Prospettive assistenziali, n. 156, ottobre - dicembre 2006

  

LA RIVOLTA DEI FIGLI DELLO STATO

Emilia de rienzo

 

 

«Le ciliegie rosse erano i segni che i sorveglianti lasciavano sui bambini quando li percuotevano con i pomelli degli appendiabiti in legno. (…) Come sempre, anche questa volta tutto seguì un rituale preciso. I bambini si allinearono ai piedi dei loro letti, si tirarono su la camicia da notte e si abbassarono le mutandine», ma quella volta Howie se la fece addosso. L’infermiera ordinò allora a quattro bambini di seguirla, prese una grande zuppiera di metallo e ordinò loro di urinarci dentro. «A quel punto, gettò sul volto di Howie il tiepido contenuto della zuppiera. L’urlo del bambino risuonò attraverso le mattonelle del bagno rimbalzando per le pareti della camerata» (1).

Questa era una delle tante terribili punizioni usate nell’area suburbana di Boston nell’istituto statale Fernald dove venivano rinchiusi i ragazzi classificati come “insufficienti mentali”.

I “sorveglianti” erano per la maggior parte cerberi, sadici, inclini a un inventivo ventaglio di punizioni: James McGinn – il loro prototipo – alternava colpi di mestolo sul cranio, strattoni ai testicoli, costrizioni di postura (stare, per esempio, in equilibrio sulla rete del letto colla pressione sui tendini rotulei); mentre la più metodica Phyllis l’Antiqua si avvicinava in silenzio alle vittime colpendole con schiaffi improvvisi o con percussioni simmetriche alle orecchie. Quanto ai compagni, nel gruppo vigeva una gerarchia: al vertice i “Capi” – spesso i ragazzi più problematici sul piano psicosociale – e al fondo i “Tonti”, gli insufficienti mentali più gravi.

L’istituto statale aveva la classica connotazione delle “istituzioni totali”: c’era il Reparto 1, con camerate grandi come campi da tennis con trentasei letti staccati l’uno dall’altro di mezzo metro (alla lunga, il sovraffollamento porterà a cinquanta letti incastrati come mattoni di un lego); il Reparto 22 era quello che i reclusi più temevano perché il  più punitivo, con celle d’isolamento e strutture adibite alla sperimentazione neurochirurgica e all’elettroshock; l’Edificio Nord o “fossa dei serpenti” era un plesso dal pavimento incurvato con un centinaio di degenti nudi – anziani gravemente disabili – usato occasionalmente come alternativa al Reparto 22 per piegare gli indisciplinati, costringendoli a pulire le feci e l’urina dai muri o dalle piastrelle; e infine la Stanza Blu, vano di docce per lavare quei corpi dalle loro emissioni incontrollate.

L’istituto Fernald non era l’unico negli Stati Uniti, un altro centinaio di istituti hanno confinato per decine di anni centinaia di migliaia di bambini americani colpevoli di essere giudicati insufficienti mentali. Le teorie di Darwin sulla selezione naturale, il conseguente rinnovato interesse nei riguardi degli studi sui geni di Gregor Mendel, diedero a molti studiosi le basi scientifiche per affermare che i tratti umani come l’intelligenza, il carattere e la moralità avevano radici biologiche: niente avrebbe, quindi, potuto trasformare quei ragazzi in futuri individui indipendenti, ma ancora peggio essi avrebbero costituito un serio pericolo per la comunità se avessero potuto condurre una vita libera in mezzo agli altri: avrebbero potuto procreare soggetti mentalmente deboli destinati a diventare un peso per la società. Bisognava quindi pensare alle generazioni future e mettere quei bambini “sotto la tutela” dello Stato.

Nei primi anni del Novecento, ben prima che in Germania, nasceva, quindi, negli Stati uniti d’America un vero e proprio movimento eugenetico che svolgeva campagne pressanti per segregare e allontanare dalla comunità bambini che, in quanto portatori di un handicap intellettivo, erano considerati inadatti alla prolificazione poiché potevano indebolire la razza.

Una volta reclusi, i ragazzi furono sottoposti all’isolamento, al sovraffollamento, ai lavori forzati e a regolari abusi fisici tra i quali vanno ricordati la lobotomia, l’elettroshock e la sterilizzazione chirurgica.

Parallelamente il movimento sollecitava le donne bianche dei ceti medi e superiori (il cui tasso di natalità era sceso del 50%) a formare famiglie più numerose. Theodore Roosevelt stesso dichiarò che l’America aveva bisogno di una razza con «buoni fecondatori e ottimi combattenti».

Uno studioso in Francia quasi autodidatta, Alfred Binet,  studiò proprio in quei tempi un apposito strumento, sotto forma di test, per individuare i bambini che avevano difficoltà di apprendimento. Il test valutava il cosiddetto “Quoziente intellettivo” (Qi). Il Quoziente 100 era la linea di demarcazione che divideva i “migliori” (quelli che lo superavano) dai “peggiori” (quelli che non lo raggiungevano).

In America Lewis Terman, professore all’Univer­sità di Standford, trovò il modo per usarlo. Egli realizzò una serie di studi su un campione diviso per gruppi etnici diversi.

Ne risultò che gli americani non immigrati ottenevano i punteggi migliori, seguiti dai nord-europei, gli italiani, i portoghesi e gli spagnoli. In questi studi egli trovò il sostegno “scientifico” alla sua teoria: l’intelligenza era un carattere ereditario, definito come il colore degli occhi: nessun metodo o approccio educativo avrebbe potuto mutare questo dato di fatto.

La creazione della categoria debole di mente come pericolo pubblico e di un test per la misurazione del Qi che permetteva di fare questa diagnosi specifica, mise in moto una vera e propria macchina. I funzionari statali iniziarono a invitare i tribunali, le agenzie sociali e la polizia a segnalare loro i sospetti deboli di mente, per poterli sottoporre al test diagnostico e internare i più deboli nelle scuole apposite, gli insegnanti delle scuole normali sarebbero state sollevate dal peso rappresentato dagli studenti più difficili.

Molti di questi ragazzi e ragazze furono separati dalle proprie famiglie da funzionari che cercavano di convincere i genitori che un istituto statale avrebbe offerto ai loro figli il miglior futuro possibile. I genitori che non accettavano volontariamente l’affidamento del proprio figlio a queste scuole, spesso, perdevano la sua custodia in tribunale.

«Quando sorgeranno colonie di questo genere in tutti gli Stati dell’Unione, e migliaia di deficienti, uomini e donne, saranno riuniti al loro interno, potremo finalmente dire di esserci incamminati sulla via che porta alla risoluzione della più alta emergenza sociale moderna: il totale controllo e la presa in cura di deficienti». Così sostenevano i fautori di questo movimento.

E quando la soluzione istituzionale non poteva, per i costi economici, essere pienamente realizzata, si provvedeva con una campagna di sterilizzazione di giovani donne che potevano essere liberate nel mondo esterno senza correre il rischio di sovraffollamento.

Ci fu, però, chi cominciò a confutare le basi scientifiche dell’eugenetica con esperimenti che mostravano come le cosiddette deficienze non si trasmettessero così automaticamente di generazione in generazione e si cominciò a mettere in luce l’importanza dell’ambiente sullo sviluppo umano. La storia di due orfane diagnosticate inizialmente come “imbecilli” con punteggi di 35 e di 46, una volta inserite in un istituto dello Iowa a contatto con donne più anziane e più brillanti impararono velocemente a parlare e camminare e dopo un anno il Qi si era normalizzato. Gli esperimenti in questo senso si moltiplicarono e i risultati li portarono a concludere che «uno stretto legame d’amore e di affetto tra un dato bambino e uno o due adulti» può far uscire il bambino dall’area di definizione della debolezza mentale. Ma se era vero questo, era vero anche il contrario. «Bambini di intelligenza normale possono diventare mentalmente ritardati se inseriti in ambiente non stimolante».

Questo non servì, però, a far arretrare il movimento eugenista che fece adepti anche in Europa e in particolare in Germania.  Dopo l’avvento al potere dei nazisti, nel 1933, i funzionari tedeschi ospitarono regolarmente eugenisti americani per scambiare opinioni in merito. Nel New England Journal of Medicine erano apparsi interventi a favore dei programmi nazisti e gli editori del giornale scrissero: «La Germania è forse la nazione più progressista nei programmi della fecondità tra i disadattati».

Dobbiamo ricordare che, come documentarono più tardi gli inquirenti, l’Olocausto iniziò proprio con l’uccisione di migliaia di uomini e di donne disabili, inclusi i cosiddetti deboli di mente. Furono uccisi in stanze progettate in modo da sembrare delle normali docce collettive, ma attrezzate per immettere nell’ambiente gas di scarico di automobili. Queste camerate erano i prototipi delle più efficienti stanze di sterminio che sarebbero state usate per eliminare milioni di individui. Dobbiamo anche notare, con un certo rammarico, che ancora oggi essi non compaiono nelle commemorazioni della shoa in Germania, quasi non fossero essi stessi, come gli ebrei, degni di memoria.

Solo più tardi, quando l’opinione pubblica venne a conoscenza dell’orrore delle politiche razziali, gli eugenisti statunitensi cercarono di minimizzare i loro legami con il Reich. Il risultato fu che sparì la parola “eugenetica”, ma non i programmi creati sotto questo nome. Si continuarono a cercare i cosiddetti deboli mentali, aumentò il numero degli istituti, la pratica della sterilizzazione continuò senza sosta. Il numero di bambini rinchiusi continuava a crescere e gli edifici cominciavano a soffrire per il sovraffollamento. Il dissenso verso questa politica era scarso; molti, invece, ne traevano vantaggio: i casi problematici erano scaricati negli istituti. Nel 1949 nella nazione c’erano 84 istituti che ospitavano un totale di 150 mila bambini, altre 25 scuole erano in costruzione. E se qualche ragazzo crescendo si dimostrava un ragazzo intelligente e capace, era ugualmente trattenuto nella scuola che aveva la necessità di prestazioni lavorative non retribuite come custodi, guardiani, giardinieri, cuochi, ecc.

Questi bambini nel 1967 erano diventati 270 mila. Oggi la maggior parte degli istituti americani ha chiuso i battenti, ma i minori ricoverati sono ancora 47 mila.

Per anni hanno subito il più terribile degli abusi: sono stati dimenticati, ignorati, cancellati.

Il libro La rivolta dei figli dello Stato ha colmato almeno in parte questa lacuna. Michael D’Antonio raccoglie la storia drammatica e minuziosamente ricostruita di un gruppo di ragazzi rinchiusi nella scuola statale di Fernald, nel Massachusetts, che si ribellarono ai loro carcerieri e riconquistarono la libertà. Il filo conduttore è la storia di Freddie Boyce, entrato a sette anni nel `49 e uscito nel `60 dopo essersi, insieme ad altri ragazzi, ribellato con coraggio e determinazione.

Gli eventi descritti in questo libro sono stati avvalorati da innumerevoli ricerche tra cui numerose interviste alle persone coinvolte nei fatti, le note redatte dai sorveglianti dell’epoca, i registri dei singoli individui sotto la tutela dello Stato e i rapporti scritti dai funzionari del Commonwealth del Massachussetts.

Il libro racconta il calvario di quei ragazzi, la loro reclusione durata più di vent’anni e poi finalmente la loro rivolta continua, tenace fino alla liberazione: questi figli dello Stato sono riusciti a testimoniare l’incubo che hanno vissuto, sono riusciti a superare il trauma di un’infanzia negata dai giardini della scienza: da quella scienza che negli Usa, terra della libertà, ha nascosto quegli stessi esperimenti che il mondo aveva condannato all’epoca del nazismo.

Questo libro ci ha rivelato che gli Stati Uniti d’America hanno praticato l’eugenetica, l’hanno teorizzata e praticata per molti anni.

Molti bambini ce l’hanno fatta: benché sottoposti a radiazioni o a vaccinazioni testate su di loro come fossero cavie da laboratorio. Molti altri sono morti: non hanno resistito al progresso della scienza. Quella stessa scienza che, dietro a nomi che ancora oggi vantano grande credibilità nel mondo accademico (come il famoso Mit, Massachussets Institute of Technology, di Boston), lobotomizzava alcuni di questi bimbi tagliando loro “fettine” di cervello da analizzare per studiare gli effetti degli alimenti radioattivi.

La denuncia di questa pagina buia degli Stati Uniti arriva tardiva e arriva perché qualcuno si è ribellato, ha potuto e avuto la forza di ribellarsi. Il messaggio dell’autore del libro è chiaro, ma non ci risulta che né in America né qui in Italia ci sia stata una parola di sdegno. Eppure per 50 anni medici e burocrati del servizio sanitario degli Stati Uniti d’America hanno applicato ai bambini di quegli istituti i principi dell’allevamento del bestiame: isolare ed eliminare i ceppi di qualità inferiore.

Per anni la scienza ha avvallato pratiche che hanno privato molte persone di una vita degna di questo nome, se non della vita stessa. La storia riporta spesso episodi di abusi, ma quando questo è accaduto in una società democratica che si è spesso battuta per i diritti dell’uomo, ci aspetteremmo il riconoscimento dell’ingiustizia, l’impegno a correggere il mal fatto, il risarcimento non in denaro (come solo in parte è stato fatto), ma in termini di politiche sociali che sostengano i più deboli e non viceversa.

Ma la domanda che ci dobbiamo porre è anche dov’era la gente? Nessuno si era mai accorto di quello che stava succedendo?

Il poeta polacco Czeslaw Milosz, a proposito, del ghetto di Varsavia fa questa considerazione: «Nel comportamento della gente di Varsavia nei confronti del ghetto c’è stato odio, commiserazione, vergogna, antisemitismo. Ma su tutto ha troneggiato una sventata indifferenza. Quelle giostre piene di gente che volteggiava nel fumo del ghetto in fiamme lì accanto, non erano la dimostrazione di alcun antisemitismo, erano la completa indifferenza verso il destino dei propri vicini».

In tutti i tempi barriere e distinzioni hanno consentito discriminazioni e meccanismi di segregazione. Da una parte quelli considerati degni di appartenere al mondo civile, dall’altra gli altri. Questa separazione e questa distanza nella storia hanno reso possibili le peggiori crudeltà. Sicuramente la Shoa è ricordata come una delle peggiori.

Gli ebrei tenacemente  sono riusciti a rinnovare la memoria di una pagina della nostra storia che non va e non deve essere dimenticata, perché non si ripeta mai più.

Grossman in un articolo che si riferiva all’olocausto degli ebrei ha detto che quel che è accaduto nella Shoa non può essere riassunto in un discorso.

Deve restare per sempre muto, come una bocca aperta in un grido… Il grido esprime un dolore che non ha parole per essere espresso, ma se abbiamo orecchie per sentire risuona dentro di noi e chiede riscatto.

Il dolore di uomini, donne, bambini non si può riassumere in un discorso celebrativo, ma si fa evidenza nei tanti racconti che hanno reso quelli che hanno vissuto nei campi di concentramento. La shoa l’hanno raccontata con molta più efficacia Primo Levi, Wiesel e tanti altri scrittori e tante tante altre persone. Dal giorno della loro liberazione non hanno mai smesso di rievocare la loro esperienza nei libri, nelle scuole, nelle assemblee pubbliche. Una catena infinita di racconti che sono arrivati fino a noi perché non si dimenticasse, per rendere partecipi, per mobilitare le coscienze, ma soprattutto per affermare il diritto di ogni uomo nella sua singolarità ed unicità a vivere una vita degna di questo nome. Una catena infinita di racconti perché si sappia che dietro ogni evento storico, ogni statistica si nascondono le sofferenze, i vissuti di individui, di persone: non un’unica sofferenza, ma tante sofferenze,  vissute  individualmente  da  ogni  essere  umano.  Il dolore  non  è  comunicabile,  ma  l’esperienza  del  dolore  sì.

Io credo che con la stessa tenacia e volontà noi dovremmo far venire alla luce la storia di tutte quelle persone a cui è stato impedito di “vivere”, di godere degli stessi diritti degli altri. In particolare mi riferisco a quanti hanno vissuto per esempio negli istituti e la cui reclusione è stata avvallata spesso dalla scienza e da quella commiserazione, da “quell’altruismo  astratto che è troppo facile oggetto di generica benevolenza e pie intenzioni”.

Nel libro Il paese dei celestini Bianca Guidetti Serra e Francesco Santanera (2) riportano e commentano i processi nei confronti dei responsabili di numerosi istituti ed enti avvenuti tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, denunciando quanto segue: «Gli scandali esistono, ma non si limitano a un’episodica che, se staccata dal contesto generale, avrebbe solo un limitato, se pur grave, significato e forse consentirebbe facili rimedi. Un cosiddetto educatore che isolatamente compie violenze contro un fanciullo può essere allontanato e punito; uno speculatore o un truffatore condannato e dimesso dal suo incarico. Occorre invece risalire alla radice del fenomeno dell’infanzia abbandonata ed esclusa, che trae origine dalla strutturale disuguaglianza della nostra società, dalla disparità di condizioni socio-ambientali ed economiche che favoriscono gli uni rispetto agli altri fin dalla nascita e, prima ancora, dalla selezione a favore dei sani, degli intelligenti, dei belli a danno degli infermi e dei carenti. Selezione che colloca le caratteristiche della persona in una scala di valori già di per sé iniqua e crudele, ma tanto più tale perché favorisce coloro che hanno potuto fruire di apporti che altri non hanno avuto.

«I “celestini”, e diamo a questo termine un significato simbolico, nasceranno sempre nelle classi povere o poverissime, dove l’insufficienza di cibo si manifesta spesso in termini di fame; dove i più elementari interventi igienico-sanitari sono insufficienti se non assenti; dove l’istruzione, anche quella dell’obbligo, è ancora privilegio. “Celestini” soli per la morte precoce dei genitori perché non li hanno mai conosciuti; soli per l’asocialità degli stessi, discendente a sua volta da un’eredità di manifestazioni patologiche non prevenute e non curate, da ignoranza non corretta da una scuola sostanzialmente formatrice ed uguale per tutti, dall’inattività conseguente alla mancanza di lavoro e di preparazione ad esso. Lo “scandalo” primo e vero sta quindi nel fatto che i “celestini” esistano e che se ne creino di continuo. Ma vi è un secondo aspetto del fenomeno: il modo con cui si soddisfa o si finge di soddisfare ai “bisogni” di questi fanciulli.

«Una società come la nostra, che si vuole rispettosa dei diritti della persona, rifiuta, è ovvio, l’eliminazione diretta come avveniva in culture del passato. Ma le soluzioni adottate sono spesso solo in apparenza meno crudeli; tra queste, la più frequente è quella del “collegio” o “istituto”. Si riuniscono, cioè, in una collettività chiusa, quasi di necessità a regime autoritario, numerosi, anzi per lo più numerosissimi fanciulli, che nessuno vuole perché portatori di un handicap fisico, psichico o sociale (3).

«“Tego, colligo, nutro”, stava scritto sul frontone di molte istituzioni medievali. Ti diamo un tetto, ti uniamo ai tuoi simili, ti nutriamo, e il gioco è fatto. Ma il Medioevo non è terminato.

«Il metodo, diffuso e fiorente, raccoglie gli esclusi per escluderli ed è utile a placare le false coscienze; ma giova ai fanciulli che ne subiscono gli effetti? Privati delle esperienze più naturali, estraniati dai problemi reali, inseriti in una comunità artificiosa porteranno in modo indelebile il segno di questa loro esperienza. E, non sempre, la loro integrità fisica e la loro sopravvivenza ne saranno garantite» (4).

Gli istituti, con le loro logiche disumanizzanti, sono stati presenti per molti anni in Italia. Al 31 dicembre 1967, i 105 brefotrofi assistevano in allevamento interno 7141 minori (lattanti, divezzi e bambini) e in allevamento esterno 69.245 (fra lattanti, divezzi e bambini). A questi vanno aggiunti i 48.863 ricoverati nei 978 istituti per orfani e i 40.877 ricoverati negli altri istituti per un totale di 89.740. E ancora i 18.131 minori poveri o senza famiglia e altri 67.789 presenti in altri istituti (5). L’istituzionalizzazione veniva praticata nonostante numerosissime ricerche scientifiche, condotte in Italia e all’estero, avessero dimostrato i notevoli danni che subivano i minori privi di cure familiari.

La legge 149/2001 ha stabilito che «il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia».

Come ha rilevato l’Anfaa nella lettera aperta inviata ai ministri per la famiglia e per la solidarietà sociale: «La Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano cui era demandata l’individuazione dei criteri in base ai quali le Regioni dovevano provvedere alla definizione degli standard minimi delle comunità di tipo familiare e degli istituti, ha prodotto a questo proposito in data 28 febbraio 2002, un decreto. Purtroppo questo decreto si è limitato a prevedere per i minori comunità di tipo familiare e gruppi appartamento, inseriti nelle normali case di abitazione con un numero di utenti che non può essere superiore a sei (articolo 3) e strutture a carattere comunitario con un massimo di dieci posti letto più due per le eventuali emergenze (articolo 7). Non ha precisato nient’altro, neppure che queste strutture non devono essere accorpate tra di loro per evitare – come avviene ad esempio, nella Regione Lombardia – che strutture quali i Villaggi Sos siano  classificate come “comunità” oppure possano sopravvivere istituti come l’istituto Mamma Rita di Monza che è organizzato in tanti gruppi appartamento ed autorizzato dalla Provincia di Milano a ospitare fino a 130 minori! Ci sono insomma purtroppo tutte le premesse perché il superamento degli istituti entro il 2006 si realizzi a livello nazio­-nale attraverso una riorganizzazione interna degli stessi».

Ormai è chiaro che vivere in un istituto è come appartenere ad un altro mondo (ma lo stesso può succedere nelle comunità alloggio), è come essere invisibili, inesistenti sotto il profilo giuridico e politico, esposti alle tendenze della storia e soprattutto alla volontà degli altri. Non sei un “chi” ma un “che cosa”.

Roberto e Piero hanno raccontato in Anni senza vita al Cottolengo (6) la loro storia e l’esperienza di tanti anni vissuti al Cottolengo. Ne traggo solo un passo: «Un mio ricordo di bambino – dice Roberto che mi accompagnerà per tutta la vita, come segno indelebile di un bambino istituzionalizzato. Un ricordo di un corridoio lungo, senza fine. Mura alte. Lo sguardo che si perde. Bambini seduti in fila, uno a fianco all’altro, su degli alti seggioloni, il vasino sotto, per fare i propri bisogni, in cui fetore cessava solamente la sera. Tutti giorni, era come un’impronta indelebile sui nostri corpi e pensieri che battezzano la consapevolezza d’essere rifiuti umani. Nessuno che ti sorride, nessuno che ti chiama: ognuno chiuso nel suo mondo. Bambini tutti uguali dentro tanti grembiulini a righe. Qualcuno emette un lamento: non è un pianto, è l’espressione di un dolore non riconosciuto. Qualcuno dondola: su e giù, su e giù, un movimento ritmico sempre uguale. Il dondolio tipico dei bambini abbandonati. Sei anni ho vissuto su quel seggiolone, senza mai giocare, parlare, scambiare nessun gesto di affetto né comunicare con nessuno».

Roberto e Piero si sono ribellati e hanno lottato per uscire dall’istituto e ricostruirsi una loro vita affrontando difficoltà e paure. Ma fanno di più, fondano un’associazione: “Mai più istituti d’assistenza” perché nessuno debba più vivere così come hanno vissuto loro nella consapevolezza come dice Bobbio «che i diritti dell’uomo, per fondamentali che siano, sono diritti storici, cioè nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro i vecchi poteri, gradualmente non tutti in una volta e non una volta per sempre» (7).

 

 

(1) Michael D’Antonio, La rivolta dei figli dello Stato, Fandango Libri, Roma, 2005. Michael D’Antonio è autore di numerosi libri di saggistica di grande successo tra i quali Atomic Harvest, Fall from Greece, Tin Cup Dreams e Mosquito. I suoi lavori sono apparsi anche sulle riviste Esquire, The New York Times Magazine, The Los Angeles Magazine e molte altre pubblicazioni. Come giornalista ha vinto il Premio Pulitzer con un’inchiesta apparsa sul quotidiano Newsday. Vive e lavora a Long Island.

(2) Guidetti Serra B. e Santanera F. (a cura di), Il paese dei celestini, Torino, Einaudi, 1973.

(3) Per fanciulli in stato di bisogno intendiamo coloro che sono portatori di handicap: sociale (mancanza, incapacità, assenza di genitori o di loro sostituti, disadattamento sociale, ecc.), fisico (minorazioni o infermità somatiche), psichico (minorazioni o infermità intellettive).

(4) Guidetti Serra B. e Santanera F. (a cura di), Op. cit.

(5) Istat, Annuario Statistico dell’Assistenza e della Previdenza Sociale, Istat, Roma, 1968.

(6) Emilia De Rienzo, Claudia Figueiredo, Anni senza vita al Cottolengo - Il racconto e le proposte di due ricoverati, Rosenberg & Sellier, Torino, 1991.

(7) Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, 1990.

 

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