Prospettive assistenziali, n. 155, luglio - settembre 2006

 

 

RESPONSABILITÀ PUBBLICA E FORME GESTIONALI DEI SERVIZI DI LIVELLO ESSENZIALE

MAURO PERINO *

 

 

Il problema rappresentato dalla necessità di coniugare la responsabilità pubblica sui servizi di livello essenziale, con l’attuazione del “principio di sussidiarietà” (introdotto nella nostra Costituzione con la modifica del Titolo V) in base al quale le autorità pubbliche devono essere coinvolte, nella fornitura dei servizi, solo quando siano esaurite le capacità e le risorse che permettono alla famiglia, alla comunità ed alle organizzazioni primarie di provvedere all’assistenza dei propri membri è estremamente attuale.

Il settore pubblico si apre infatti al mercato in forme diverse: accanto ad esperienze nelle quali le istituzioni pubbliche si fanno promotrici della “società civile organizzata”, che viene coinvolta nella organizzazione di un “mercato amministrato dei servizi”, ve ne sono altre nelle quali sembra prevalere – attraverso una monetizzazione spinta dell’assistenza – una concezione residuale della sicurezza sociale che riduce l’uguaglianza, rilanciando la beneficenza a scapito della giustizia.

In ogni caso la “sussidiarietà orizzontale” – comunque declinata – tende ad attribuire una maggiore importanza agli obblighi ed ai doveri della persona piuttosto che ai diritti del cittadino e, pertanto, ciò che distingue i due sistemi di offerta è essenzialmente l’ampiezza della delega che il pubblico conferisce al privato, in termini di organizzazione dei servizi e di tutela degli utenti. In entrambi i sistemi, infatti, la produzione dei servizi non viene posta a carico degli operatori pubblici, ma è affidata a dipendenti inquadrati secondo regole privatistiche (al limite con assunzione da parte dell’assistito o dei suoi famigliari).

Nell’articolo di Mauro Perino si sostiene che – in questo scenario – la tutela dell’esigibilità del diritto alle prestazioni di livello essenziale passa attraverso l’utilizzo dell’istituto della “concessione di pubblico servizio” in quanto strumento che consente, alle pubbliche amministrazioni, di delegare ai privati l’esercizio dei servizi pur mantenendo penetranti poteri di intervento sui criteri gestionali degli stessi.

In buona sostanza sarebbe necessario che le Regioni – chiamate a definire i criteri per l’autorizzazione, l’accreditamento e la vigilanza delle strutture e dei servizi in base all’articolo 8, comma 3, lettera f) della legge 328/2000 – prevedessero, nell’ambito dei processi di accreditamento dei soggetti gestori, il pieno utilizzo degli strumenti di tutela dell’utenza e delle opportunità per le pubbliche amministrazioni, previsti dall’istituto della concessione di pubblico servizio (come, del resto, avviene in sanità).

Purtroppo la Regione Piemonte – che ha recentemente adottato la deliberazione della Giunta regionale 22 maggio 2006, n.79/2953, “Legge regionale 8 gennaio 2004 n. 1, articolo 31 - Atto di indirizzo per regolamentare i rapporti tra gli Enti pubblici e il terzo Settore: approvazione” – non ha ritenuto di procedere in questa direzione. Nelle linee guida regionali – che definiscono i sistemi per l’affidamento a terzi della gestione dei servizi alla persona – l’istituto della concessione non viene sostanzialmente trattato. La deliberazione si limita infatti a dare atto che le procedure «che comportano corresponsione di tariffe e/o concessione di titoli per l’acquisto di servizi» hanno «natura concessoria» e che, pertanto, «dal punto di vista contrattuale i soggetti a tal fine accreditati divengono, a tutti gli effetti, concessionari del servizio» ai sensi dell’articolo 14 “Accreditamento e affidamento a terzi” (Nota redazionale).

 

 

 

 

La tutela dei diritti politici, economici e sociali

Gli obiettivi dello Stato sociale – che ha il fine primario di creare le condizioni materiali per l’esercizio dei diritti politici, economici e sociali da parte di tutta la cittadinanza – trovano ampia formulazione negli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione:

• «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

• «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

La promozione e la tutela dei diritti civili e politici del cittadino rappresenta dunque una finalità da perseguire attraverso l’attività – legislativa, di governo ed amministrativa – delle istituzioni repubblicane che deve indirizzarsi in tutte le direzioni in cui si verificano situazioni di difficoltà dei cittadini e deve concretizzarsi attraverso la realizzazione di politiche di sicurezza sociale finalizzate a garantire la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale quale condizione necessaria per l’effettivo godimento di tali diritti.

La nostra Costituzione riconosce espressamente il diritto al lavoro (art. 4), il diritto alla salute (art. 32), il diritto allo studio (art. 34), il diritto alla giusta retribuzione (art. 36), il diritto all’assistenza (art. 38). L’art. 31 riconosce inoltre un particolare diritto all’assistenza per la famiglia che deve essere agevolata nell’adempimento dei propri compiti anche mediante appositi istituti di protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù, inclusi i figli nati fuori del matrimonio di cui all’art. 30. Si tratta di altrettante situazioni giuridiche soggettive riconducibili alla categoria dei diritti sociali, anche detti diritti di solidarietà. Diritti di solidarietà che si traducono in altrettanti doveri inderogabili per i singoli e per le formazioni sociali chiamate – insieme alle istituzioni – a perseguire il pieno sviluppo della persona umana attraverso il superamento delle cause di discriminazione economica e sociale.

 

Le titolarità istituzionali ed il principio di sussidiarietà

Con le leggi costituzionali n. 1 del 1999 (1) e n. 3 del 2001 (2) è stato fortemente innovato il titolo V della parte II della Costituzione. Le nuove disposizioni costituzionali sono tese a dare pieno riconoscimento e valorizzazione agli enti locali sulla base del principio di sussidiarietà. La posizione dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane muta in modo rilevante e questi enti vengono a collocarsi – in base al nuovo testo dell’articolo 114 della Costituzione – sullo stesso livello costituzionale delle Regioni e dello Stato (con i quali costituiscono, al medesimo titolo, la Repubblica).

Il secondo elemento di grande novità è rappresentato dal nuovo testo dell’articolo 117 della Costituzione che parifica la potestà legislativa statale e quella regionale – non più sovraordinate l’una all’altra ma distinte tra loro solamente per i diversi ambiti di competenza – assoggettando entrambi gli organismi al rispetto della Costituzione, dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. Inoltre, la competenza legislativa esclusiva dello Stato è ora limitata a 17 materie e in quella concorrente allo Stato spetta – fatta salva la potestà legislativa delle Regioni – la sola determinazione dei principi fondamentali. In buona sostanza sono le Regioni e i legislatori regionali a essere titolari della competenza generale prima assegnata alla legge statale. È ben vero che «alcune materie in cui è stabilita la competenza esclusiva del legislatore statale si configurano come “materie trasversali” e dunque pervasive di ampi settori dell’ordinamento (si pensi ad esempio alla tutela della concorrenza e alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale)» (3)  ma in ogni caso si può affermare che, nel nuovo sistema, non esiste più la legge come fonte normativa sub costituzionale dotata di un potere unificante nell’ambito delle materie regolate e disciplinate dalla legge stessa.

Il terzo elemento innovativo attiene alla potestà regolamentare che compete allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva ed alle Regioni in ogni altra materia. Ai Comuni, alle Province ed alle Città metropolitane spetta inoltre l’esercizio del potere regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite secondo i criteri fissati dal nuovo testo dell’articolo 118 in base al quale:

• «Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base del principio di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza».

Inoltre i Comuni, le Province e le Città metropolitane – titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale e regionale se­condo le rispettive competenze – le esercitano favorendo:

• «l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».

Con la legge di riforma costituzionale vengono definitivamente trasferite al welfare municipale le responsabilità gestionali e finanziarie del welfare di stato. In materia di “assistenza sociale” le regioni acquisiscono potestà legislativa esclusiva e possono quindi approvare norme difformi dalla legge quadro 328/2000 (4). La “tutela della salute” è invece materia di legislazione concorrente: spetta cioè alle Regioni legiferare facendo salvo il rispetto dei principi fondamentali la cui determinazione è riservata alla legislazione statale.

A contrastare i processi di differenziazione dei livelli di prestazioni fornite in ambito regionale e comunale – inevitabilmente innescati dalle modifiche del titolo V della Costituzione – non rimane che l’esercizio, da parte dello Stato, del potere/dovere di determinare, con legge, «i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» e quindi – nel caso specifico – i livelli essenziali relativi alle prestazioni sociali e sanitarie (5).

 

La gestione dei servizi alla persona

Come si è detto, non solo i singoli cittadini, ma anche le formazioni sociali che essi esprimono, hanno il dovere inderogabile di operare per la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Inoltre i Comuni e gli enti locali sono chiamati dal novellato articolo 118 della Costituzione ad esercitare le funzioni amministrative (proprie o conferite) favorendo sulla base del principio di sussidiarietà «l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale».

Il combinato disposto delle due norme costituzionali consente di individuare nel privato sociale ed in particolare nella cooperazione sociale, il soggetto associativo potenzialmente più adatto ad operare sul terreno della promozione dei diritti di solidarietà e su quello della erogazione delle prestazioni attraverso le quali tali diritti si concretizzano (6). Questa è infatti la chiave di lettura adottata, sin dai primi anni ’90, dal legislatore nazionale che – all’articolo 1, primo comma della legge 381/1991 (7) con la quale si disciplina la cooperazione sociale – af­ferma:

• «Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso: a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi; b) lo svolgimento di attività diverse – agricole, industriali, commerciali o di servizi – finalizzate all’inserimento di persone svantaggiate».

In coerenza con tale impianto normativo si muove anche la successiva legge quadro 328/2000  che – ai compiti di promozione e gestione delle attività di interesse generale assegnati alle cooperative sociali dalla legge 381/1991 – aggiunge quelli di progettazione previsti dall’articolo 1, comma 5, che recita:

• «Alla gestione ed all’offerta dei servizi provvedono soggetti pubblici nonché, in qualità di soggetti attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi, organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della cooperazione, organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione sociale, fondazioni, enti di patronato e altri soggetti privati».

La motivazione della scelta di ampliare in modo così significativo il ruolo dei soggetti appartenenti al privato sociale risiede – secondo l’articolo citato – nella considerazione che:

• «il sistema integrato di interventi e servizi sociali ha tra gli scopi anche la promozione della solidarietà sociale, con la valorizzazione delle iniziative delle persone, dei nuclei familiari, delle forme di auto aiuto e di reciprocità e della solidarietà organiz­zata».

Ma la legge 328/2000 si spinge oltre: il comma 4 del citato articolo 1 prevede infatti che:

«Gli enti locali, le Regioni e lo Stato, nell’ambito delle rispettive competenze, riconoscono ed agevolano il ruolo degli organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi delle cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, delle fondazioni e degli enti di patronato, delle organizzazioni di volontariato, degli enti riconosciuti delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese operanti nel settore della programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema integrato di interventi e servizi sociali».

In sintesi agli organismi del privato sociale viene attribuito un ruolo non solo nella promozione, nella progettazione e nella organizzazione e gestione degli interventi, ma anche nella programmazione del sistema integrato.

È ben vero infatti che l’esercizio di tale funzione viene assegnato – secondo il disposto del comma 3 dell’articolo 1 – agli enti locali, alle Regioni ed allo Stato «secondo i principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, copertura finanziaria e patrimoniale (8), responsabilità ed unicità dell’amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare degli enti locali», ma a questi soggetti pubblici viene posto il vincolo di esercitare la programmazione degli interventi e delle risorse secondo il principio – fissato dall’articolo 3, comma 2, lettera b) della legge quadro – della «concertazione e cooperazione tra i diversi livelli istituzionali» e «tra questi ed i soggetti di cui all’articolo 1, comma 4» – ovvero i soggetti del privato sociale – «che partecipano con proprie risorse alla realizzazione della rete».

Il concetto viene ulteriormente rafforzato nell’articolo 5 della legge quadro – interamente dedicato al terzo settore – nel quale vengono assunti precisi impegni nei confronti della cooperazione sociale. Il comma 1 stabilisce che per l’attuazione del principio di sussidiarietà gli enti locali, le Regioni e lo Stato promuovono azioni di sostegno e qualificazione dei soggetti operanti nel terzo settore anche attraverso politiche formative ed interventi per l’accesso agevolato al credito ed ai fondi europei. Il comma 2 affronta il tema cruciale dell’affidamento dei servizi previsti dalla legge quadro assegnando agli enti pubblici il compito di promuovere azioni per favorire la trasparenza e la semplificazione amministrativa, nonché «il ricorso a forme di aggiudicazione o negoziali che consentano ai soggetti operanti nel terzo settore la piena espressione della propria proget­tualità, avvalendosi di analisi e di verifiche che tengano conto della qualità e delle caratteristiche delle prestazioni offerte e della qualificazione del personale».

Infine il comma 3 che demanda alle Regioni – sulla base di un atto di indirizzo e coordinamento del governo – l’adozione di specifici indirizzi per regolamentare i rapporti tra enti locali e terzo settore «con particolare riferimento ai sistemi di affidamento dei servizi alla persona».

 

L’accreditamento dei servizi

In materia di gestione dei servizi la legge quadro si esprime delineando un sistema nel quale i servizi a gestione pubblica e quelli gestiti dai soggetti del privato – sociale e non – sono posti sullo stesso piano. I Comuni sono infatti chiamati – in forza dell’articolo 11, comma 3 – ad autorizzare e ad accreditare – sulla base del possesso dei requisiti fissati dalla normativa nazionale, regionale e della regolamentazione locale – il complesso dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale, pubblici e privati, ed a corrispondere ai soggetti accreditati tariffe per le prestazioni erogate nell’ambito della programmazione regionale e locale. A tal fine l’articolo 8, comma 3, lettera n) della legge assegna alle Regioni la funzione di provvedere alla «determinazione dei criteri per la definizione delle tariffe che i Comuni sono tenuti a corrispondere ai soggetti accreditati». Inoltre, nell’articolo 17, viene previsto che «i Comuni possono prevedere» – sempre sulla base dei criteri fissati dalle regioni – «la concessione, su richiesta dell’interessato, di titoli validi per l’acquisto di servizi sociali dai soggetti accreditati».

L’istituto dell’accreditamento – mutuato dal sistema sanitario ed introdotto nel comparto sociale dalla legge 328/2000 – è lo strumento centrale del disegno di ampliare, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, la gamma dei servizi offerti e dei soggetti abilitati a fornirli (che vengono chiamati a competere tra loro nell’erogazione). L’obiettivo viene esplicitamente dichiarato nel decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri recante “Atto di indirizzo e coordinamento sui sistemi di affidamento dei servizi alla persona” emanato in attuazione dell’articolo 5 della legge quadro. L’articolo 1, comma 2, del decreto prevede infatti che le Regioni adottino «specifici indirizzi per:

• promuovere il miglioramento della qualità dei servizi e degli interventi anche attraverso la definizione di specifici requisiti di qualità;

• favorire la pluralità dell’offerta dei servizi e delle prestazioni, nel rispetto dei principi di trasparenza e semplificazione amministrativa;

• favorire l’utilizzo di forme di aggiudicazione o negoziali che consentano la piena espressione della capacità progettuale ed organizzativa dei soggetti del terzo settore;

• favorire forme di coprogettazione promosse dalle amministrazioni pubbliche interessate, che coinvolgano attivamente i soggetti del terzo settore per l’individuazione di progetti sperimentali ed innovativi al fine di affrontare specifiche problematiche sociali;

• definire adeguati processi di consultazione con i soggetti del terzo settore e con i loro organismi rappresentativi riconosciuti come parte sociale».

Le considerazioni sulle quali si fonda l’istituto dell’accreditamento sono ben sintetizzate in un testo – elaborato dallo Studio Come (9) nella fase di approvazione della legge quadro – nel quale si afferma che la crescita (economica e culturale, quantitativa e qualitativa) del settore sociale dipende in gran parte dalla sua capacità di mettere al centro il cittadino. Un cittadino al quale non è consentita una reale possibilità di scelta perché, quando è utente, può contare su una organizzazione che alle sue spalle media tra bisogni e risposte ma viene fortemente limitato nelle scelte, quando invece è un compratore in proprio, può scegliere come farsi servire ma, quasi sempre, deve rinunciare ai servizi di mediazione. Si tratta di due situazioni speculari, entrambe insoddisfacenti, che si possono correggere – secondo gli estensori del testo – da un lato allargando il ventaglio delle scelte e dall’altro garantendo sia agli utenti che ai clienti i servizi di informazione, orientamento, mediazione e guida in un mercato che deve essere amministrato dagli enti locali.

L’accreditamento si configura dunque come lo strumento di una politica di sostegno della domanda finale mediante incentivi agli individui, alle famiglie, alla collettività perché aumenti la propensione a consumare servizi. In buona sostanza si teorizza la necessità di promuovere una politica attiva di incentivazione dei consumi sociali che sappia fondarsi su sistemi di qualità orientati al cittadino.

I miglioramenti attesi dai sostenitori del sistema dell’accreditamento si sostanziano, essenzialmente, nella riduzione dei costi e nell’innalzamento della qualità. L’argomento sui costi muove da un giudizio critico nei confronti dell’attuale sistema dei servizi nel quale permangono ampie sacche di inefficienza ed un utilizzo non ottimale delle risorse disponibili. Per superare tali limiti si propone di agire sul terreno della competizione e della libertà di scelta. Un sistema maggiormente competitivo aumenterebbe infatti l’attenzione di chi fornisce il servizio nei confronti di chi lo riceve. In buona sostanza:

• «I fornitori presterebbero più attenzione a preferenze e bisogni degli utenti; lo farebbero, inoltre, con rapidità e flessibilità superiori a prima, adattandosi maggiormente alle loro esigenze. I cittadini, da parte loro, cesserebbero di essere beneficiari passivi delle prestazioni per assumere un ruolo più attivo ed emancipato» (10).

Il raggiungimento di tali obiettivi viene legato al superamento dei limiti esistenti nel rapporto tra ente pubblico, finanziatore dei servizi, e soggetti erogatori, in genere appartenenti al terzo settore. Un rapporto fondato sull’utilizzo delle “convenzioni” che – come sostengono diversi osservatori – ha spesso generato strategie di spartizione attraverso le quali si è evitata ogni forma di concorrenza tra i fornitori, togliendo ad essi la spinta all’innovazione in generale ed a ridurre i costi, migliorando la qualità, in particolare.

Le osservazioni sui limiti del sistema della convenzioni sono sicuramente condivisibili ma – dalle esperienze condotte in Italia ed all’estero – si evidenziano notevoli criticità anche nei sistemi fondati sull’accreditamento e sui titoli per l’acquisto dei servizi. Nell’importante contributo sul tema – “il voucher e il quasi mercato” – Luca Fazzi e Cristiano Gori sostengono che la particolare natura dei servizi oggetto di accreditamento complica l’applicazione della libertà di scelta in quanto essi sono «beni di esperienza», la cui qualità è valutabile esclusivamente durante il processo stesso di produzione e non in una fase di scelta precedente. La qualità è infatti l’esito del contatto e dell’interazione con gli operatori, la si può giudicare solo mentre si riceve il servizio. I fruitori mancano, dunque, degli elementi necessari per compiere una scelta prima di ricevere il servizio; inoltre essi soffrono della cosiddetta “asimmetria informativa”. Le informazioni rilevanti non sono infatti condivise tra i due lati del mercato, in quanto l’offerta (i fornitori) ne ha a disposizione più della domanda (i clienti). Infine non si può non considerare la difficoltà al concreto utilizzo della libertà di scelta da parte di un’utenza fragile e problematica quale quella rappresentata dalle persone con handicap e dagli anziani non autosufficienti a causa di patologie croniche. Considerando i fruitori come dei consumatori-sovrani li si interpreta come soggetti distinti dagli operatori rispetto ai quali essi esercitano il proprio potere di scegliere e di cambiare erogatore. Si dimentica così che, nella pratica, essi non consumano ma sono parte integrante di un processo di produzione che non può che fondarsi su un clima di fiducia che rappresenta la condizione imprescindibile per il buon esito degli interventi.

 

La concessione di pubblici servizi

Proprio il tema della fiducia ci introduce ad un altro aspetto cruciale della questione. I servizi alla persona ai quali il sistema dell’accreditamento fa riferimento si configurano, in realtà, non tanto come opportunità da offrire discrezionalmente al cittadino/cliente ma in primo luogo come prestazioni di livello essenziale che – a certe condizioni – spettano all’utente per diritto.

Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 novembre 2001 “Definizione dei livelli essenziali di assistenza” all’allegato 1.C sancisce infatti – come noto – il diritto soggettivo dei cittadini ad accedere alle prestazioni afferenti all’area dell’integrazione socio-sanitaria pur con l’onere di contribuire al costo dei servizi erogati. E tra le suddette prestazioni rientrano tutte quelle a carattere domiciliare, semi-residenziale e residenziale previste dalla legge 328/2000 ove le stesse siano rivolte a persone con handicap e ad anziani non autosufficienti.

In chi devono dunque riporre la propria fiducia questi cittadini che utilizzano un bene o servizio pubblico?

Se è comprensibile che la fiducia del cittadino/ cliente vada necessariamente ricercata nel mercato (libero o amministrato), quella del cittadino/utente non può che venire riposta nelle istituzioni pubbliche che – per legge – devono farsi garanti dell’adeguatezza dei servizi doverosamente resi.

A supportare la tesi che l’oggetto del sistema di accreditamento è rappresentato proprio da servizi pubblici contribuisce la definizione – contenuta nell’articolo 112 del decreto legislativo 267/2000 (11) – in base alla quale il servizio pubblico si configura quando ha «per oggetto la produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali o a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità». E la finalità sociale dei servizi in oggetto è puntualmente espressa nell’articolo 1, primo comma, della legge 328/2000 ove si afferma che:

• «La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza del reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione».

Dalle considerazioni sin qui espresse consegue che è opportuno – in questa fase – raccordare più puntualmente l’istituto dell’accreditamento con quello – decisamente più definito – della «concessione di pubblico servizio»: strumento di cui la legge si serve per delegare a privati l’esercizio di alcuni servizi di esclusiva pertinenza, relativamente alla titolarità, delle pubbliche amministrazioni.

L’istituto della concessione trova infatti fondamento normativo nell’articolo 41 della Costituzione in cui è prevista una espressa riserva di legge per determinare «i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». La concessione di pubblici servizi è dunque uno dei mezzi con cui è attribuito l’esercizio di pubbliche funzioni a soggetti privati; esso si fonda su due presupposti: l’esistenza di un pubblico servizio – cioè di una attività economica indirizzata a fini sociali – e il fatto che l’attività possa essere esercitata in regime di monopolio.

Inoltre, come la Corte di Cassazione a Sezioni riunite ha avuto modo di chiarire «l’accreditamento nei servizi sanitari, ospedalieri (e socio sanitari) ha natura di concessione amministrativa: infatti, l’articolo 8 bis del decreto legislativo 502/1992 (così come modificato ad opera del decreto legislativo 229/1999) afferma che la realizzazione di strutture sanitarie e l’esercizio di attività sanitarie, l’esercizio di attività sanitarie per conto del Servizio sanitario nazionale e l’esercizio di attività sanitarie a carico del Servizio sanitario nazionale sono subordinate, rispettivamente, al rilascio delle autorizzazioni di cui all’articolo 8 ter, dell’accreditamento istituzionale di cui all’articolo 8 quater, nonché alla stipulazione degli accordi contrattuali di cui all’articolo 8 quinquies»” (12).

Per legge, quindi, nei servizi sanitari e socio-sanitari vi è corrispondenza tra:

• realizzazione di strutture sanitarie ed esercizio di attività sanitarie e autorizzazione;

• esercizio di attività sanitarie per conto del servizio sanitario pubblico e accreditamento;

• remunerazione dei servizi a carico del fondo sanitario pubblico e accordo contrattuale.

Alla luce dei provvedimenti legislativi più significativi rispetto all’istituto trattato, appare abbastanza evidente che – fino all’approvazione di specifici indirizzi regionali in materia – il concetto e le regole fondamentali dell’accreditamento per i servizi sanitari e socio-sanitari non possono non valere anche per quelli “sociali a rilevanza sanitaria” (che si espletano proprio nell’ambito dell’area socio-sanitaria).

In questa chiave di lettura l’istituto dell’accreditamento/concessione consente di coniugare efficacemente il principio di sussidiarietà – che prevede il coinvolgimento del terzo settore nella programmazione e nella gestione dei servizi – con la necessità di affermare che la titolarità – e quindi la responsabilità – dei servizi preposti ad erogare prestazioni di livello essenziale deve rimanere pubblica (13). La concessione è infatti uno strumento che garantisce, all’Amministrazione locale, penetranti poteri di intervento, specie in merito ai criteri gestionali generali, nei confronti dei soggetti privati chiamati ad espletare i servizi non gestiti direttamente dalla struttura pubblica.

Nella concessione di pubblico servizio il concessionario – al quale vengono trasferite potestà pubbliche – sostituisce la pubblica amministrazione nell’erogazione del servizio, ossia nello svolgimento dell’attività diretta al soddisfacimento dell’interesse collettivo (14). Non è così nel caso dell’appaltatore che svolge un’attività economica a beneficio del committente pubblico o nel caso del soggetto “autorizzato” che -– pur svolgendo la sua attività economica a beneficio degli utenti – non è individuabile come organo indiretto dell’amministrazione.

Altro elemento importante che caratterizza la concessione è che il concessionario assume su di sé il rischio della gestione dell’opera o del servizio, in quanto si remunera, almeno per una parte significativa, presso gli utenti, mediante la riscossione di un prezzo. Prezzo che viene determinato secondo criteri fissati, dall’Amministrazione concedente, in sede di espletamento delle procedure di selezione ad evidenza pubblica per l’affidamento della concessione dei servizi.

In ciò la concessione non si discosta – nella sostanza – dal sistema di remunerazione indicato nella legge 328/2000 che prevede che siano i Comuni:

• a corrispondere ai soggetti accreditati tariffe per le prestazioni erogate nell’ambito della programmazione regionale e locale;

• a concedere, su richiesta dell’interessato, di titoli validi per l’acquisto di servizi sociali dai soggetti accreditati.

Occorre inoltre sottolineare una ulteriore prerogativa dell’istituto: la possibilità di collegare gestione dei servizi ed esecuzione di lavori. Nel senso che laddove la gestione di un’opera sia strumentale alla sua costruzione – in quanto consente il reperimento dei mezzi finanziari per realizzarla – è configurabile la fattispecie della “concessione di costruzione ed esercizio”, mentre nel caso in cui l’espletamento di lavori pubblici sia strumentale – sotto il profilo della manutenzione e dell’implementazione – alla gestione di un servizio pubblico, il cui funzionamento è già assicurato da un opera esistente, è configurabile la “concessione di servizi”.

In entrambi i casi lo strumento della concessione rappresenta una opportunità per le Amministrazioni locali che intendano promuovere l’insediamento, sul proprio territorio, di servizi – semiresidenziali e residenziali – che richiedono l’edificazione o la ristrutturazione di locali. Non sempre, infatti, sono presenti in ambito locale dei servizi “accreditabili” ed è nota la difficoltà, per i Comuni, di reperire le risorse necessarie alla costruzione, ristrutturazione e manutenzione delle strutture.

È ancora il caso di osservare che, attraverso l’esercizio dell’opzione di collegare gestione dei servizi ed esecuzione di lavori da parte dei comuni, è possibile concretizzare il disposto dall’articolo 3, comma 2, lettera b) della legge 328/2000 che prevede – come si è detto precedentemente – l’esercizio, a livello locale, della programmazione degli interventi e delle risorse secondo il principio della concertazione e della cooperazione tra istituzioni locali e soggetti del privato sociale «che partecipano con proprie risorse alla realizzazione della rete».

Gli investimenti finanziari effettuati dai concessionari danno poi modo di prevedere contratti di concessione decisamente più lunghi rispetto agli appalti tradizionali e ciò rappresenta un ulteriore vantaggio per le imprese – che possono programmare meglio il proprio radicamento sul territorio – e, soprattutto, per gli operatori addetti ai servizi ai quali è potenzialmente assicurata una continuità di impiego.

Infine non va dimenticata la disciplina dell’aspetto dinamico della concessione di servizi sociali (15). La norma, di fatto, stabilisce che, esercitando quei poteri di supremazia che sono tipici del rapporto di concessione, l’Amministrazione possa apportare variazioni alle caratteristiche del servizio – e dunque, al contenuto del contratto – durante il corso della concessione. In tal senso è necessario che vengano preventivamente definite le norme destinate a disciplinare proprio i momenti di revisione. Il carattere “incrementale” del contratto di concessione consente, dunque, di rispondere efficacemente all’esigenza di conferire dinamicità ed elasticità alle caratteristiche dei servizi in relazione all’esperienza fatta ed alle variazioni nei bisogni dell’utenza.

 

Conclusioni

Lo strumento della concessione rappresenta una importante opportunità per le Amministrazioni locali titolari di servizi a responsabilità pubblica che richiedono un investimento di risorse umane, progettuali e finanziarie per la predisposizione delle risposte ai bisogni espressi dalla comunità locale.

Per un efficace utilizzo di tale strumento occorre che le istituzioni locali adottino una metodologia di concertazione che consenta di attivare un sistema di regole e convenienze per tutti i soggetti in gioco (imprese sociali, operatori addetti ai servizi, utenti e loro rappresentanze) puntando alla realizzazione di ogni possibile sinergia.

Il compito richiesto alle Amministrazioni è di produrre, a livello locale, legami e relazioni che promuovano processi di sviluppo – economico ed occupazionale – anche attraverso l’ampliamento delle reti dei “servizi alla persona e alla comunità” indicati dal titolo IV del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112. Politiche di comunità, dunque, che attraverso la partecipazione favoriscano il “sentirsi parte di un insieme”, di una società civile con regole comuni, da tutti rispettate e condivise, atte a consentire una vita quotidiana più controllabile e gestibile.

Nelle relazioni di comunità è infatti la fiducia – che i cittadini ripongono in primo luogo nelle Amministrazioni locali – l’elemento cardine per costruire reti di umanità che consentano il passaggio dalle solidarietà corte alle solidarietà lunghe. E la fiducia è il bene relazionale che pone il sociale e le sue risposte alla portata delle persone e costituisce un orizzonte di senso per percorsi di vita significativi (16).

Si è detto che le leggi più recenti assumono inequivocabilmente la scelta della sussidiarietà. Sono dunque le istituzioni più vicine ai cittadini ad essere chiamate, per prime, ad adottare strumenti e procedure di raccordo e di concertazione, anche permanenti, per dare luogo a forme di cooperazione con gli organismi non lucrativi di utilità sociale, il volontariato e l’associazionismo di promozione sociale. Ed è sempre ad esse che spetta il compito di regolamentare, nell’ambito della comunità locale, il rapporto tra diritti e doveri.

Occorre però che tutti i soggetti attivi della comunità amministrata concorrano a produrre le risorse necessarie ad assicurare, a livello locale, la necessaria giustizia sociale. Lo sviluppo di un’etica della responsabilità è infatti condizione necessaria perché i diritti siano esigibili per tutti ma ognuno fruisca di ciò che è disponibile tenendo conto dei suoi reali bisogni e delle sue personali risorse. In buona sostanza che non si inventino i bisogni né si nascondano le risorse proprie per appropriarsi di quelle pubbliche.

Bisogna favorire la crescita della comunità locale aiutandola a riconoscere e selezionare le proprie necessità e bisogni, stimolando la partecipazione e facendo crescere le risorse locali e la responsabilizzazione dei cittadini nella programmazione e verifica dei servizi. Bisogna rivitalizzare ed incoraggiare la responsabilità delle persone singole o aggregate affinché queste si possano esprimere autonomamente, nella convinzione che quello che accade è responsabilità di tutti.

«Sapere quali sono i propri diritti non vuol dire ignorare i doveri. Significa, invece, avere presente un serio e onesto quadro di riferimento per la propria vita individuale, familiare e sociale. Per poter difendere le esigenze personali e quelle delle persone in difficoltà è indispensabile, altresì, essere in grado di valutare obiettivamente i contenuti di una legge, di un regolamento, di una circolare, di una deliberazione» (17).

Conoscere quali sono le prestazioni dovute ai cittadini – ed in particolare a quelli che non sono in grado di auto difendersi – è una condizione obbligatoria per i gruppi di volontariato che operano, nell’ambito della comunità locale, per ottenere il rispetto delle esigenze fondamentali delle persone in difficoltà.

Ma districarsi nella foresta delle disposizioni di legge, orientarsi nell’intrico delle istituzioni pubbliche e private per accertarne la reale competenza ad intervenire non è facile nemmeno per gli addetti ai lavori. Pertanto è necessario adottare un metodo che consenta alle associazioni locali di acquisire – se necessario con l’aiuto di esperti – una adeguata conoscenza degli aspetti fondamentali dei problemi e gli elementi occorrenti per muoversi in modo corretto e tempestivo.

Vi è infatti l’esigenza imprescindibile che tali forze sociali vengano messe in condizione di avanzare proposte concrete che rispondano il più compiutamente possibile alle esigenze dei cittadini, dei nuclei familiari, della comunità locale. Inoltre è necessario che le organizzazioni rappresentative dell’utenza siano anche in grado di fornire una tempestiva ed esauriente consulenza a terzi (persone, enti pubblici e privati), nonché di assumere la difesa dei singoli individui a cui sono stati negati o violati diritti.

 

 

* Direttore del Cisap (Consorzio intercomunale dei servizi alla persona tra i Comuni di Collegno e Grugliasco). In un prossimo articolo verranno segnalate le esperienze realizzate mediante la concessione di pubblici servizi.

(1) Legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1: “Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni”.

(2) Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3: “Modifiche al titolo V della parte II della Costituzione”.

(3) Città di Torino, Nuovo ordinamento amministrativo e principio di sussidiarietà, dispense di Francesco Pizzetti.

(4) Legge 8 novembre 2000, n. 328: “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”.

(5) A tali conclusioni giunge lo stesso Ministero del lavoro e delle politiche sociali che, in un documento sul tema, afferma: «Per quanto riguarda le politiche sociali lo Stato è, dunque, chiamato, a norma della lett. m) del II comma dell’art. 117 Cost., a stabilire quali siano i livelli essenziali delle prestazioni assistenziali (di seguito Lep) sulla scorta di quanto già stabilito dalla legge 328/2000, che continua a costituire un importante punto di riferimento per il settore ma che pure chiede di essere rivisitata e integrata sia per la sua natura di legge quadro (oggi non più compatibile con l’attribuzione alle Regioni della competenza esclusiva in materia) sia per la struttura programmatoria (e non definitoria) dello strumento di azioni e di interventi ivi previsti. In altre parole, la legge 328 – in quanto approvata nel precedente impianto costituzionale, tutto imperniato sulla determinazione dei principi (da parte dello Stato) e sulla specificazione dei dettagli (da parte delle Regioni) – si limita a porre i presupposti (principi) che permettono di giungere ad una garanzia delle posizioni giuridiche soggettive implicate nella definizione delle prestazioni assistenziali, condizionando come è noto la concreta erogazione delle stesse (dettaglio) alle scelte degli enti locali, che risultano a loro volta condizionate dalle relative disponibilità finanziarie. Quanto viene invece richiesto dalla nuova norma costituzionale – e forse ancor di più dal contesto generale nel quale essa si inserisce – è una vera e propria definizione dei livelli essenziali delle prestazioni da parte dello Stato e non più solo una programmazione degli stessi. Tale norma si prefigge infatti di garantire quel nucleo duro di prestazioni che costituiscono il fattore unificante della cittadinanza sociale contro il rischio di una frammentazione della stessa nelle diverse parti del territorio nazionale». Ministero del lavoro e delle politiche sociali, “I livelli essenziali delle prestazioni nel settore dell’assistenza”, Prospettive sociali e sanitarie, n. 1, 2005.

(6) Con l’approvazione del Decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155 “Disciplina dell’impresa sociale, a norma della legge 13 giugno 2005, n.118” vengono abilitate a svolgere attività di “utilità sociale” anche le “imprese sociali” ovvero «tutte le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice civile, che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale, e che hanno i requisiti di cui agli articoli 2, 3 e 4». Per attività principale «si intende quella per la quale i relativi ricavi sono superiori al settanta per cento dei ricavi complessivi dell’organizzazione che esercita l’impresa sociale». Si tratta di soggetti che – a differenza delle cooperative sociali – possono operare non solo nei servizi socio-sanitari ed educativi o finalizzati all’inserimento di persone svantaggiate, ma in una area più ampia. Nell’articolo 2 del decreto vengono infatti definiti “beni e servizi di utilità sociale” quelli prodotti o scambiati nei seguenti settori: assistenza sociale; assistenza sanitaria; assistenza socio-sanitaria; educazione, istruzione e formazione; tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; valorizzazione del patrimonio culturale; turismo sociale; formazione universitaria e post universitaria; ricerca ed erogazione di servizi culturali; formazione extrascolastica; servizi strumentali alle imprese sociali. Inoltre una parte dei ricavi dell’attività delle “imprese sociali” può derivare anche da attività svolte in settori diversi da quelli indicati dal Decreto purché venga rispettata la condizione della “attività principale” .

(7) Legge 8 novembre 1991, n. 381 “Disciplina delle cooperative sociali”.

(8) Giova ricordare che la legge 328/2000 – ponendo il limite delle risorse finanziarie e patrimoniali disponibili alla programmazione ed organizzazione del sistema integrato – non assicura l’esigibilità del diritto a beneficiare degli interventi e servizi sociali definiti nei livelli essenziali delle prestazioni, ma si limita ad assumere il criterio della priorità di accesso per i soggetti più fragili (articolo 2, comma 3).

(9) Studio Come s.r.l., Welfare del cittadino. Piccolo manuale organizzativo delle politiche e dei servizi sociali, Roma, 2001.

(10) Luca Fazzi e Cristiano Gori, Il voucher e il quasi mercato in La riforma dei servizi sociali in Italia a cura di Cristiano Gori, Carocci Editore, Roma, 2004, pag.173.

(11) Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267: “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”.

(12) Franco Dalla Mura, Pubblica amministrazione e non profit, Carocci Faber, Roma, 2003, pag. 150.

(13) Il dettato dell’articolo 113 del decreto legislativo 267/2000 – prevedendo la concessione tra le varie forme di gestione dei servizi pubblici locali – dà facoltà ai Comuni, attraverso il rilascio della concessione, di trasferire ad un soggetto privato non la titolarità del servizio, che rimane comunque all’ente pubblico, ma il suo esercizio doveroso.

(14) Angelo Massari, Appalti e contratti, Maggioli Editore, Bologna, pag. 72.

(15) Franco dalla Mura, op. cit., pag. 90.

(16) Sergio Dugone, “Dallo stato assistenziale alla comunità solidale”, Politiche sociali, n. 6, 1999.

(17) Roberto Carapelle, Giuseppe D’Angelo, Francesco Santanera, A scuola di diritti, Utet Libreria, Torino, 2005.

 

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