Prospettive assistenziali, n. 155, luglio - settembre 2006
RESPONSABILITÀ
PUBBLICA E FORME GESTIONALI DEI SERVIZI DI LIVELLO
ESSENZIALE
MAURO PERINO *
Il problema rappresentato dalla necessità di coniugare la responsabilità
pubblica sui servizi di livello essenziale, con l’attuazione del “principio di sussidiarietà” (introdotto nella nostra Costituzione con la
modifica del Titolo V) in base al quale le autorità pubbliche devono essere
coinvolte, nella fornitura dei servizi, solo quando
siano esaurite le capacità e le risorse che permettono alla famiglia, alla
comunità ed alle organizzazioni primarie di provvedere all’assistenza dei
propri membri è estremamente attuale.
Il settore pubblico si apre infatti al mercato in
forme diverse: accanto ad esperienze nelle quali le istituzioni pubbliche si
fanno promotrici della “società civile organizzata”, che viene coinvolta nella
organizzazione di un “mercato amministrato dei servizi”, ve ne sono altre nelle
quali sembra prevalere – attraverso una monetizzazione
spinta dell’assistenza – una concezione residuale della sicurezza sociale che
riduce l’uguaglianza, rilanciando la beneficenza a scapito della giustizia.
In ogni caso la “sussidiarietà orizzontale” – comunque declinata – tende ad attribuire una maggiore
importanza agli obblighi ed ai doveri della persona piuttosto che ai diritti
del cittadino e, pertanto, ciò che distingue i due sistemi di offerta è
essenzialmente l’ampiezza della delega che il pubblico conferisce al privato,
in termini di organizzazione dei servizi e di tutela degli utenti. In entrambi
i sistemi, infatti, la produzione dei servizi non viene
posta a carico degli operatori pubblici, ma è affidata a dipendenti inquadrati
secondo regole privatistiche (al limite con
assunzione da parte dell’assistito o dei suoi famigliari).
Nell’articolo di Mauro Perino si sostiene che –
in questo scenario – la tutela dell’esigibilità del diritto alle prestazioni di
livello essenziale passa attraverso l’utilizzo dell’istituto della “concessione
di pubblico servizio” in quanto strumento che consente, alle pubbliche amministrazioni,
di delegare ai privati l’esercizio dei servizi pur mantenendo penetranti poteri
di intervento sui criteri gestionali degli stessi.
In buona sostanza sarebbe necessario che le Regioni – chiamate a definire i
criteri per l’autorizzazione, l’accreditamento e la vigilanza delle strutture e
dei servizi in base all’articolo 8, comma 3, lettera f) della legge 328/2000 –
prevedessero, nell’ambito dei processi di accreditamento
dei soggetti gestori, il pieno utilizzo degli strumenti di tutela dell’utenza e
delle opportunità per le pubbliche amministrazioni, previsti dall’istituto
della concessione di pubblico servizio (come, del resto, avviene in sanità).
Purtroppo
La tutela
dei diritti politici, economici e sociali
Gli obiettivi dello Stato sociale – che
ha il fine primario di creare le condizioni materiali per l’esercizio dei
diritti politici, economici e sociali da parte di tutta la cittadinanza –
trovano ampia formulazione negli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione:
• «
• «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese».
La promozione e la tutela dei diritti
civili e politici del cittadino rappresenta dunque una
finalità da perseguire attraverso l’attività – legislativa, di governo ed
amministrativa – delle istituzioni repubblicane che deve indirizzarsi in tutte
le direzioni in cui si verificano situazioni di difficoltà dei cittadini e deve
concretizzarsi attraverso la realizzazione di politiche di sicurezza sociale
finalizzate a garantire la rimozione degli ostacoli di ordine economico e
sociale quale condizione necessaria per l’effettivo godimento di tali diritti.
La nostra Costituzione riconosce espressamente il diritto
al lavoro (art. 4), il diritto alla salute (art. 32),
il diritto allo studio (art. 34), il diritto alla giusta retribuzione (art.
36), il diritto all’assistenza (art. 38). L’art. 31 riconosce inoltre un
particolare diritto all’assistenza per la famiglia che deve essere agevolata
nell’adempimento dei propri compiti anche mediante appositi
istituti di protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù, inclusi
i figli nati fuori del matrimonio di cui all’art. 30. Si tratta di altrettante situazioni giuridiche soggettive riconducibili
alla categoria dei diritti sociali, anche detti diritti di solidarietà. Diritti
di solidarietà che si traducono in altrettanti doveri inderogabili per i
singoli e per le formazioni sociali chiamate – insieme alle istituzioni – a
perseguire il pieno sviluppo della persona umana attraverso il superamento
delle cause di discriminazione economica e sociale.
Le titolarità istituzionali ed il
principio di sussidiarietà
Con le leggi costituzionali n. 1 del 1999 (1) e n. 3 del
2001 (2) è stato fortemente innovato il titolo V della parte II della Costituzione. Le nuove disposizioni costituzionali
sono tese a dare pieno riconoscimento e valorizzazione
agli enti locali sulla base del principio di sussidiarietà.
La posizione dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane muta in modo rilevante e questi enti vengono a collocarsi –
in base al nuovo testo dell’articolo 114 della Costituzione – sullo stesso
livello costituzionale delle Regioni e dello Stato (con i quali costituiscono,
al medesimo titolo,
Il secondo elemento di grande novità è rappresentato dal nuovo testo dell’articolo
117 della Costituzione che parifica la potestà legislativa statale e quella
regionale – non più sovraordinate l’una all’altra ma
distinte tra loro solamente per i diversi ambiti di competenza – assoggettando
entrambi gli organismi al rispetto della Costituzione, dell’ordinamento
comunitario e degli obblighi internazionali. Inoltre, la competenza legislativa
esclusiva dello Stato è ora limitata a 17 materie e in quella
concorrente allo Stato spetta – fatta salva la potestà legislativa delle
Regioni – la sola determinazione dei principi fondamentali. In buona sostanza
sono le Regioni e i legislatori regionali a essere
titolari della competenza generale prima assegnata alla legge statale. È ben
vero che «alcune materie in cui è
stabilita la competenza esclusiva del legislatore statale si configurano come
“materie trasversali” e dunque pervasive di ampi settori dell’ordinamento (si pensi ad esempio alla
tutela della concorrenza e alla determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale)» (3)
ma in ogni caso si può affermare che, nel nuovo sistema, non esiste più
la legge come fonte normativa sub costituzionale dotata di un potere unificante
nell’ambito delle materie regolate e disciplinate dalla legge stessa.
Il terzo elemento innovativo attiene
alla potestà regolamentare che compete allo Stato nelle materie di legislazione
esclusiva ed alle Regioni in ogni altra materia. Ai Comuni, alle Province ed
alle Città metropolitane spetta inoltre l’esercizio del potere regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite secondo i criteri fissati dal nuovo
testo dell’articolo
• «Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per
assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a
Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base del principio di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza».
Inoltre i Comuni, le Province e le
Città metropolitane – titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle
conferite con legge statale e regionale secondo le rispettive
competenze – le esercitano favorendo:
• «l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo
svolgimento di attività di interesse generale, sulla
base del principio di sussidiarietà».
Con la legge di riforma costituzionale vengono definitivamente trasferite al welfare
municipale le responsabilità gestionali e finanziarie del welfare di stato. In materia di “assistenza
sociale” le regioni acquisiscono potestà legislativa esclusiva e possono quindi approvare norme
difformi dalla legge quadro 328/2000 (4). La “tutela della salute” è invece
materia di legislazione concorrente: spetta cioè alle
Regioni legiferare facendo salvo il rispetto dei principi fondamentali la cui
determinazione è riservata alla legislazione statale.
A contrastare i processi di differenziazione dei livelli
di prestazioni fornite in ambito regionale e comunale – inevitabilmente
innescati dalle modifiche del titolo V della Costituzione – non rimane che
l’esercizio, da parte dello Stato, del potere/dovere di determinare, con legge,
«i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale» e quindi – nel caso specifico –
i livelli essenziali relativi alle prestazioni sociali e sanitarie (5).
La gestione
dei servizi alla persona
Come si è detto, non solo i singoli cittadini, ma anche
le formazioni sociali che essi esprimono, hanno il dovere inderogabile di
operare per la rimozione degli ostacoli di ordine
economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Inoltre
i Comuni e gli enti locali sono chiamati dal novellato articolo 118 della
Costituzione ad esercitare le funzioni amministrative (proprie o conferite)
favorendo sulla base del principio di sussidiarietà «l’autonoma iniziativa dei cittadini,
singoli e associati, per lo svolgimento di attività di
interesse generale».
Il combinato disposto delle due norme costituzionali
consente di individuare nel privato
sociale ed in particolare nella cooperazione
sociale, il soggetto associativo potenzialmente più adatto ad operare sul
terreno della promozione dei diritti di solidarietà e
su quello della erogazione delle prestazioni attraverso le quali tali diritti
si concretizzano (6). Questa è infatti la chiave di
lettura adottata, sin dai primi anni ’90, dal legislatore nazionale che –
all’articolo 1, primo comma della legge 381/1991 (7) con la quale si disciplina
la cooperazione sociale – afferma:
• «Le
cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della
comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini
attraverso: a) la gestione di servizi socio-sanitari ed
educativi; b) lo svolgimento di attività diverse – agricole, industriali,
commerciali o di servizi – finalizzate all’inserimento di persone svantaggiate».
In coerenza con tale impianto normativo si muove anche la
successiva legge quadro 328/2000 che – ai compiti di promozione e gestione delle attività di
interesse generale assegnati alle cooperative sociali dalla legge 381/1991
– aggiunge quelli di progettazione previsti
dall’articolo 1, comma 5, che recita:
• «Alla
gestione ed all’offerta dei servizi provvedono soggetti pubblici nonché, in qualità di soggetti attivi nella progettazione e
nella realizzazione concertata degli interventi, organismi non lucrativi di
utilità sociale, organismi della cooperazione, organizzazioni di volontariato,
associazioni ed enti di promozione sociale, fondazioni, enti di patronato e
altri soggetti privati».
La motivazione della scelta di ampliare in modo così significativo il ruolo dei soggetti appartenenti al privato sociale risiede – secondo
l’articolo citato – nella considerazione che:
• «il sistema integrato di
interventi e servizi sociali ha tra gli scopi anche la promozione della
solidarietà sociale, con la valorizzazione delle iniziative delle persone, dei
nuclei familiari, delle forme di auto aiuto e di reciprocità e della
solidarietà organizzata».
Ma la legge 328/2000 si spinge oltre: il comma 4 del
citato articolo 1 prevede infatti che:
• «Gli enti locali, le Regioni e lo Stato, nell’ambito
delle rispettive competenze, riconoscono ed agevolano il ruolo degli organismi
non lucrativi di utilità sociale, degli organismi
delle cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale,
delle fondazioni e degli enti di patronato, delle organizzazioni di
volontariato, degli enti riconosciuti delle confessioni religiose con le quali
lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese operanti nel settore della
programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema integrato di
interventi e servizi sociali».
In sintesi agli organismi del privato sociale viene attribuito un ruolo non solo nella promozione, nella
progettazione e nella organizzazione e gestione degli interventi, ma anche
nella programmazione del sistema
integrato.
È ben vero infatti che
l’esercizio di tale funzione viene assegnato – secondo il disposto del comma 3
dell’articolo 1 – agli enti locali, alle Regioni ed allo Stato «secondo i principi di sussidiarietà,
cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità,
copertura finanziaria e patrimoniale (8), responsabilità ed unicità dell’amministrazione, autonomia
organizzativa e regolamentare degli enti locali», ma a questi soggetti
pubblici viene posto il vincolo di esercitare la programmazione degli
interventi e delle risorse secondo il principio – fissato dall’articolo 3,
comma 2, lettera b) della legge quadro – della «concertazione e cooperazione tra i diversi livelli istituzionali» e
«tra questi ed i soggetti di cui all’articolo 1, comma 4» – ovvero i
soggetti del privato sociale – «che
partecipano con proprie risorse alla realizzazione della rete».
Il concetto viene ulteriormente
rafforzato nell’articolo 5 della legge quadro – interamente dedicato al terzo settore – nel quale vengono
assunti precisi impegni nei confronti della cooperazione sociale. Il comma 1
stabilisce che per l’attuazione del principio di sussidiarietà
gli enti locali, le Regioni e lo Stato promuovono azioni di sostegno e
qualificazione dei soggetti operanti nel terzo settore anche attraverso
politiche formative ed interventi per l’accesso agevolato al credito ed ai
fondi europei. Il comma 2 affronta il tema cruciale dell’affidamento dei
servizi previsti dalla legge quadro assegnando agli enti pubblici il compito di
promuovere azioni per favorire la trasparenza e la semplificazione
amministrativa, nonché «il ricorso a forme di aggiudicazione o negoziali che consentano ai
soggetti operanti nel terzo settore la piena espressione della propria progettualità, avvalendosi di analisi e di verifiche che
tengano conto della qualità e delle caratteristiche delle prestazioni offerte e
della qualificazione del personale».
Infine il comma 3 che demanda alle Regioni – sulla base di un atto di indirizzo e coordinamento del
governo – l’adozione di specifici indirizzi per regolamentare i rapporti tra
enti locali e terzo settore «con
particolare riferimento ai sistemi di affidamento dei servizi alla persona».
L’accreditamento
dei servizi
In materia di gestione dei servizi la legge quadro si
esprime delineando un sistema nel quale i servizi a
gestione pubblica e quelli gestiti dai soggetti del privato – sociale e non –
sono posti sullo stesso piano. I Comuni sono infatti
chiamati – in forza dell’articolo 11, comma 3 – ad autorizzare e ad accreditare – sulla base del possesso dei requisiti
fissati dalla normativa nazionale, regionale e della regolamentazione locale –
il complesso dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale e
semiresidenziale, pubblici e privati, ed a corrispondere ai soggetti accreditati
tariffe per le prestazioni erogate
nell’ambito della programmazione regionale e locale. A tal fine l’articolo 8, comma 3, lettera n) della legge assegna alle
Regioni la funzione di provvedere alla «determinazione
dei criteri per la definizione delle tariffe che i Comuni sono tenuti a
corrispondere ai soggetti accreditati». Inoltre, nell’articolo 17, viene previsto che «i
Comuni possono prevedere» – sempre sulla base dei criteri fissati dalle
regioni – «la concessione, su richiesta
dell’interessato, di titoli validi per l’acquisto di servizi sociali dai
soggetti accreditati».
L’istituto dell’accreditamento – mutuato dal sistema
sanitario ed introdotto nel comparto sociale dalla legge 328/2000 – è lo
strumento centrale del disegno di ampliare, dal punto di vista quantitativo e
qualitativo, la gamma dei servizi offerti e dei soggetti abilitati a fornirli
(che vengono chiamati a competere tra loro nell’erogazione). L’obiettivo viene
esplicitamente dichiarato nel decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
recante “Atto di indirizzo e coordinamento sui sistemi di affidamento dei
servizi alla persona” emanato in attuazione dell’articolo 5 della legge quadro.
L’articolo 1, comma 2, del decreto prevede infatti che
le Regioni adottino «specifici indirizzi
per:
•
promuovere il miglioramento della qualità dei servizi e degli interventi anche
attraverso la definizione di specifici requisiti di qualità;
• favorire la pluralità dell’offerta dei servizi e delle prestazioni, nel
rispetto dei principi di trasparenza e semplificazione amministrativa;
• favorire
l’utilizzo di forme di aggiudicazione o negoziali che
consentano la piena espressione della capacità progettuale ed organizzativa dei
soggetti del terzo settore;
• favorire
forme di coprogettazione promosse dalle
amministrazioni pubbliche interessate, che coinvolgano attivamente i soggetti
del terzo settore per l’individuazione di progetti sperimentali ed innovativi
al fine di affrontare specifiche problematiche sociali;
• definire adeguati processi di consultazione con i soggetti del terzo
settore e con i loro organismi rappresentativi riconosciuti come parte sociale».
Le considerazioni sulle quali si fonda l’istituto dell’accreditamento sono ben sintetizzate in un testo – elaborato
dallo Studio Come (9) nella fase di approvazione della legge quadro – nel quale
si afferma che la crescita (economica e culturale, quantitativa e qualitativa)
del settore sociale dipende in gran parte dalla sua capacità di mettere al centro il cittadino. Un cittadino al quale non è consentita una reale possibilità di scelta perché, quando è utente, può contare su una
organizzazione che alle sue spalle media tra bisogni e risposte ma viene
fortemente limitato nelle scelte, quando invece è un compratore in proprio, può scegliere come farsi servire ma, quasi
sempre, deve rinunciare ai servizi di mediazione. Si tratta di due situazioni
speculari, entrambe insoddisfacenti, che si possono correggere – secondo gli
estensori del testo – da un lato allargando il ventaglio delle scelte e
dall’altro garantendo sia agli utenti che ai clienti i
servizi di informazione, orientamento, mediazione e guida in un mercato che deve essere amministrato dagli enti locali.
L’accreditamento si configura dunque come lo strumento di
una politica di sostegno della domanda finale mediante incentivi agli individui, alle
famiglie, alla collettività perché aumenti la propensione a consumare servizi. In buona sostanza si
teorizza la necessità di promuovere una politica
attiva di incentivazione dei consumi sociali che
sappia fondarsi su sistemi di qualità orientati al cittadino.
I miglioramenti attesi dai sostenitori del sistema
dell’accreditamento si sostanziano, essenzialmente,
nella riduzione dei costi e
nell’innalzamento della qualità. L’argomento
sui costi muove da un giudizio critico nei confronti dell’attuale sistema dei
servizi nel quale permangono ampie sacche di inefficienza
ed un utilizzo non ottimale delle risorse disponibili. Per superare tali limiti
si propone di agire sul terreno della competizione
e della libertà di scelta. Un sistema
maggiormente competitivo aumenterebbe infatti
l’attenzione di chi fornisce il servizio nei confronti di chi lo riceve. In
buona sostanza:
• «I
fornitori presterebbero più attenzione a preferenze e bisogni degli utenti; lo farebbero,
inoltre, con rapidità e flessibilità superiori a prima, adattandosi
maggiormente alle loro esigenze. I cittadini, da parte loro, cesserebbero di essere beneficiari passivi delle prestazioni per assumere
un ruolo più attivo ed emancipato» (10).
Il raggiungimento di tali obiettivi viene
legato al superamento dei limiti esistenti nel rapporto tra ente pubblico,
finanziatore dei servizi, e soggetti erogatori, in genere appartenenti al terzo
settore. Un rapporto fondato sull’utilizzo delle “convenzioni” che – come
sostengono diversi osservatori – ha spesso generato strategie di spartizione
attraverso le quali si è evitata ogni forma di
concorrenza tra i fornitori, togliendo ad essi la spinta all’innovazione in
generale ed a ridurre i costi, migliorando la qualità, in particolare.
Le osservazioni sui limiti del sistema della
convenzioni sono sicuramente condivisibili ma – dalle esperienze
condotte in Italia ed all’estero – si evidenziano notevoli criticità anche nei
sistemi fondati sull’accreditamento e sui titoli per l’acquisto dei servizi. Nell’importante
contributo sul tema – “il voucher
e il quasi mercato” – Luca Fazzi e Cristiano Gori sostengono che la particolare natura dei servizi
oggetto di accreditamento complica l’applicazione
della libertà di scelta in quanto essi sono «beni
di esperienza», la cui qualità è valutabile esclusivamente durante il processo stesso di produzione
e non in una fase di scelta precedente. La qualità è infatti
l’esito del contatto e dell’interazione con gli operatori, la si può giudicare
solo mentre si riceve il servizio. I fruitori mancano, dunque, degli elementi necessari per
compiere una scelta prima di ricevere
il servizio; inoltre essi soffrono della cosiddetta “asimmetria informativa”. Le
informazioni rilevanti non sono infatti condivise tra
i due lati del mercato, in quanto l’offerta (i fornitori) ne ha a disposizione
più della domanda (i clienti). Infine non si può non considerare la difficoltà
al concreto utilizzo della libertà di scelta da parte di
un’utenza fragile e problematica quale quella rappresentata dalle persone con
handicap e dagli anziani non autosufficienti a causa di patologie croniche. Considerando
i fruitori come dei consumatori-sovrani li si interpreta come soggetti distinti dagli
operatori rispetto ai quali essi esercitano il proprio potere di scegliere e di cambiare erogatore. Si dimentica
così che, nella pratica, essi non consumano ma sono parte integrante di un processo di
produzione che non può che fondarsi su un
clima di fiducia che rappresenta la condizione imprescindibile per il buon
esito degli interventi.
La
concessione di pubblici servizi
Proprio il tema della fiducia ci introduce
ad un altro aspetto cruciale della questione. I servizi alla persona ai quali
il sistema dell’accreditamento fa riferimento si configurano, in realtà, non tanto come opportunità
da offrire discrezionalmente al cittadino/cliente ma in primo luogo come prestazioni di livello essenziale che – a certe condizioni – spettano all’utente per diritto.
Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29
novembre 2001 “Definizione dei livelli essenziali di assistenza”
all’allegato
In chi devono dunque riporre la propria fiducia questi
cittadini che utilizzano un bene o
servizio pubblico?
Se è comprensibile che la fiducia del cittadino/ cliente
vada necessariamente ricercata nel mercato (libero o amministrato), quella del
cittadino/utente non può che venire riposta nelle
istituzioni pubbliche che – per legge – devono
farsi garanti dell’adeguatezza dei servizi doverosamente resi.
A supportare la tesi che l’oggetto del sistema di accreditamento è rappresentato proprio da servizi pubblici contribuisce la
definizione – contenuta nell’articolo 112 del decreto legislativo 267/2000 (11)
– in base alla quale il servizio pubblico si configura quando ha «per oggetto la produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali o a
promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità». E la finalità sociale dei servizi in oggetto è puntualmente
espressa nell’articolo 1, primo comma, della legge 328/2000 ove si afferma che:
• «
Dalle considerazioni sin qui espresse
consegue che è opportuno – in questa fase – raccordare più puntualmente
l’istituto dell’accreditamento con quello – decisamente
più definito – della «concessione di
pubblico servizio»: strumento di cui la legge si serve per delegare a privati l’esercizio di alcuni servizi di esclusiva
pertinenza, relativamente alla titolarità, delle pubbliche amministrazioni.
L’istituto della concessione trova infatti fondamento normativo nell’articolo 41 della
Costituzione in cui è prevista una espressa riserva di legge per determinare «i programmi ed i controlli opportuni perché
l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a
fini sociali». La concessione di pubblici servizi è dunque uno dei mezzi
con cui è attribuito l’esercizio di
pubbliche funzioni a soggetti privati;
esso si fonda su due presupposti: l’esistenza di un pubblico servizio – cioè di una attività economica indirizzata a fini sociali –
e il fatto che l’attività possa essere esercitata in regime di monopolio.
Inoltre, come
Per legge, quindi, nei servizi sanitari
e socio-sanitari vi è corrispondenza tra:
• realizzazione di strutture sanitarie
ed esercizio di attività sanitarie e autorizzazione;
• esercizio di attività
sanitarie per conto del servizio sanitario pubblico e accreditamento;
• remunerazione
dei servizi a carico del fondo sanitario pubblico e accordo contrattuale.
Alla luce dei provvedimenti legislativi
più significativi rispetto all’istituto trattato,
appare abbastanza evidente che – fino all’approvazione di specifici indirizzi
regionali in materia – il concetto e le regole fondamentali dell’accreditamento
per i servizi sanitari e socio-sanitari non possono non valere anche per quelli
“sociali a rilevanza sanitaria” (che si espletano proprio
nell’ambito dell’area socio-sanitaria).
In questa chiave di lettura l’istituto
dell’accreditamento/concessione consente di coniugare efficacemente il principio di sussidiarietà
– che prevede il coinvolgimento del terzo settore nella programmazione e nella
gestione dei servizi – con la necessità di affermare che la titolarità – e
quindi la responsabilità – dei
servizi preposti ad erogare prestazioni
di livello essenziale deve rimanere pubblica (13). La concessione è infatti uno strumento che garantisce, all’Amministrazione
locale, penetranti poteri di intervento,
specie in merito ai criteri gestionali generali, nei confronti dei
soggetti privati chiamati ad espletare i servizi non gestiti direttamente dalla
struttura pubblica.
Nella concessione di pubblico servizio
il concessionario – al quale vengono trasferite
potestà pubbliche – sostituisce la
pubblica amministrazione nell’erogazione del servizio, ossia nello svolgimento
dell’attività diretta al soddisfacimento dell’interesse collettivo (14). Non è
così nel caso dell’appaltatore che svolge un’attività economica a beneficio del
committente pubblico o nel caso del soggetto “autorizzato” che -– pur svolgendo la sua attività economica a beneficio
degli utenti – non è individuabile come organo
indiretto dell’amministrazione.
Altro elemento importante che
caratterizza la concessione è che il concessionario assume su di sé il rischio della gestione dell’opera o del
servizio, in quanto si remunera, almeno per una parte significativa,
presso gli utenti, mediante la riscossione di un prezzo. Prezzo che viene determinato secondo criteri fissati,
dall’Amministrazione concedente, in sede di espletamento delle procedure di selezione ad evidenza pubblica per
l’affidamento della concessione dei servizi.
In ciò la concessione non si discosta –
nella sostanza – dal sistema di remunerazione indicato nella
legge 328/2000 che prevede che siano i Comuni:
• a corrispondere
ai soggetti accreditati tariffe per
le prestazioni erogate nell’ambito della programmazione regionale e locale;
• a concedere, su
richiesta dell’interessato, di titoli
validi per l’acquisto di servizi sociali dai soggetti accreditati.
Occorre inoltre sottolineare
una ulteriore prerogativa dell’istituto: la possibilità di collegare gestione
dei servizi ed esecuzione di lavori. Nel senso che laddove la gestione di
un’opera sia strumentale alla sua costruzione – in
quanto consente il reperimento dei mezzi finanziari per realizzarla – è
configurabile la fattispecie della “concessione
di costruzione ed esercizio”, mentre nel caso in cui l’espletamento di
lavori pubblici sia strumentale – sotto il profilo della manutenzione e
dell’implementazione – alla gestione di un servizio pubblico, il cui
funzionamento è già assicurato da un opera esistente, è configurabile la “concessione di servizi”.
In entrambi i casi lo
strumento della concessione rappresenta una opportunità per le Amministrazioni
locali che intendano promuovere l’insediamento, sul proprio territorio, di
servizi – semiresidenziali e residenziali – che richiedono l’edificazione o la
ristrutturazione di locali. Non sempre, infatti, sono presenti in ambito locale
dei servizi “accreditabili” ed è nota la difficoltà, per i Comuni, di reperire le risorse necessarie alla costruzione,
ristrutturazione e manutenzione delle strutture.
È ancora il caso di osservare che,
attraverso l’esercizio dell’opzione di collegare
gestione dei servizi ed esecuzione di lavori da parte dei comuni, è possibile concretizzare il
disposto dall’articolo 3, comma 2, lettera b) della legge 328/2000 che prevede –
come si è detto precedentemente – l’esercizio, a livello locale, della
programmazione degli interventi e delle risorse
secondo il principio della concertazione e della cooperazione tra
istituzioni locali e soggetti del privato sociale «che partecipano con proprie risorse alla realizzazione della rete».
Gli investimenti finanziari effettuati
dai concessionari danno poi modo di prevedere contratti di concessione decisamente più lunghi rispetto agli appalti tradizionali e
ciò rappresenta un ulteriore vantaggio per le imprese – che possono programmare
meglio il proprio radicamento sul territorio – e, soprattutto, per gli
operatori addetti ai servizi ai quali è potenzialmente assicurata una
continuità di impiego.
Infine non va dimenticata la disciplina dell’aspetto dinamico della
concessione di servizi sociali (15). La norma, di
fatto, stabilisce che, esercitando quei poteri di supremazia che sono tipici
del rapporto di concessione, l’Amministrazione possa
apportare variazioni alle caratteristiche del servizio – e dunque, al contenuto
del contratto – durante il corso della concessione. In tal senso è necessario
che vengano preventivamente definite le norme
destinate a disciplinare proprio i momenti di revisione. Il carattere
“incrementale” del contratto di concessione consente, dunque, di rispondere
efficacemente all’esigenza di conferire
dinamicità ed elasticità alle caratteristiche dei servizi in relazione all’esperienza fatta ed alle variazioni nei
bisogni dell’utenza.
Conclusioni
Lo strumento della concessione rappresenta una importante
opportunità per le Amministrazioni locali titolari di servizi a responsabilità pubblica che richiedono un investimento di
risorse umane, progettuali e finanziarie per la predisposizione delle risposte
ai bisogni espressi dalla comunità locale.
Per un efficace utilizzo di tale strumento occorre che le istituzioni
locali adottino una metodologia di concertazione
che consenta di attivare un sistema
di regole e convenienze per tutti i soggetti in gioco (imprese sociali,
operatori addetti ai servizi, utenti e loro rappresentanze) puntando alla
realizzazione di ogni possibile sinergia.
Il compito richiesto alle Amministrazioni è di produrre, a livello locale, legami e relazioni che promuovano processi di sviluppo – economico ed occupazionale
– anche attraverso l’ampliamento delle reti dei “servizi alla persona e alla comunità” indicati dal titolo IV del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112. Politiche di comunità, dunque, che
attraverso la partecipazione favoriscano il “sentirsi parte di un insieme”, di
una società civile con regole comuni, da
tutti rispettate e condivise, atte a consentire
una vita quotidiana più controllabile e gestibile.
Nelle relazioni di comunità è infatti la fiducia – che i cittadini ripongono
in primo luogo nelle Amministrazioni locali – l’elemento cardine per costruire
reti di umanità che consentano il passaggio dalle
solidarietà corte alle solidarietà
lunghe. E la fiducia è il bene relazionale che pone il sociale e le sue
risposte alla portata delle persone e costituisce un orizzonte di senso per
percorsi di vita significativi (16).
Si è detto che le leggi più recenti assumono
inequivocabilmente la scelta della sussidiarietà. Sono
dunque le istituzioni più vicine ai cittadini ad essere chiamate, per prime, ad adottare strumenti
e procedure di raccordo e di concertazione, anche permanenti, per dare luogo a
forme di cooperazione con gli organismi non lucrativi di utilità sociale,
il volontariato e l’associazionismo di promozione sociale. Ed è sempre ad esse che spetta il compito di regolamentare, nell’ambito
della comunità locale, il rapporto tra
diritti e doveri.
Occorre però che tutti i soggetti attivi della comunità amministrata
concorrano a produrre le risorse necessarie ad assicurare, a livello locale, la
necessaria giustizia sociale. Lo
sviluppo di un’etica della responsabilità
è infatti condizione necessaria perché i diritti siano
esigibili per tutti ma ognuno fruisca di ciò che è disponibile tenendo conto
dei suoi reali bisogni e delle sue personali risorse. In buona sostanza che non
si inventino i bisogni né si nascondano le risorse
proprie per appropriarsi di quelle pubbliche.
Bisogna favorire la crescita della comunità locale aiutandola a riconoscere
e selezionare le proprie necessità e bisogni, stimolando la partecipazione e
facendo crescere le risorse locali e la responsabilizzazione
dei cittadini nella programmazione e verifica dei servizi. Bisogna rivitalizzare ed incoraggiare la responsabilità delle
persone singole o aggregate affinché queste si possano esprimere autonomamente,
nella convinzione che quello che accade è responsabilità di tutti.
«Sapere quali sono i propri diritti non vuol dire ignorare i doveri. Significa, invece,
avere presente un serio e onesto quadro di riferimento per la propria vita
individuale, familiare e sociale. Per poter difendere le esigenze personali e
quelle delle persone in difficoltà è indispensabile,
altresì, essere in grado di valutare obiettivamente i contenuti di una legge,
di un regolamento, di una circolare, di una deliberazione» (17).
Conoscere quali sono le prestazioni dovute ai cittadini – ed in particolare
a quelli che non sono in grado di auto difendersi – è
una condizione obbligatoria per i gruppi di volontariato che operano,
nell’ambito della comunità locale, per ottenere il rispetto delle esigenze
fondamentali delle persone in difficoltà.
Ma districarsi nella foresta delle disposizioni di legge, orientarsi
nell’intrico delle istituzioni pubbliche e private per accertarne la reale
competenza ad intervenire non è facile nemmeno per gli addetti ai lavori. Pertanto
è necessario adottare un metodo che consenta alle
associazioni locali di acquisire – se necessario con l’aiuto di esperti – una
adeguata conoscenza degli aspetti fondamentali dei problemi e gli elementi
occorrenti per muoversi in modo corretto e tempestivo.
Vi è infatti l’esigenza imprescindibile che tali
forze sociali vengano messe in condizione di avanzare proposte concrete che
rispondano il più compiutamente possibile alle esigenze dei cittadini, dei nuclei
familiari, della comunità locale. Inoltre è necessario che le organizzazioni
rappresentative dell’utenza siano anche in grado di fornire una tempestiva ed
esauriente consulenza a terzi (persone, enti pubblici e privati), nonché di assumere la difesa dei singoli individui a cui
sono stati negati o violati diritti.
* Direttore del Cisap (Consorzio intercomunale
dei servizi alla persona tra i Comuni di Collegno e Grugliasco). In un prossimo articolo verranno
segnalate le esperienze realizzate mediante la concessione di pubblici servizi.
(1) Legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1: “Disposizioni concernenti
l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia
statutaria delle Regioni”.
(2) Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3: “Modifiche al titolo V della
parte II della Costituzione”.
(3) Città di Torino, Nuovo ordinamento
amministrativo e principio di sussidiarietà,
dispense di Francesco Pizzetti.
(4) Legge 8 novembre 2000, n. 328: “Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali”.
(5) A tali conclusioni giunge lo stesso Ministero del lavoro e delle
politiche sociali che, in un documento sul tema, afferma: «Per quanto riguarda le politiche sociali lo
Stato è, dunque, chiamato, a norma della lett. m) del II
comma dell’art. 117 Cost., a stabilire quali siano i
livelli essenziali delle prestazioni assistenziali (di seguito Lep) sulla scorta di quanto già stabilito dalla legge
328/2000, che continua a costituire un importante punto di riferimento per il
settore ma che pure chiede di essere rivisitata e integrata sia per la sua
natura di legge quadro (oggi non più compatibile con l’attribuzione alle
Regioni della competenza esclusiva in materia) sia per la struttura programmatoria (e non definitoria)
dello strumento di azioni e di interventi ivi previsti. In altre parole, la
legge 328 – in quanto approvata nel precedente impianto costituzionale, tutto
imperniato sulla determinazione dei principi (da parte dello Stato) e sulla
specificazione dei dettagli (da parte delle Regioni) – si limita a porre i
presupposti (principi) che permettono di giungere ad una garanzia delle
posizioni giuridiche soggettive implicate nella definizione delle prestazioni assistenziali, condizionando come è noto la concreta
erogazione delle stesse (dettaglio) alle scelte degli enti locali, che
risultano a loro volta condizionate dalle relative disponibilità finanziarie. Quanto
viene invece richiesto dalla nuova norma
costituzionale – e forse ancor di più dal contesto generale nel quale essa si
inserisce – è una vera e propria definizione dei livelli essenziali delle
prestazioni da parte dello Stato e non più solo una programmazione degli
stessi. Tale norma si prefigge infatti di garantire
quel nucleo duro di prestazioni che costituiscono il fattore unificante della
cittadinanza sociale contro il rischio di una frammentazione della stessa nelle
diverse parti del territorio nazionale». Ministero del lavoro e delle politiche sociali, “I
livelli essenziali delle prestazioni nel settore dell’assistenza”, Prospettive
sociali e sanitarie, n. 1, 2005.
(6) Con l’approvazione del Decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155
“Disciplina dell’impresa sociale, a norma della legge 13 giugno 2005, n.118” vengono abilitate a svolgere attività di “utilità
sociale” anche le “imprese sociali” ovvero «tutte
le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice
civile, che esercitano in via stabile e principale un’attività economica
organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi di
utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale, e che
hanno i requisiti di cui agli articoli 2, 3 e 4». Per attività principale «si intende quella
per la quale i relativi ricavi sono superiori al settanta per cento dei ricavi
complessivi dell’organizzazione che esercita l’impresa sociale». Si tratta
di soggetti che – a differenza delle cooperative sociali – possono operare non
solo nei servizi socio-sanitari ed educativi o
finalizzati all’inserimento di persone svantaggiate, ma in una area più ampia. Nell’articolo
2 del decreto vengono infatti definiti “beni e servizi
di utilità sociale” quelli prodotti o scambiati nei seguenti settori:
assistenza sociale; assistenza sanitaria; assistenza socio-sanitaria;
educazione, istruzione e formazione; tutela dell’ambiente e dell’ecosistema;
valorizzazione del patrimonio culturale; turismo sociale; formazione
universitaria e post universitaria; ricerca ed erogazione di servizi culturali;
formazione extrascolastica; servizi strumentali alle imprese sociali. Inoltre
una parte dei ricavi dell’attività delle “imprese sociali” può derivare anche
da attività svolte in settori diversi da quelli indicati dal Decreto purché venga rispettata la condizione della “attività principale” .
(7) Legge 8 novembre 1991, n. 381 “Disciplina delle cooperative sociali”.
(8) Giova ricordare che la legge 328/2000 – ponendo il limite delle risorse
finanziarie e patrimoniali disponibili alla programmazione ed organizzazione
del sistema integrato – non assicura l’esigibilità del diritto a beneficiare
degli interventi e servizi sociali definiti nei livelli essenziali delle
prestazioni, ma si limita ad assumere il criterio della priorità di accesso per
i soggetti più fragili (articolo 2, comma 3).
(9) Studio Come s.r.l., Welfare del cittadino. Piccolo manuale organizzativo delle politiche e dei
servizi sociali, Roma, 2001.
(10) Luca Fazzi e Cristiano Gori,
Il voucher e il quasi mercato in La riforma dei servizi sociali in Italia
a cura di Cristiano Gori, Carocci
Editore, Roma, 2004, pag.173.
(11) Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267: “Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali”.
(12) Franco Dalla Mura, Pubblica
amministrazione e non profit, Carocci
Faber, Roma, 2003, pag. 150.
(13) Il dettato dell’articolo 113 del decreto legislativo 267/2000 –
prevedendo la concessione tra le varie forme di gestione dei servizi pubblici
locali – dà facoltà ai Comuni, attraverso il rilascio della concessione, di
trasferire ad un soggetto privato non la titolarità del servizio, che rimane
comunque all’ente pubblico, ma il suo esercizio doveroso.
(14) Angelo Massari, Appalti e contratti, Maggioli Editore,
Bologna, pag. 72.
(15) Franco dalla Mura, op. cit., pag.
90.
(16) Sergio Dugone, “Dallo stato assistenziale alla
comunità solidale”, Politiche sociali,
n. 6, 1999.
(17) Roberto Carapelle, Giuseppe D’Angelo, Francesco
Santanera, A
scuola di diritti, Utet Libreria, Torino, 2005.
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