Prospettive assistenziali, n. 156, ottobre - dicembre 2006
Emilia de rienzo
«Le ciliegie rosse erano i segni che i sorveglianti lasciavano sui bambini quando li percuotevano con i pomelli degli
appendiabiti in legno. (…) Come sempre, anche questa
volta tutto seguì un rituale preciso. I bambini si allinearono ai piedi dei
loro letti, si tirarono su la camicia da notte e si abbassarono le mutandine», ma quella volta Howie
se la fece addosso. L’infermiera ordinò allora a quattro bambini di seguirla,
prese una grande zuppiera di metallo e ordinò loro di urinarci dentro. «A quel punto, gettò sul volto di Howie il tiepido contenuto della zuppiera. L’urlo del
bambino risuonò attraverso le mattonelle del bagno rimbalzando per le pareti
della camerata» (1).
Questa era una delle tante terribili
punizioni usate nell’area suburbana di Boston nell’istituto statale Fernald dove venivano rinchiusi i
ragazzi classificati come “insufficienti mentali”.
I “sorveglianti” erano per la
maggior parte cerberi, sadici, inclini a un inventivo
ventaglio di punizioni: James McGinn
– il loro prototipo – alternava colpi di mestolo sul cranio, strattoni ai
testicoli, costrizioni di postura (stare, per esempio, in equilibrio sulla rete
del letto colla pressione sui tendini rotulei); mentre la più metodica Phyllis l’Antiqua si avvicinava in silenzio alle vittime
colpendole con schiaffi improvvisi o con percussioni simmetriche alle orecchie.
Quanto ai compagni, nel gruppo vigeva una gerarchia: al vertice i “Capi” –
spesso i ragazzi più problematici sul piano psicosociale – e al fondo i “Tonti”, gli insufficienti
mentali più gravi.
L’istituto statale aveva la
classica connotazione delle “istituzioni totali”: c’era il Reparto 1, con camerate grandi come campi da tennis con
trentasei letti staccati l’uno dall’altro di mezzo metro (alla lunga, il
sovraffollamento porterà a cinquanta letti incastrati come mattoni di un lego);
il Reparto 22 era quello che i reclusi più temevano perché il più punitivo, con celle d’isolamento e
strutture adibite alla sperimentazione neurochirurgica
e all’elettroshock; l’Edificio Nord o “fossa dei serpenti” era un plesso dal
pavimento incurvato con un centinaio di degenti nudi – anziani gravemente
disabili – usato occasionalmente come alternativa al Reparto 22 per piegare gli
indisciplinati, costringendoli a pulire le feci e l’urina dai muri o dalle
piastrelle; e infine
L’istituto Fernald
non era l’unico negli Stati Uniti, un altro centinaio di istituti
hanno confinato per decine di anni centinaia di migliaia di bambini americani
colpevoli di essere giudicati insufficienti mentali. Le
teorie di Darwin sulla selezione naturale, il conseguente rinnovato interesse
nei riguardi degli studi sui geni di Gregor Mendel, diedero a molti studiosi le basi scientifiche per
affermare che i tratti umani come l’intelligenza, il carattere e la moralità
avevano radici biologiche: niente avrebbe, quindi, potuto trasformare quei
ragazzi in futuri individui indipendenti, ma ancora peggio essi avrebbero
costituito un serio pericolo per la comunità se avessero potuto condurre una
vita libera in mezzo agli altri: avrebbero potuto procreare soggetti
mentalmente deboli destinati a diventare un peso per la società. Bisognava
quindi pensare alle generazioni future e mettere quei bambini “sotto la tutela”
dello Stato.
Nei primi anni del Novecento, ben
prima che in Germania, nasceva, quindi, negli Stati uniti d’America un vero e proprio movimento eugenetico che
svolgeva campagne pressanti per segregare e allontanare dalla comunità bambini
che, in quanto portatori di un handicap intellettivo, erano considerati
inadatti alla prolificazione poiché potevano
indebolire la razza.
Una volta
reclusi, i
ragazzi furono sottoposti all’isolamento, al sovraffollamento, ai lavori
forzati e a regolari abusi fisici tra i quali vanno ricordati la lobotomia, l’elettroshock e la sterilizzazione chirurgica.
Parallelamente il movimento
sollecitava le donne bianche dei ceti medi e superiori (il cui tasso di
natalità era sceso del 50%) a formare famiglie più numerose. Theodore Roosevelt stesso
dichiarò che l’America aveva bisogno di una razza con «buoni fecondatori e ottimi combattenti».
Uno studioso in Francia quasi
autodidatta, Alfred Binet, studiò proprio in
quei tempi un apposito strumento, sotto forma di test, per individuare i
bambini che avevano difficoltà di apprendimento. Il test valutava il cosiddetto
“Quoziente intellettivo” (Qi). Il Quoziente 100 era
la linea di demarcazione che divideva i “migliori” (quelli che lo superavano) dai “peggiori” (quelli che non lo raggiungevano).
In America Lewis
Terman, professore all’Università di Standford, trovò il modo per usarlo. Egli realizzò una
serie di studi su un campione diviso per gruppi etnici diversi.
Ne risultò
che gli americani non immigrati ottenevano i punteggi migliori, seguiti dai
nord-europei, gli italiani, i portoghesi e gli spagnoli. In
questi studi egli trovò il sostegno “scientifico” alla sua teoria:
l’intelligenza era un carattere ereditario, definito come il colore degli
occhi: nessun metodo o approccio educativo avrebbe potuto mutare questo dato di
fatto.
La creazione della categoria
debole di mente come pericolo pubblico e di un test per la misurazione del Qi che permetteva di fare questa diagnosi specifica, mise
in moto una vera e propria macchina. I funzionari
statali iniziarono a invitare i tribunali, le agenzie
sociali e la polizia a segnalare loro i sospetti deboli di mente, per poterli
sottoporre al test diagnostico e internare i più deboli nelle scuole apposite,
gli insegnanti delle scuole normali sarebbero state sollevate dal peso
rappresentato dagli studenti più difficili.
Molti di questi ragazzi e ragazze
furono separati dalle proprie famiglie da funzionari che cercavano di
convincere i genitori che un istituto statale avrebbe offerto ai loro figli il
miglior futuro possibile. I genitori che non accettavano volontariamente
l’affidamento del proprio figlio a queste scuole, spesso, perdevano la sua
custodia in tribunale.
«Quando sorgeranno colonie di questo genere in tutti gli Stati dell’Unione,
e migliaia di deficienti, uomini e donne, saranno riuniti al loro interno, potremo finalmente dire di esserci incamminati sulla via che
porta alla risoluzione della più alta emergenza sociale moderna: il totale
controllo e la presa in cura di deficienti». Così sostenevano i fautori di questo movimento.
E quando la soluzione
istituzionale non poteva, per i costi economici, essere pienamente realizzata,
si provvedeva con una campagna di sterilizzazione di giovani donne che potevano
essere liberate nel mondo esterno senza correre il rischio di sovraffollamento.
Ci fu, però, chi cominciò a
confutare le basi scientifiche dell’eugenetica con esperimenti che mostravano
come le cosiddette deficienze non si trasmettessero
così automaticamente di generazione in generazione e si cominciò a mettere in
luce l’importanza dell’ambiente sullo sviluppo umano. La storia di due orfane
diagnosticate inizialmente come “imbecilli” con punteggi di 35 e di 46, una
volta inserite in un istituto dello Iowa a contatto
con donne più anziane e più brillanti impararono
velocemente a parlare e camminare e dopo un anno il Qi
si era normalizzato. Gli esperimenti in questo senso si moltiplicarono e i
risultati li portarono a concludere che «uno stretto legame d’amore e di affetto tra
un dato bambino e uno o due adulti» può far uscire il bambino dall’area di
definizione della debolezza mentale. Ma se era vero
questo, era vero anche il contrario. «Bambini
di intelligenza normale possono diventare mentalmente
ritardati se inseriti in ambiente non stimolante».
Questo non servì, però, a far
arretrare il movimento eugenista che fece adepti anche
in Europa e in particolare in Germania. Dopo
l’avvento al potere dei nazisti, nel 1933, i funzionari tedeschi ospitarono
regolarmente eugenisti americani per scambiare opinioni in merito. Nel New England
Journal of Medicine erano apparsi interventi a
favore dei programmi nazisti e gli editori del giornale scrissero: «
Dobbiamo ricordare che, come
documentarono più tardi gli inquirenti, l’Olocausto iniziò proprio con
l’uccisione di migliaia di uomini e di donne disabili,
inclusi i cosiddetti deboli di mente. Furono uccisi in stanze progettate in
modo da sembrare delle normali docce collettive, ma attrezzate per immettere
nell’ambiente gas di scarico di automobili. Queste
camerate erano i prototipi delle più efficienti stanze di sterminio che
sarebbero state usate per eliminare milioni di individui.
Dobbiamo anche notare, con un certo rammarico, che ancora oggi essi non
compaiono nelle commemorazioni della shoa in Germania, quasi non fossero essi stessi, come
gli ebrei, degni di memoria.
Solo più tardi, quando l’opinione
pubblica venne a conoscenza dell’orrore delle
politiche razziali, gli eugenisti statunitensi cercarono di minimizzare i loro
legami con il Reich. Il risultato fu che sparì la
parola “eugenetica”, ma non i programmi creati sotto questo nome. Si
continuarono a cercare i cosiddetti deboli mentali, aumentò il numero degli
istituti, la pratica della sterilizzazione continuò
senza sosta. Il numero di bambini rinchiusi continuava a crescere e gli edifici
cominciavano a soffrire per il sovraffollamento. Il dissenso verso questa
politica era scarso; molti, invece, ne traevano vantaggio: i casi problematici erano scaricati negli istituti. Nel 1949 nella
nazione c’erano 84 istituti che ospitavano un totale di 150 mila bambini, altre
25 scuole erano in costruzione. E se qualche ragazzo
crescendo si dimostrava un ragazzo intelligente e capace, era ugualmente
trattenuto nella scuola che aveva la necessità di prestazioni lavorative
non retribuite come custodi, guardiani, giardinieri, cuochi, ecc.
Questi bambini nel 1967 erano
diventati 270 mila. Oggi la maggior parte degli istituti americani ha chiuso i
battenti, ma i minori ricoverati sono ancora 47 mila.
Per anni hanno subito il più
terribile degli abusi: sono stati dimenticati, ignorati, cancellati.
Il libro La rivolta dei figli dello Stato ha colmato almeno in parte questa
lacuna. Michael D’Antonio raccoglie
la storia drammatica e minuziosamente ricostruita di un gruppo di ragazzi
rinchiusi nella scuola statale di Fernald, nel
Massachusetts, che si ribellarono ai loro carcerieri e riconquistarono la
libertà. Il filo conduttore è la storia di Freddie Boyce, entrato a sette anni nel `49 e uscito nel `60 dopo
essersi, insieme ad altri ragazzi, ribellato con
coraggio e determinazione.
Gli eventi descritti in questo
libro sono stati avvalorati da innumerevoli ricerche tra cui numerose
interviste alle persone coinvolte nei fatti, le note redatte dai sorveglianti
dell’epoca, i registri dei singoli individui sotto la tutela dello Stato e i
rapporti scritti dai funzionari del Commonwealth del Massachussetts.
Il libro
racconta il calvario di quei ragazzi, la loro reclusione durata più di vent’anni e poi finalmente la loro rivolta continua, tenace
fino alla liberazione: questi figli dello Stato sono riusciti a testimoniare
l’incubo che hanno vissuto, sono riusciti a superare il trauma di un’infanzia
negata dai giardini della scienza: da quella scienza che negli Usa, terra della
libertà, ha nascosto quegli stessi esperimenti che il mondo aveva condannato
all’epoca del nazismo.
Questo libro ci ha rivelato che
gli Stati Uniti d’America hanno praticato l’eugenetica, l’hanno teorizzata e
praticata per molti anni.
Molti bambini ce
l’hanno fatta: benché sottoposti a radiazioni o a vaccinazioni testate
su di loro come fossero cavie da laboratorio. Molti altri sono morti: non hanno
resistito al progresso della scienza. Quella stessa scienza che, dietro a nomi
che ancora oggi vantano grande credibilità nel mondo
accademico (come il famoso Mit, Massachussets
Institute of Technology, di
Boston), lobotomizzava alcuni di questi bimbi
tagliando loro “fettine” di cervello da analizzare per studiare gli effetti
degli alimenti radioattivi.
La denuncia di questa pagina buia
degli Stati Uniti arriva tardiva e arriva perché
qualcuno si è ribellato, ha potuto e avuto la forza di ribellarsi. Il messaggio
dell’autore del libro è chiaro,
ma non ci risulta che né in America né qui in Italia
ci sia stata una parola di sdegno. Eppure per 50 anni
medici e burocrati del servizio sanitario degli Stati Uniti d’America hanno
applicato ai bambini di quegli istituti i principi dell’allevamento del
bestiame: isolare ed eliminare i ceppi di qualità inferiore.
Per anni la scienza ha avvallato
pratiche che hanno privato molte persone di una vita degna di questo nome, se
non della vita stessa. La storia riporta spesso episodi di abusi,
ma quando questo è accaduto in una società democratica che si è spesso battuta
per i diritti dell’uomo, ci aspetteremmo il riconoscimento dell’ingiustizia,
l’impegno a correggere il mal fatto, il risarcimento non in denaro (come solo
in parte è stato fatto), ma in termini di politiche sociali che sostengano i
più deboli e non viceversa.
Ma la domanda che ci dobbiamo porre
è anche dov’era la gente? Nessuno si era mai accorto di quello che stava
succedendo?
Il poeta polacco Czeslaw Milosz, a proposito, del
ghetto di Varsavia fa questa considerazione: «Nel comportamento della gente di Varsavia nei confronti del ghetto c’è stato odio, commiserazione, vergogna,
antisemitismo. Ma su tutto ha troneggiato una sventata
indifferenza. Quelle giostre piene di gente che volteggiava nel fumo del ghetto
in fiamme lì accanto, non erano la dimostrazione di alcun
antisemitismo, erano la completa indifferenza verso il destino dei propri
vicini».
In tutti i tempi barriere e
distinzioni hanno consentito discriminazioni e meccanismi di segregazione. Da una parte quelli considerati degni di appartenere al mondo
civile, dall’altra gli altri. Questa separazione e questa
distanza nella storia hanno reso possibili le peggiori crudeltà. Sicuramente
Gli ebrei tenacemente sono riusciti a
rinnovare la memoria di una pagina della nostra storia che non va e non deve
essere dimenticata, perché non si ripeta mai più.
Grossman in un articolo che si riferiva
all’olocausto degli ebrei ha detto che quel che è
accaduto nella Shoa
non può essere riassunto in un discorso.
Deve restare per sempre muto,
come una bocca aperta in un grido… Il grido esprime un
dolore che non ha parole per essere espresso, ma se abbiamo orecchie per
sentire risuona dentro di noi e chiede riscatto.
Il dolore di uomini,
donne, bambini non si può riassumere in un discorso celebrativo, ma si fa
evidenza nei tanti racconti che hanno reso quelli che hanno vissuto nei campi
di concentramento.
Io credo che con la stessa
tenacia e volontà noi dovremmo far venire alla luce la
storia di tutte quelle persone a cui è stato impedito di “vivere”, di godere
degli stessi diritti degli altri. In particolare mi riferisco a quanti hanno
vissuto per esempio negli istituti e la cui reclusione è stata avvallata spesso
dalla scienza e da quella commiserazione, da “quell’altruismo astratto che è
troppo facile oggetto di generica benevolenza e pie intenzioni”.
Nel libro Il paese dei celestini Bianca Guidetti
Serra e Francesco Santanera (2) riportano e
commentano i processi nei confronti dei responsabili di numerosi istituti ed
enti avvenuti tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, denunciando quanto segue: «Gli scandali esistono, ma non si limitano a
un’episodica che, se staccata dal contesto generale, avrebbe solo un limitato,
se pur grave, significato e forse consentirebbe facili rimedi. Un cosiddetto
educatore che isolatamente compie violenze contro un
fanciullo può essere allontanato e punito; uno speculatore o un truffatore
condannato e dimesso dal suo incarico. Occorre invece risalire alla radice del
fenomeno dell’infanzia abbandonata ed esclusa, che trae origine dalla
strutturale disuguaglianza della nostra società, dalla disparità di condizioni
socio-ambientali ed economiche che favoriscono gli uni rispetto agli altri fin
dalla nascita e, prima ancora, dalla selezione a favore dei sani, degli
intelligenti, dei belli a danno degli infermi e dei carenti. Selezione che
colloca le caratteristiche della persona in una scala di valori già di per sé
iniqua e crudele, ma tanto più tale perché favorisce coloro
che hanno potuto fruire di apporti che altri non hanno avuto.
«I “celestini”, e diamo a questo termine un significato
simbolico, nasceranno sempre nelle classi povere o poverissime, dove
l’insufficienza di cibo si manifesta spesso in termini di fame; dove i più
elementari interventi igienico-sanitari sono
insufficienti se non assenti; dove l’istruzione, anche quella dell’obbligo, è
ancora privilegio. “Celestini” soli per la morte
precoce dei genitori perché non li hanno mai conosciuti; soli per l’asocialità degli stessi, discendente a sua volta da un’eredità di
manifestazioni patologiche non prevenute e non curate, da ignoranza non
corretta da una scuola sostanzialmente formatrice ed uguale per tutti,
dall’inattività conseguente alla mancanza di lavoro e di preparazione ad esso. Lo
“scandalo” primo e vero sta quindi nel fatto che i “celestini” esistano e che
se ne creino di continuo. Ma vi è un secondo aspetto del fenomeno: il modo con
cui si soddisfa o si finge di soddisfare ai “bisogni” di questi fanciulli.
«Una società come la nostra, che si vuole rispettosa dei diritti della
persona, rifiuta, è ovvio, l’eliminazione diretta come avveniva in culture del
passato. Ma le soluzioni adottate sono spesso solo in
apparenza meno crudeli; tra queste, la più frequente è quella del “collegio” o
“istituto”. Si riuniscono, cioè, in una collettività
chiusa, quasi di necessità a regime autoritario, numerosi, anzi per lo più
numerosissimi fanciulli, che nessuno vuole perché portatori di un handicap
fisico, psichico o sociale (3).
«“Tego, colligo,
nutro”, stava scritto sul frontone di molte istituzioni medievali. Ti diamo un
tetto, ti uniamo ai tuoi simili, ti nutriamo, e il gioco è fatto. Ma il Medioevo non è terminato.
«Il metodo, diffuso e fiorente, raccoglie gli esclusi per escluderli ed è
utile a placare le false coscienze; ma giova ai fanciulli
che ne subiscono gli effetti? Privati delle esperienze più naturali, estraniati
dai problemi reali, inseriti in una comunità artificiosa porteranno in modo
indelebile il segno di questa loro esperienza. E, non
sempre, la loro integrità fisica e la loro sopravvivenza ne saranno garantite» (4).
Gli istituti, con le loro logiche
disumanizzanti, sono stati presenti per molti anni in
Italia. Al 31 dicembre 1967, i 105 brefotrofi assistevano in allevamento
interno 7141 minori (lattanti, divezzi e bambini) e in allevamento esterno
69.245 (fra lattanti, divezzi e bambini). A questi vanno
aggiunti i 48.863 ricoverati nei 978 istituti per orfani e i 40.877
ricoverati negli altri istituti per un totale di 89.740. E
ancora i 18.131 minori poveri o senza famiglia e altri 67.789 presenti in altri
istituti (5). L’istituzionalizzazione veniva
praticata nonostante numerosissime ricerche scientifiche, condotte in Italia e
all’estero, avessero dimostrato i notevoli danni che subivano i minori privi di
cure familiari.
La legge 149/2001 ha stabilito
che «il ricovero in istituto deve essere
superato entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove
ciò non sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare
caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli
di una famiglia».
Come ha rilevato l’Anfaa nella
lettera aperta inviata ai ministri per la famiglia e per la solidarietà
sociale: «
Ormai è chiaro che vivere in un
istituto è come appartenere ad un altro mondo (ma lo stesso può succedere nelle
comunità alloggio), è come essere invisibili,
inesistenti sotto il profilo giuridico e politico, esposti alle tendenze della
storia e soprattutto alla volontà degli altri. Non sei un “chi” ma un “che
cosa”.
Roberto e Piero hanno raccontato in Anni
senza vita al Cottolengo (6) la loro storia e
l’esperienza di tanti anni vissuti al Cottolengo. Ne
traggo solo un passo: «Un mio ricordo di
bambino – dice Roberto – che mi
accompagnerà per tutta la vita, come segno indelebile di un bambino
istituzionalizzato. Un ricordo di un corridoio lungo, senza
fine. Mura alte. Lo sguardo che si perde. Bambini seduti in fila, uno a fianco all’altro, su degli alti seggioloni,
il vasino sotto, per fare i propri bisogni, in cui
fetore cessava solamente la sera. Tutti giorni, era come un’impronta
indelebile sui nostri corpi e pensieri che battezzano la consapevolezza
d’essere rifiuti umani. Nessuno che
ti sorride, nessuno che ti chiama: ognuno chiuso nel suo mondo. Bambini
tutti uguali dentro tanti grembiulini a righe. Qualcuno emette un lamento: non
è un pianto, è l’espressione di un dolore non riconosciuto. Qualcuno dondola:
su e giù, su e giù, un movimento ritmico sempre uguale. Il dondolio tipico dei
bambini abbandonati. Sei anni ho vissuto su quel seggiolone, senza mai giocare,
parlare, scambiare nessun gesto di affetto né
comunicare con nessuno».
Roberto e Piero si sono ribellati e hanno lottato per uscire dall’istituto e
ricostruirsi una loro vita affrontando difficoltà e paure. Ma fanno di più,
fondano un’associazione: “Mai più istituti d’assistenza” perché nessuno debba
più vivere così come hanno vissuto loro nella consapevolezza come dice Bobbio «che i diritti
dell’uomo, per fondamentali che siano, sono diritti storici, cioè
nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove
libertà contro i vecchi poteri, gradualmente non tutti in una volta e non una
volta per sempre» (7).
(1) Michael D’Antonio, La rivolta dei figli dello Stato, Fandango
Libri, Roma, 2005. Michael D’Antonio
è autore di numerosi libri di saggistica di grande successo tra i quali Atomic Harvest, Fall from Greece,
Tin Cup Dreams e Mosquito. I suoi lavori sono apparsi anche sulle
riviste Esquire,
The New York Times Magazine, The Los Angeles Magazine e molte altre
pubblicazioni. Come giornalista ha vinto il Premio Pulitzer
con un’inchiesta apparsa sul quotidiano Newsday. Vive e lavora a Long Island.
(2) Guidetti Serra B. e Santanera F. (a cura di), Il paese dei celestini, Torino, Einaudi, 1973.
(3) Per fanciulli in stato di bisogno intendiamo
coloro che sono portatori di handicap: sociale (mancanza, incapacità, assenza
di genitori o di loro sostituti, disadattamento sociale, ecc.), fisico
(minorazioni o infermità somatiche), psichico (minorazioni o infermità
intellettive).
(4) Guidetti Serra B. e Santanera F. (a cura di), Op. cit.
(5) Istat,
Annuario Statistico dell’Assistenza e della Previdenza Sociale, Istat, Roma, 1968.
(6) Emilia De Rienzo, Claudia Figueiredo,
Anni senza vita al Cottolengo
- Il racconto e le proposte di due ricoverati, Rosenberg
& Sellier, Torino, 1991.
(7) Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi,
1990.
www.fondazionepromozionesociale.it