Prospettive assistenziali, n. 155, luglio - settembre 2006
LUCI E OMBRE DELL’ENCICLICA
DEUS CARITAS EST
CLAUDIO CIANCIO (*)
1. Quel che anzitutto sorprende
favorevolmente nella prima enciclica di Benedetto XVI è il fatto che essa non appartenga, almeno nella
prima (e migliore) parte al genere letterario delle encicliche. Non è un testo
pastorale o programmatico e non è un tessuto di citazioni da altre encicliche o
testi conciliari. È invece una riflessione di grande
profondità e di respiro universale, ma capace di incontrare, anche grazie ad un
linguaggio abbastanza accessibile, problemi e tendenze fondamentali del nostro
tempo, mostrando come la grande teologia non riguardi solo una sfera separata
di cose sacre o soprannaturali, ma ciò che vi è di più profondo nell’uomo.
L’approccio dell’enciclica al
tema dell’amore non è moralistico: sembra scomparsa la sessuofobia tradizionale
della Chiesa a favore di una visione positiva dell’eros e scompare del tutto ogni
concezione dualistica dell’uomo, che separa spirito e corpo: «Solo quando ambedue si fondono veramente in
unità, l’uomo diventa pienamente se stesso. Solo in questo modo l’amore – l’eros – può maturare fino alla sua vera grandezza» (5). Benedetto XVI riconosce che in passato si è commesso l’errore di
avversare la corporeità, ma acutamente osserva come proprio quella separazione
di spirito e corpo, così radicata nella cultura occidentale e nel cristianesimo
dei secoli scorsi, produca oggi qualcosa di ancora
peggiore, e cioè una considerazione strumentale e despiritualizzata
del corpo.
L’eros non ha di per sé un senso negativo,
anzi è descritto come «ebbrezza […] che strappa l’uomo alla limitatezza della
sua esistenza e […] gli fa
sperimentare la più alta beatitudine» (4); «tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione; l’amore
promette infinità, eternità»; «l’eros
vuole sollevarci “in estasi” verso il Divino» (5). Il fatto che esso richieda
purificazione e a questo fine debba coniugarsi con l’agape non è tanto una limitazione o,
peggio, un suo avvelenamento, come pensava Nietzsche,
ma piuttosto la sua realizzazione piena. «La
fede biblica – osserva Benedetto XVI – non costruisce un mondo parallelo o un mondo
contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno
umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo
intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al
contempo nuove dimensioni» (8).
La dimensione estatica dell’amore
contiene in effetti un’ambiguità. Nell’eros si manifesta la tendenza dell’io ad
oltrepassare se stesso, ma questo oltrepassamento,
questa fuoriuscita da sé, può risolversi in un rapporto fusionale,
sia come dissolvimento della propria identità nel divino sia come
impossessamento dell’altro, oppure può essere scoperta dell’altro, «estasi come cammino, come esodo permanente
dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono
di sé» (6). Nel primo caso
l’amore ha un esito disumanizzante. Lo si vede già nei culti antichi della fertilità e nella
prostituzione sacra, una pratica destinata a produrre l’ebbrezza divina dell’eros, ma che comporta una
strumentalizzazione e un asservimento delle prostitute. L’amore come agape è invece anzitutto «scoperta dell’altro», «cura dell’altro e per l’altro»,
e per il suo carattere di infinità tende a instaurare un legame totale e
definitivo. Ma l’aspetto più interessante dell’enciclica non è tanto in questa,
piuttosto nota, distinzione delle due forme di amore,
ma nella capacità di mostrare in modo convincente la loro intima connessione. L’amore
è un’unica realtà in due dimensioni che non si devono separare. «Quanto più
ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà
dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere» (8).
Eros e agape sono definiti rispettivamente come
amore ascendente e amore discendente. Il primo è quello «bramoso, possessivo», il secondo quello «oblativo». Il primo persegue un
desiderio di felicità che, come dicevo, spinge l’io al di fuori di sé. Ora,
secondo il Papa, questo obiettivo viene mancato se non
diventa ricerca della felicità dell’altro e dunque agape. Ma la cosa più interessante è che anche la reciproca sia
riconosciuta, e cioè che l’amore discendente non possa
fare a meno di quello ascendente: «L’uomo
non può neanche vivere esclusivamente nell’amore ablativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol
donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono»
(8). La saldatura avviene in quanto, come si è visto, l’eros è compreso come desiderio infinito, che come tale è,
implicitamente o esplicitamente, desiderio di Dio, e perciò può trasformarsi,
assumere la qualità, dell’amore di Dio per l’uomo, un amore che è esso stesso eros e agape, che cioè è unione senza fusione,
desiderio dell’uomo da parte di Dio, che giunge al punto di sacrificare se
stesso.
La rivalutazione
dell’eros, pur integrato dall’agape, si manifesta nell’assumere «l’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e
anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di
felicità che sembra irresistibile» come «archetipo
di amore per eccellenza» (2). È questo tipo di amore ad essere considerato nella Bibbia come «icona del rapporto di Dio con il suo popolo
e viceversa» (11), dove è ovviamente importante anche il «viceversa»: per pensare l’amore di Dio
per il suo popolo si ricorre all’amore coniugale e d’altra parte l’amore
coniugale è modellato sull’amore di Dio, dal quale riceve i caratteri di
assolutezza e definitività. In questo modo l’eros diventa divino, non perché il
divino consista nell’espansione dell’io umano, ma perché invece l’io umano
accoglie la forma divina, cioè la forma della libertà
e dell’alterità.
2. Da queste premesse
il pontefice fa discendere, nella
seconda parte dell’enciclica, una serie di conseguenze su «l’esercizio dell’amore da parte della Chiesa». Il respiro
universale della prima parte si restringe all’orizzonte dell’attività
caritativa della Chiesa, tema indubbiamente di rilievo
e che un’enciclica come questa non poteva trascurare, ma che forse finisce per
essere un po’ limitante. In ogni caso, poi, va detto che, pur con l’acutezza e
la documentazione che caratterizza ogni suo intervento, la posizione di
Benedetto XVI non supera i limiti del tradizionale
discorso caritativo della Chiesa, quei limiti che hanno fatto dire a un amico che sarebbe tempo che uscisse un’enciclica non
sul Dio carità, ma sul Dio giustizia. Condivido questa osservazione,
almeno nella sua intenzione, perché se, invece, è presa alla lettera si presta
a qualche obiezione. La prima è che molte encicliche, quelle
sulla dottrina sociale o
Il discorso del Papa si muove su
due registri. Il primo è quello dell’esercizio della carità all’interno della Chiesa. Muovendo dall’esempio della comunione dei beni
della prima comunità cristiana descritta dagli Atti
degli Apostoli, si riconosce che appartiene ai compiti essenziali della Chiesa
la realizzazione di una comunione fraterna che soccorra le situazioni di
povertà e di bisogno. Ma più ampio spazio viene
giustamente riservato all’esercizio delle attività caritative all’esterno della
Chiesa, attività che – ricorda Benedetto XVI – essa
ha esercitato fin dalle sue origini. In particolare viene
richiamata l’istituzione della diaconia, cioè dei servizi assistenziali, che si
trova già nei monasteri alla fine del IV secolo e che
si estende poi alle diocesi e a tutte le chiese, un’attività che nel mondo
antico costituiva motivo di grande ammirazione verso i cristiani.
Il Papa è convinto
che questo servizio della carità costituisca un compito irrinunciabile per
a) in primo luogo si
riconosce che l’obiezione ha qualche fondamento e che
b) in secondo luogo si definisce
il compito della Chiesa in ordine alla realizzazione
della giustizia. Affermata l’autonomia delle realtà temporali
e riconosciuto che è compito dello Stato realizzare il giusto ordine della
società e che anzi la giustizia è lo scopo e la misura della politica,
l’enciclica assegna alla Chiesa un compito indiretto di sostegno all’azione di
realizzazione della giustizia. L’argomentazione di Benedetto XVI è interessante ma non priva di
difficoltà. Il contributo della Chiesa è anzitutto identificato nella dottrina
sociale, che – dice il Papa – viene «argomentata a partire dalla ragione e dal
diritto naturale» (28). La difficoltà, qui come in altre questioni di ordine etico e sociale (ma anche filosofico), sta
nell’identificazione della ragione naturale e delle leggi naturali. La ragione
naturale, infatti, non può essere identificata in un’inesistente ragione comune
da tutti condivisa. Se così fosse, non ci sarebbe alcuna difficoltà a trovare
un accordo con tutti sui principi e sulle argomentazioni (ci si potrebbe forse
dividere solo sulle applicazioni) perché la distinzione fra credenti e non
credenti sarebbe irrilevante. Ma poiché non è così, e cioè questo accordo di fatto non si trova, il Papa è
costretto a precisare che «la fede è una
forza purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio,
la libera dai suoi accecamenti e perciò l’aiuta ad essere meglio se stessa»
(28).
Non ci si può
nascondere che questo discorso corre sul filo del rasoio prestandosi ad esiti
opposti. Se infatti la ragione richiede una
purificazione, allora solo passando attraverso la fede (e sotto l’autorità
della Chiesa) se ne può dare un uso corretto. D’altra parte il richiamo alla
ragione naturale ha un senso molto positivo come
riconoscimento del fatto che i credenti non si devono fare portatori nella
politica e nella società di principi propri, esclusivi della fede, e che ciò
che la fede cristiana propone è una radicale umanizzazione dell’uomo. La stessa
esigenza di purificazione può essere letta come convinzione che la fede non
vuole contrapporsi alla ragione ma invece essere ad
essa più fedele. Insomma l’ambiguità può essere sciolta in modi opposti, e
tuttavia mi pare che l’enciclica o non la voglia sciogliere o mostri una certa
preferenza per il primo esito, come si può ricavare anche dal fatto che essa
non richiama il fondamentale principio che lo Spirito soffia dove vuole e che
dunque la purificazione della ragione può avvenire anche al di fuori della fede
e dell’appartenenza ecclesiale. I criteri e la pratica della giustizia, pur
riconosciuti nella loro laicità, sembrano allora posti come sotto la tutela
della Chiesa;
c) in terzo luogo si
rivendica il carattere specifico della carità e la sua irriducibilità alla
giustizia. Qui il discorso è di per sé meno ambiguo, anche se, come vedremo nel
punto successivo, se ne trae poi la conseguenza di riaffermare i diritti della
Chiesa in ordine alle attività assistenziali. È
certamente vero che la giustizia non rende superfluo l’amore. Le due cose sono
molto diverse, anche se vi sono innegabili contiguità. È plausibile infatti che una spinta verso una maggiore giustizia sociale
e un’attenzione verso i bisogni delle fasce più deboli sia favorita anche da
una certa sensibilità umana e cristiana, da un atteggiamento di amore e di
attenzione ai bisogni dell’altro. In ogni caso fa bene
d) il Papa è attento a difendere
la specificità della carità ma anche a mettere in guardia dalle sue
degenerazioni. Proprio perché non è un surrogato della pratica della giustizia
la carità non può confondersi con l’attivismo e con
l’organizzazione. E anche deve essere indipendente e
non al servizio di strategie politiche e non deve essere strumentale al
proselitismo. Dalla rivendicazione della carità, e di una carità di cui
corregge le distorsioni, l’enciclica fa discendere l’impegno per i credenti di
lasciarsi ispirare da essa in tutte le loro opere e
perciò anche nell’attività politica. Ma anche fa discendere
la legittimità ed anzi imprescindibilità
dell’attività caritativa della Chiesa. Ma qui si nasconde un’ambiguità,
della quale è particolarmente rivelativo
il seguente passaggio: «
L’enciclica usa talvolta
espressioni sfumate che rendono plausibili interpretazioni diverse. Così avviene quando richiama «il
dovere della carità come compito intrinseco della Chiesa intera e del vescovo
nella sua diocesi» e sottolinea che «l’esercizio
della carità è un atto della Chiesa come tale e che, così come il servizio
della Parola e dei Sacramenti, fa parte anch’essa dell’essenza della sua
missione originaria» (32). Ora il dovere e l’esercizio della carità è
senz’altro, come si è detto, un compito della Chiesa al suo interno. È
ovviamente anche un compito che
(*) Professore ordinario di filosofia teoretica, Università
del Piemonte orientale.
I numeri
riportati nell’articolo si riferiscono ai paragrafi dell’enciclica.
www.fondazionepromozionesociale.it