Prospettive assistenziali, n. 155, luglio - settembre 2006

 

 

Notiziario dell’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie

 

 

LA TRASMISSIONE AMORE: UN SUCCESSO PER CHI? È NEGATIVO E SVILENTE DEFINIRE ADOZIONI I PROGETTI DI SOLIDARIETÀ A DISTANZA

 

Grande risalto ha avuto la trasmissione Amore condotta da Raffaella Carrà (andata in onda il sabato sera per nove puntate dal 25 marzo al 20 maggio 2006 su Rai 1 alle 21) realizzata con la collaborazione del Segretariato sociale Rai, che ha selezionato le quindici organizzazioni aderenti (1).

Scopo della trasmissione era quello di promuovere le “adozioni” a distanza (termine sbagliato e fuorviante che solo in poche occasioni è stato sostituito dalla conduttrice con il termine corretto di “sostegno” a distanza); anche attraverso il coinvolgimento di cantanti, attori, ecc. veniva sollecitata l’adesione dei telespettatori a favore dei progetti predisposti dalle organizzazioni aderenti, che avrebbero provveduto «a richiamare tutti e a filtrare ogni rapporto tra i bambini da sostenere e “madrine” e “padrini” lontani, per evitare confusioni di ruoli, equivoci ed eventuali sfruttamenti» (v. il sito www.amore.rai.it).

Dopo la prima puntata erano già 23 mila le telefonate ricevute, anche se Benedetta Verrini nell’articolo “23 mila promesse d’amore” su Vita del 7 aprile 2006 precisava: «Il condizionale è d’obbligo perché, se è vero che la quota di 300 euro all’anno moltiplicata per 23 mila fa quasi 7 milioni di euro (!), è anche vero che tutte le promesse di donazione realizzate con il mezzo televisivo hanno una percentuale di “mortalità” dal 30 al 60%, dovuta a ripensamenti, errori, incomprensioni e, sì, in qualche caso anche alla tentazione di parlare con gli ospiti, se a rispondere al telefono ci sono grandi big come la Cucinotta o Falcao».

Dopo otto puntate, le telefonate pervenute sono state oltre 130 mila (v. il sito www.amore.rai.it).

Sarebbe importante sapere quanti sono stati i progetti effettivamente avviati.

Purtroppo la dizione “adozione a distanza” per indicare i progetti presentati non è stata utilizzata solo dalla Carrà, ma anche da parte dei mezzi di comunicazione. Come ha precisato l’Anfaa nella lettera inviata al Segretariato sociale Rai il 17 marzo 2006 «è scorretto utilizzare la denominazione “adozione a distanza” per indicare questa iniziative. Infatti, l’adozione è l’atto sociale e giuridico in base al quale i bambini diventano figli a tutti gli effetti di genitori che non li hanno procreati, e parallelamente, i genitori diventano padre e madre di un figlio non nato da loro (…). Con l’adozione, pertanto, i genitori diventano gli unici e veri genitori di bambini procreati da altri. Ciò premesso, se si considera il rapporto di adozione come un vero e proprio rapporto di filiazione, ne deriva l’esigenza che, per indicare iniziative di aiuto e sostegno, non dovrebbe essere utilizzata la denominazione “adozione a distanza”, in quanto – usata in questo contesto – comporta connotazioni riduttive per l’adozione. Non si possono inoltre non denunciare gli effetti deleteri che le varie “adozioni” fasulle propagandate da giornali, radio e televisioni (adotta un nonno, adotta un papà, adotta un cane, adotta una strada, adotta un monumento…) hanno su una corretta concezione dell’adozione».

Secondo l’Anfaa «per indicare l’aiuto disinteressato che persone o gruppi mettono in atto nei confronti di coloro che versano in situazione di estrema indigenza, riteniamo più appropriato un termine quale “solidarietà” o “sostegno” a distanza, termini che mettono in risalto gli aspetti positivi di queste forme di aiuto, senza sminuire il valore dell’adozione». È questa la denominazione utilizzata da diverse organizzazioni che realizzano queste iniziative, quali il coordinamento La Gabbianella, cui aderiscono 45 associazioni, che operano in 80 Paesi del mondo; nella lettera inviata il 17 marzo 2006 a Raffaella Carrà, Vincenzo Curatola, presidente del suddetto Coordinamento, ha sottolineato come «la definizione di  “sostegno a distanza” sia più corretta rispetto a quella di “adozione a distanza”, nonché più aderente a ciò che fa il cittadino quando assume l’impegno di “sostenere” per un certo periodo di tempo una persona in difficoltà».

A sua volta il missionario Giulio Albanese su Vita del 5 maggio 2006 nell’articolo “Mescolare sacro e profano senza informazione” ha sostenuto che «la solidarietà, in effetti, deve essere sempre e comunque preceduta da un sano discernimento, per evitare che si traduca nelle carità pelosa del ricco epulone il quale guardava dall’alto delle sua mensa imbandita il povero Lazzaro» ed ha aggiunto: «Sono anni che nel mondo della cooperazione internazionale si insiste sull’esigenza di coniugare le azioni solidali all’informazione, proprio per evi­-tare il solito approccio paternalistico che spinge l’offerente a metter mano al portafoglio per evitare ulteriori crisi di coscienza. Per carità, la solidarietà, considerata come valore fondante della fraternità universale, non è riducibile a un patrimonio di conoscenze riservate a una ristretta cerchia di mandarini». A proposito della trasmissione Amore, Giulio Albanese ha poi precisato: «Non credo sia da escludere a priori il contributo della tv generalista per scopi solidali. Ma il programma della Carrà, sebbene soddisfi le istanze dell’opinione di massa, fa fatica a coniugare il sentimento alla conoscenza, omettendo più o meno volutamente le ragioni dell’immiserimento di tante periferie del mondo, dove si consumano quotidianamente drammi indicibili».

 

Quali devono essere le finalità del sostegno a distanza?

Nella lettera al Segretariato Sociale Rai già citata, l’Anfaa ha sostenuto che queste forme di solidarietà «non dovrebbero prescindere dal riconoscimento che diritto fondamentale di ogni bambino è quello di crescere in una famiglia. Questo diritto inalienabile nasce dal fatto che è universalmente riconosciuto che ogni bambino, per poter raggiungere uno sviluppo psico-fisico equilibrato, ha bisogno di cure personali e continue che solo in un ambiente familiare può ricevere».

La consapevolezza di questa realtà deve far riflettere sulle iniziative che si intendono intraprendere per aiutare questi bambini, promovendo azioni dirette a favorire nel loro Paese, per quanto possibile, la permanenza anzitutto nella famiglia d’origine e, quando non è possibile, secondo le situazioni, in una affidataria o adottiva.

 

No alla costruzione di nuovi istituti

La drammaticità e l’emergenza di certe situazioni, l’enorme entità del bisogno di certi Paesi del terzo mondo, non possono giustificare la scelta di investire disponibilità economiche ed energie umane nella costruzione e nel finanziamento di istituti di ricovero, come più volte evidenziato anche da Prospettive assistenziali (2).

Nonostante siano note da oltre cinquant’anni le conseguenze negative dell’istituzionalizzazione sui minori (e non a caso la legge n. 149/2001, con cui è stata modificata la legge n. 184/1983, ha previsto il superamento del ricovero in istituto entro il 31 dicembre di quest’anno) ancora oggi  alcune organizzazioni continuano a sponsorizzare progetti diretti alla creazione di nuovi istituti (v. ad esempio il sostegno in Brasile ad un asilo che ospita 300 bambini «alcuni a tempo pieno perché ospiti» da parte dell’onlus For a smile (cfr. La Stampa del 5 agosto 2006); la creazione di una casa di accoglienza per quaranta bambini di strada a Nairobi promossa dalla onlus A mani con la collaborazione della Fondazione e della Banca Mediolanum (cfr. Affari e Finanza del 21 novembre 2005); la realizzazione di una struttura per 70 bambini disabili Hogar de Dios in Bolivia a cura dell’onlus Nadia (in Adozioneminori, n. 1-2006).

La scelta emotiva, che mette in moto energie generose, deve essere accompagnata da una valutazione oggettiva della realtà per offrire ai bambini, compresi quelli malati e handicappati, risposte che tengano conto del  loro diritto a crescere in una famiglia.

 

Un allarmante rilancio dei villaggi Sos

Va purtroppo segnalato che una delle quindici organizzazioni che hanno collaborato alla realizzazione di Amore  è l’associazione Villaggi Sos. Va subito precisato che questi villaggi sono degli istituti. Moderni, ben organizzati, ma sempre e solo istituti. Sono costituiti da una decina di casette in ognuna delle quali 7-8 bambini sono seguiti dalla cosiddetta “mamma Sos”, mentre il direttore del villaggio dovrebbe assumere il ruolo di “padre” per tutti i minori presenti nel villaggio. In effetti si tratta di persone che non svolgono alcun ruolo veramente materno o paterno: sono dipendenti stipendiati che, in quanto tali possono, fra l’altro, anche cessare la loro attività da un momento all’altro.

L’iniziativa dei villaggi Sos è stata avviata da Herman Gmeiner nel 1949 sull’esempio di istituzioni similari sorte nel 1850 a Eefde (Olanda) e nel 1890 a Freeville (Usa) e certamente in quegli anni erano attività di avanguardia. Però, come spesso avviene, sia il fondatore che i suoi seguaci non hanno saputo aggiornarsi, ad esempio creando piccole comunità, inserite nelle comuni case di abitazione.

Fin dagli anni sessanta, critiche dettagliate e documentate sui villaggi Sos sono state fatte dall’Union internationale de protection de l’enfance  di Ginevra, organismo con voto consultivo presso le Nazioni unite.

In particolare nel n. 107 maggio-giugno 1964 di Informations, rivista della suddetta organizzazione, il segretario generale Mulock Houwer, affermava: «Ciò che mi colpisce nella lettura delle pubblicazioni dei villaggi Sos è il modo di scrivere e cioè una propaganda che idealizza Gmeiner e che non fa mai riferimento al problemi reali dei villaggi: viene infatti ripetuto soprattutto che tutto va benissimo, che queste istituzioni sono la formula più economica e migliore delle altre. Tutto ciò è favorito da immagini meravigliose piene di sole e di cielo blu. È certamente un eccellente materiale per convincere l’uomo della strada che tutto ciò è il risultato della sua quota di poche lire versata ogni mese ai villaggi Sos. In realtà coloro che lavorano in istituzioni per minori sono confrontati con problemi che li portano a una critica personale costruttiva, ma ciò non esiste nelle pubblicazioni Sos. In effetti queste pubblicazioni non fanno mai alcun accenno alla lotta che molte persone conducono nel campo delle istituzioni per migliorare la politica ed i programmi (…). In conclusione i villaggi Sos comprovano le carenze esistenti nella protezione dell’infanzia, carenze di cui siamo coscienti  e, anche se esse (fatto che può essere un aspetto positivo), i villaggi Sos non rappresentano una soluzione. Essi non apportano certamente nulla di rivoluzionario e non hanno pertanto innovato per niente nel campo della protezione dell’infanzia». Più avanti l’Autore (3) pone in rilievo la discutibile funzione dell’iniziativa di Gmeiner affermando: «I villaggi Sos rappresentano una sfida su una più vasta scala. Infatti essi attaccano l’affidamento familiare il cui valore è considerato incerto».

Consultando il sito dei villaggi Sos (www.villaggisos.it) è possibile constatare come la situazione non sia assolutamente cambiata. Nella pagina “Aiutiamo i bambini: il modello Sos” ad esempio è affermato quanto segue: «Cuore del nostro impegno sono i bambini che  hanno perso i genitori o che non sono in grado di vivere con loro stabilmente in una casa». Perché allora non viene mai fatto nessun riferimento alle iniziative di prevenzione del disagio, agli studi psico-sociali dei nuclei familiari d’origine, all’adozione e all’affidamento a scopo educativo?

Proprio i villaggi Sos che sostengono di essere un’organizzazione «impegnata a difendere i diritti dei bambini e a soddisfare i loro bisogni» negano, nei fatti, il loro diritto ad una famiglia, anzitutto la loro d’origine e, quando questo non è possibile, in una affidataria o adottiva, secondo quanto previsto dalla legge 184/1983.

La mistificazione è ulteriormente accentuata dallo slogan «Adotta a distanza un bambino accolto in un villaggio Sos, lo farai vivere in famiglia!» contenuta nella pagina succitata del loro sito.

Non solo i villaggi Sos sono stati inseriti nella rosa delle associazioni che hanno supportato la trasmissione Amore, ma è stata lanciata a loro favore la campagna umanitaria ufficiale dei Mondiali di calcio, appena conclusi in Germania, promossa dalla Fifa (Fédération internationale de football association), con l’obiettivo di raccogliere fondi per costruire sei nuovi villaggi e ospitare mille bambini orfani o abbandonati in Brasile, Vietnam, Ucraina, Nigeria, Messico e Sudafrica. «I fondi raccolti in Italia saranno destinati alla costruzione del villaggio Sos di Recife, in Brasile, terra di grandi calciatori ma anche di grande povertà, dove i bambini abbandonati sono circa otto milioni. La struttura, che sarà terminata nel dicembre 2006, accoglierà 130 bambini in 14 famiglie, mentre un centro sociale assisterà i giovani delle favelas circostanti. “6 villaggi per il 2006” è la campagna umanitaria più importante mai lanciata dal mondo del calcio. L’obiettivo, infatti, è di raccogliere 20 milioni di euro in tutto il mondo per coprire sia i costi di costruzione che di gestione dei villaggi per i prossimi cinque anni», afferma Anna Bonaldi, responsabile dell’ufficio promozione e comunicazione dei villaggi Sos Italia nell’articolo di Paolo Manzo “Mondiali: goal per i villaggi Sos” apparso su Vita del 31 marzo 2006. Nello stesso articolo viene riferito che, secondo il presidente della Fifa, Joseph Blatter «il programma di cooperazione stabilito fra noi e i villaggi Sos è una chiara dimostrazione della responsabilità sociale che il gioco del calcio riveste nel mondo».

Dobbiamo a questo punto chiederci perché i villaggi Sos hanno ancora tanto successo: probabilmente continuano a valere le considerazioni espresse da Maria Grazia Breda nel 1985, nella recensione al libro di H. Gmeiner “Impressioni, riflessioni, confessioni”, pubblicata sul numero 72 di Prospettive assistenziali: «I villaggi Sos rispondono innanzitutto alla logica del perbenismo di chi si sente appagato con un semplice contributo in soldi, che non richiede impegno in prima persona, ma una delega ad altri. Non a caso si punta sulla pietà tanto della gente comune, che dei grandi signori o addirittura delle principesse! Inoltre per i governi locali, è molto più facile realizzare un villaggio Sos, piuttosto che promuovere la costruzione di case, asili, scuole… o altre forme di intervento necessarie per proteggere l’infanzia. I villaggi Sos non hanno apportato alcun aggiornamento alla loro azione e perciò essi rappresentano oggi un freno per chi si batte nel campo delle istituzioni per migliorarne la politica e i programmi ed un danno enorme per bambini orfani».

 

 

 

(1)  Sono le seguenti: Aibi (Associazione amici dei bambini), Aiutare i bambini, Albero della vita, Avsi (Associazione volontari per il servizio internazionale), Action Aid, Ciai (Centro italiano aiuti all’infanzia), Comunità Sant’Egidio, Coopi (Cooperazione internazionale insieme per lo sviluppo dei popoli), Ecpat (End Child Prostitution, Pornography and Trafficking), Famiglie nuove, Italia solidale, Nuovi orizzonti, Save the Children, Sos Italia, Terres des hommes.

(2) Si vedano i seguenti articoli apparsi su Prospettive assistenziali: “Perché si costruiscono all’estero istituti di ricovero per bambini?”, n. 115, 1996; “No all’orfanotrofio che l’Antoniano vuole costruire in Bolivia”, n. 120, 1997; “Basta con gli istituti per i bambini del Terzo Mondo: una lettera delle missioni Don Bosco e la nostra replica”, n. 125, 1999; “Perché la Caritas antoniana costruisce in Kenia un istituto per bambini?”, n. 138, 2002; “Perché la Caritas antoniana vuole costruire a Bagdad un orfanotrofio?”, n. 148, 2004; “Perché costruire nei Paesi poveri istituti per i bambini in difficoltà quando esistono valide alternative?”, n. 151, 2005.

(3) Mulock Houwer, “Les villages d’enfants: une innovation dans le domaine de la protection de l’enfance?’’, Informations, n. 107, maggio-giugno 1964.

 

www.fondazionepromozionesociale.it