 1969. [Sul n. 21, 1973 di Prospettive assistenziali è stata riportata la sentenza delle sezioni istruttorie del Tribunale e
della Corte di Appello di Roma di alcuni dirigenti dell’Anmic,
n.d.r.].
(2) Citazioni testuali tratte da un documento
firmato dai Presidenti dell’Associazione azionale mutilati e invalidi di
guerra, Associazione nazionale vittime civili di guerra, Associazione nazionale
mutilati e invalidi del lavoro, Unione mutilati per servizio, Opera nazionale
invalidi di guerra, Libera associazione mutilati e invalidi civili.
(3) Dichiarazione del Direttore generale
dell’assistenza pubblica alla Commissione II della
Camera dei Deputati, seduta del 24 marzo 1971.
(4)
Dichiarazione del Direttore generale dell’assistenza pubblica alla Commissione II della Camera dei Deputati nella seduta del 24 marzo
1971.
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