Prospettive assistenziali, n. 157, gennaio - marzo 2007

 

 

L’AFFIDAMENTO FAMILIARE A SCOPO EDUCATIVO: le condizioni per non sottrarre indebitamente i minori ai loro nuclei d’ORIGINE

FrANCESCO SANTANERA

 

 

 

com’è confermato dalle numerose esperienze realizzate in Italia a partire dagli anni ’60-’70, l’affidamento familiare a scopo educativo è uno degli interventi più validi per i minori la cui permanenza presso i loro congiunti non è possibile, anche temporaneamente, nemmeno mediante l’erogazione delle occorrenti prestazioni psico-socio-economiche e che, nello stesso tempo, non possono essere dichiarati in stato di adottabilità in quanto non sono «privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio» (articolo 8 della legge 184/1983).

Purtroppo il Parlamento non ha mai approvato nor­me per rendere obbligatori sia i servizi di sostegno ai nuclei familiari in condizioni di grave disagio sociale, sia quelli concernenti l’affidamento a scopo educativo. D’altra parte le Regioni, con la sola esclusione del Piemonte (1), non hanno reso esigibili le prestazioni di cui sopra.

Ne deriva che nella stragrande maggioranza dei Comuni italiani non vi sono attività di aiuto alle famiglie in difficoltà adeguate alle loro esigenze, per cui sono numerosi i minori abbandonati a loro stessi dalle istituzioni e sono drammaticamente carenti gli affidamenti educativi.

 

Dati sui minori che vivono al di fuori del loro nucleo d’origine

Un primo elemento inquietante: le autorità non sanno quanti sono i minori che vivono al di fuori del loro nucleo d’origine e da decenni non raccolgono i relativi dati in modo da poterli confrontare Regione per Regione e anno per anno.

secondo il 7° Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, la cui sintesi è stata diffusa nel dicembre 2006 dal settimanale Vita, il numero di detti minori è solamente stimato e sarebbe compreso fra 32 e 37 mila unità: 2.700 ricoverati in istituti, tra i 15 ed i 20 mila accolti in comunità (le cui caratteristiche non sono evidenziate nel suddetto documento per cui potrebbero anche essere le vecchie strutture a carattere di internato), 10.200 in affidamento intrafamiliare e 4.600 in affidamento eterofamiliare.

A causa della mancanza di dati attendibili a livello nazionale e regionale non è possibile conoscere la realtà effettiva dei minori che vivono al di fuori del loro nucleo d’origine, né le relative cause. Inoltre non vi sono gli elementi occorrenti per conoscere la situazione di ciascun minore (motivi del ricovero, durata, ecc.), per verificare l’andamento del fenomeno (è in diminuzione o in aumento?), per accertare l’idoneità o meno delle prestazioni fornite, nonché per individuare gli enti che hanno assunto iniziative di sostegno ai nuclei d’origine e di affidamento a scopo educativo e quelli inadempienti (2).

 

La beffa della chiusura degli istituti per minori

Ai sensi della legge 149/2001 gli istituti di assistenza all’infanzia dovevano cessare ogni attività alla data del 31 dicembre 2006, ovviamente previa attuazione degli interventi occorrenti per garantire ai fanciulli prestazioni familiari o parafamiliari. Tuttavia, non essendo state ovunque predisposte le necessarie misure alternative (aiuti psico-sociali ai nuclei familiari disagiati, promozione e sviluppo degli affidamenti intra ed etero familiari, apertura di comunità alloggio con 8-10 posti al massimo, sveltimento delle procedure relative alla dichiarazione di adottabilità e verifica dell’effettuazione delle segnalazioni dei minori privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi, ecc.) (3), la situazione si presenta in modo paradossale: per la legge 149/2001 gli istituti per i minori non ci sono più, ma in realtà numerosi sono ancora i fanciulli ricoverati in dette strutture.

D’altra parte i Parlamenti ed i Governi succedutisi dal 2001 (anno di entrata in vigore della citata legge 149) non si sono mai preoccupati di emanare disposizioni (4) per cui ancora oggi non c’è alcun riferimento normativo volto a precisare le caratteristiche degli istituti (in modo da poterne anche verificare se e come è stata effettuata la loro chiusura) e delle comunità di tipo familiare.

Ne consegue che vi sono edifici con 70-100 posti che si sono adattati alle circostanze mediante la semplice suddivisione dei locali, in modo da poter affermare che sono stati creati gruppi di 8-10 soggetti, gruppi che vengono quindi definiti come comunità di tipo familiare. Si verifica, altresì, che i villaggi Sos, ognuno dei quali può accogliere anche un centinaio di minori, vengano considerati anch’essi strutture parafamiliari.

Significativa, ad esempio, la denuncia del Comitato Associazioni Tutela (comunicato stampa del 28 ottobre 2006 riportato su Appunti, novembre-dicembre 2006) secondo cui «per la Regione Marche un istituto di 52 persone è una piccola comunità».

 

Le allarmanti proposte di legge presentate al Parlamento

Come avevo già rilevato, sono in atto da parte di parlamentari e di organizzazioni sociali iniziative volte a cambiare radicalmente le finalità degli affidamenti a scopo educativo dei minori in gravi condizioni di disagio, in modo da rendere praticabile la sottrazione di questi fanciulli ai loro nuclei d’origine mediante le cosiddette adozioni “mite” e “aperta”. Analoghi tentativi sono rivolti a modificare gli scopi dell’adozione legittimante (5).

 

La pilatesca posizione delle Regioni

In data 13 settembre 2006 gli Assessori regionali alle politiche sociali hanno approvato un documento (6) in cui, mentre ribadiscono la necessità di non apportare nessuna proroga al termine del 31 dicembre 2006 per la chiusura degli istituti, si limitano ad elencare gli interventi noti da anni (sostegno alle famiglie d’origine, predisposizione di piccole strutture di accoglienza, potenziamento dei servizi sociali, ecc.) (7), ma non si impegnano a intraprendere iniziative concrete, né a stanziare i necessari finanziamenti.

 

Enfatizzato strumentalmente l’abbandono

ricordo che fin dal 1962 l’Anfaa (Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie) ha avviato una serie copiosa e intensa di iniziative volte a segnalare alle autorità e all’opinione pubblica le nefaste conseguenze della carenza di cure familiari e dell’istituzionalizzazione dei minori, ma mai ha affermato che il ricovero in istituto determinava comunque una situazione di abbandono.

Si sapeva allora e si è ben consapevoli ancora adesso che il ricovero presso strutture residenziali, comprese le comunità alloggio, non sempre dipende da carenze educative dei congiunti, ma può essere una inevitabile necessità. Ad esempio, è ovvio che un genitore solo e privo di supporti, costretto a lavorare per poter mantenere se stesso ed i figli, non può fare a meno di ricercare una sistemazione extra familiare per i bambini troppo piccoli per essere lasciati soli in casa dal mattino alla sera.

Non si può pertanto concordare con l’Aibi (Associa­zione Amici dei bambini), la Comunità Papa Giovanni XXIII e le altre organizzazioni che definiscono come abbandonati da parte dei genitori e/o dei parenti tutti i minori istituzionalizzati.

Inoltre il termine abbandono non dovrebbe più essere usato non solo per i casi sopra descritti ma sempre e comunque (8), anche perché molto sovente i figli adottivi, i minori in affidamento e quelli ricoverati presso strutture residenziali soffrono ritenendo di essere stati rifiutati dai loro genitori d’origine anche nei casi in cui essi non potevano agire altrimenti (9).

 

Durata degli affidamenti

Come era stato rilevato nel volume L’affidamento familiare di Giuseppe Andreis, Francesco Santane­ra e Frida Tonizzo, edito nel 1973 dall’Amministra­zio­ne per le attività assistenziali italiane e internazionali, «l’affidamento intende essere una risposta ai problemi del bambino il cui nucleo familiare eccezionalmente o temporaneamente o definitivamente non è in grado di provvedere al suo allevamento, educazione, istruzione e d’altra parte la situazione non è risolvibile con un aiuto economico e/o sociale alla famiglia d’origine o con l’adozione a seconda dei casi».

Dunque, fin dalle prime iniziative di promozione dell’affidamento familiare a scopo educativo, intraprese nel 1967 dall’Associazione famiglie adottive e affidatarie e dall’Unione per la promozione dei diritti del minore (ora Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale), era evidente la necessità che l’affido fosse concepito e organizzato tenendo conto che le esigenze del minore e della sua famiglia di origine potevano essere eccezionali e quindi conseguenti a un evento imprevisto (ad esempio il ricovero ospedaliero della madre vedova o nubile o separata) o ad una situazione temporanea (com’è il caso di difficoltà risolvibili con aiuti psico-sociali al nucleo familiare di origine) o a fatti tali da non consentire né il ritorno del minore a casa sua né la dichiarazione di adottabilità. Pertanto, ferma restando l’evidente necessità di un adeguato monitoraggio degli interventi forniti a tutti i soggetti (i minori, nonché i nuclei d’origine e quelli affidatari) e di apportare gli occorrenti aggiornamenti ai piani di intervento, occorrerebbe modificare l’articolo 2 della legge 184/1983 aggiungendo a “temporaneamente” le parole “eccezionalmente” e “definitivamente”.

Circa gli affidamenti che non si concludono con il rientro dell’affidato nel proprio nucleo d’origine, ricordiamo che il Comune di Torino non solo ne prevede la prosecuzione oltre il diciottesimo anno di età, ma ha altresì previsto «progetti individualizzati al fine di intraprendere percorsi di autonomia per quei giovani in affidamento familiare che hanno raggiunto la maggiore età (…). Destinatari di questi progetti possono essere quei giovani che, in affidamento familiare al compimento del diciottesimo anno di età, non possono rientrare presso la loro famiglia, e per i quali non è possibile avviare un percorso per l’autonomia personale, lavorativa ed abitativa». Allo scopo il Comune di Torino eroga agli affidatari un contributo massimo di euro 5.164,57 da utilizzare per il pagamento della cauzione dell’alloggio in cui andrà abitare il giovane, per l’acquisto dei mobili e per le altre sue esigenze (10).

Un aiuto concreto ai nuclei familiari in condizione di disagio sarebbe certamente fornito prevedendo l’obbligo a carico dei Comuni singoli e associati di sviluppare gli affidamenti infra ed etero familiari diurni e quelli limitati ai soli giorni lavorativi o ai fine settimana. Inoltre non si deve mai dimenticare che vi sono esperienze molto positive  in cui gli affidatari si sono fatti carico non solo del minore, ma anche del o dei suoi genitori.

Ovviamente, nei casi in cui durante l’affidamento familiare a scopo educativo venga accertata  la totale privazione di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti, il minore dovrebbe essere dichiarato in stato di adottabilità, dando agli stessi affidatari la possibilità di poterlo adottare.

 

La responsabilità del settore pubblico

definendo come abbandonati i minori istituzionalizzati o in affidamento familiare, si attribuiscono sempre e comunque tutte le responsabilità ai genitori e agli altri congiunti. Si tratta in molti casi del capovolgimento totale della realtà dei fatti. In verità, se si vuole veramente difendere il diritto prioritario dei minori di vivere nel loro nucleo familiare di origine, occorre riconoscere le carenze – spesso gravissime – delle istituzioni: Parlamento, Governo, Regioni, Comuni, Province, Asl, ecc.: la mancanza di diritti esigibili né è la prova inconfutabile.

Certamente vi sono e vi saranno affidamenti di minori i cui congiunti non sono e non saranno mai in grado di riaccoglierli, a volte anche per motivi non ad essi imputabili (disoccupazione, malattie con aggravamenti ricorrenti, ecc.).

Ciò non toglie che i servizi sociali dovrebbero sempre intervenire nei riguardi dei nuclei di origine dei minori non solo in relazione al probabile rientro, ma anche, nei casi ciò non sia possibile, per attenuare in tutta la misura del possibile le incomprensioni, i risentimenti, le accuse in modo da evitare che i fanciulli coinvolti non si attribuiscano responsabilità che non hanno o ritengano di essere portatori di “tare” negative che non saranno mai in grado di eliminare o di ridurre, nonché per fornire agli stessi nuclei d’origine i supporti occorrenti per il superamento anche parziale delle loro difficoltà.

 

L’affido deve essere gestito direttamente dai Comuni singoli e associati

Numerose sono le cooperative e associazioni che, anche allo scopo di accrescere il loro campo di azione e la loro influenza nei confronti dell’opinione pubblica e delle autorità, richiedono ai Comuni singoli e associati la gestione degli affidamenti familiari di minori a scopo educativo.

Purtroppo la stessa richiesta è avanzata anche dalle Associazioni Amici dei Bambini e Papa Giovanni XXIII (11).

La netta opposizione all’attribuzione ad enti pubblici (ad esempio Ipab - Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) e privati (associazioni, cooperative, ecc.) delle funzioni gestionali relative all’affidamento familiare educativo di minori è motivata in primo luogo dalla necessità di non creare separazione alcuna fra i responsabili diretti degli interventi concernenti i minori (anche nei casi in cui non è prevedibile il loro rientro in famiglia), il nucleo d’origine e quello affidatario. Infatti si tratta di un insieme di relazioni e prestazioni che vanno gestite da un unico gruppo di operatori allo scopo di analizzare in modo unitario le molteplici e complesse problematiche e di fornire risposte per quanto possibile univoche.

Inoltre occorre che l’organizzazione del lavoro sia tale da evitare interventi che, pur nella considerazione del prevalente interesse del minore, privilegino un nucleo (quello d’origine o quello affidatario) danneggiando l’altro (12). A questo proposito è noto il rischio continuo di appoggiare il nucleo affidatario che ovviamente presenta minori difficoltà, soprattutto quando il minore è ben inserito.

Occorre dunque evitare che il minore venga sottratto al suo nucleo di origine in tutti i casi in cui, pur fra le note ed evidenti difficoltà, detto nucleo può essere adeguatamente sostenuto e positivamente accompagnato.

Le condizioni di disagio determinano quasi sempre situazioni molto complesse, difficili da normalizzare e a volte anche da comprendere.

D’altra parte gli interventi sovente riguardano competenze non assistenziali: la scuola, la casa, il lavoro, la sanità, ecc.

Dunque, vi sono oggettive e rilevanti problematiche da affrontare qualora si vogliano sostenere effettivamente i nuclei familiari in difficoltà.

Dette problematiche coinvolgono spesso non solo gli operatori dei vari servizi, ma riguardano anche le scelte politico-amministrative: sostegno economico ai disoccupati, corsi di qualificazione o riconversione professionale, criteri di accesso agli alloggi dell’edilizia economica e popolare, strutture di accoglienza anche temporanee per i soggetti con disturbi psichiatrici, ecc. È quindi molto facile la tentazione di sostenere l’irrecuperabilità del nucleo di origine quando si incontrano ostacoli sia a livello del proprio servizio di assistenza sociale, sia da parte degli altri settori (casa, lavoro, ecc.).

È incontrovertibile che da molti anni la tendenza della nostra società sia quella di non riconoscere la drammatica situazione della fascia più debole della popolazione: basti pensare al già ricordato mancato riconoscimento ai soggetti deboli di diritti esigibili alle prestazioni socio-assistenziali.

Ne deriva una condizione di grave inferiorità giuridica e sociale dei soggetti in gravi difficoltà nei confronti delle istituzioni, situazione che non è certo risolvibile mediante le altisonanti dichiarazioni di Ministri, Parlamentari, Sindaci e Assessori.

nella ricerca svolta da Franco Garelli, docente di sociologia della conoscenza dell’Università di Torino e dai suoi collaboratori, è stato rilevato che «sul piano delle politiche sociali c’è l’incompatibilità tra la  valorizzazione dell’affido a livello di linee programmatiche e il reale investimento in termini di risorse messe in campo» (13).

In conclusione c’è il pericolo reale che l’attribuzione a enti privati della gestione degli affidamenti determini di per sé uno scadimento anche di rilevante entità degli interventi attualmente forniti, anche se in misura spesso inadeguata, ai nuclei di origine dei minori.

 

Non bastano le affermazioni di principio

nella relazione del bilancio sociale 2005 dell’Associazione Amici dei bambini, viene affermato che fra «le attività attraverso cui si può sospendere l’abbandono» c’è «il reinserimento nella famiglia d’origine, quando possibile, attraverso: accompagnamento e supporto alla famiglia d’origine per ricostruire i legami affettivi con il bambino; sviluppo di un percorso specifico per il bambino per prepararlo al rientro in famiglia; formazione di operatori; affiancamento alla famiglia con équipe psico-sociali dopo il reinserimento del bambino».

Si tratta certamente di asserzioni pienamente condivisibili, ma le attività devono essere altresì rivolte alla eliminazione delle cause che provocano la separazione dei bambini dai loro nuclei di appartenenza, separazione attualmente provocata troppo spesso dalle carenze dei servizi.

Per la realizzazione di quanto sopra non è sufficiente la presentazione di proposte anche molto valide; occorre altresì agire per ottenere la messa a disposizione dei nuclei in difficoltà delle indispensabili risorse sociali (casa, lavoro, trasporti, cure sanitarie, ecc.), nonché per la radicale revisione delle norme che non riconoscono alcun diritto esigibile ai minori e ai loro congiunti in gravi difficoltà.

A questo proposito sarebbe interessante conoscere i nominativi e le iniziative delle organizzazioni di tutela delle esigenze dei minori che sono intervenute pubblicamente, informando quindi anche la popolazione, per ottenere l’applicazione:

a) dei primi tre commi della legge 184/1983 così redatti:

«1. il minore ha diritto crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia.

«2. Le condizioni di indigenza dei genitori o del ge­nitore esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto.

«3. Lo Stato, le Regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengono, con idonei interventi, nel rispetto della loro autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei familiari a rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia. Essi promuovono altresì iniziative di formazione dell’opinione pubblica sull’affidamento e l’adozione e di sostegno all’attività delle comunità di tipo familiare, organizzano corsi di preparazione ed aggiornamento professionale degli operatori sociali nonché incontri di formazione e preparazione per le famiglie e le persone che intendono avere in affidamento o in adozione minori. I medesimi enti possono stipulare convenzioni con enti o associazioni senza fini di lucro che operano nel campo della tutela dei minori e delle famiglie per la realizzazione delle attività di cui al presente comma»;

b) dell’ultimo comma dell’articolo 80 della stessa legge in cui è stabilito che «le Regioni determinano le condizioni e le modalità di sostegno alle famiglie, persone e comunità di tipo familiare che hanno minori in affidamento, affinché tale affidamento si possa fondare sulla disponibilità e l’idoneità all’accoglienza indipendentemente dalle condizioni economiche».

Mentre si resta in attesa di ricevere la documentazione sopra richiesta, sappiamo bene per esperienza che le organizzazioni che denunciano le responsabilità del settore pubblico, soprattutto quando i contenuti sono documentati e quindi inoppugnabili, incontrano l’opposizione degli organismi coinvolti.

Ne conseguono quasi sempre il blocco dei finanziamenti pubblici alle organizzazioni che, intervenendo a difesa dei soggetti deboli, contestano l’operato delle istituzioni, nonché la sospensione a tempo indeterminato (e cioè fino a quando cessano le critiche) delle azioni di sostegno, ad esempio la partecipazione di parlamentari e assessori a convegni e dibattiti, l’affidamento di consulenze retribuite, nonché la creazione di gruppi di lavoro finalizzati alla promozione della visibilità delle associazioni che svolgono ruoli collaborativi.

Altro effetto è la caduta verticale delle presenze dei responsabili delle organizzazioni non allineate nei programmi dei mezzi di comunicazione di massa.

Mentre si è contrari alla gestione degli affidamenti da parte di associazioni e cooperative, estremamente positivo è il riconoscimento del ruolo delle organizzazioni private che promuovono l’affidamento familiare purché ciò avvenga nel rispetto delle esigenze dei nuclei di origine ed assumendo le necessarie iniziative nei riguardi delle istituzioni affinché approvino gli opportuni provvedimenti volti all’inserimento sociale degli affidati, in particolare di coloro che non possono rientrare nel loro nucleo d’origine.

Inoltre, anche per quanto concerne il settore pubblico, sono ovvie le conseguenze estremamente nega­tive dei rapporti di lavoro precario e a tempo determinato.

 

 

 

(1) Come è stato più volte rilevato su Prospettive assistenziali, la legge della Regione Piemonte n. 1/2004 prevede diritti esigibili. Cfr. Giuseppe D’Angelo, “La nuova legge regionale piemontese sull’assistenza”, Ibidem, n. 147, 2004.

(2) Il problema sarebbe facilmente risolvibile mediante l’istituzione di “anagrafi” regionali, coordinate a livello nazionale.

(3) Si vedano nel notiziario dell’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie di questo numero le “Conclusioni della ricerca in merito all’attuazione da parte della Procura della Repubblica presso i Tribunali per i minorenni dei compiti inerenti la dichiarazione di adottabilità”.

(4) Dette disposizioni avrebbero dovuto essere state individuate da anni ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione in cui viene precisato che «lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: (…) m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».

(5) Cfr. Francesco Santanera, “L’adozione mite: una iniziativa allarmante e illegittima, mai autorizzata dal Consiglio superiore della magistratura”, Prospettive assistenziali, n. 154, 2006 e “Gravemente inadeguate le proposte di legge presentate al Parlamento in materia di adozione e di affidamento di minori a scopo educativo”, Ibidem, n. 156, 2006.

(6) Il documento è stato pubblicato sul numero 1, 2006 della rivista Il Picchio.

(7) Il Consiglio comunale di Torino, a seguito delle iniziative assunte dal Csa (Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base), ha approvato in data 14 settembre 1976 (sono quindi trascorsi  ben 30 anni!) una delibera, tuttora in vigore, che definisce le priorità di intervento  in campo socio-assistenziale, privilegiando le iniziative che eliminano o riducono le cause che provocano l’emarginazione e l’esclusione sociale, finalizzando gli interventi socio-assistenziali all’eliminazione del ricovero in istituti dei minori, dei soggetti con handicap e degli anziani in tutto o in parte autosufficienti.

(8) Si vedano sul n. 153 bis di Prospettive assistenziali le “Proposte per un linguaggio appropriato in materia di adozione”.

(9) Si osservi che il codice penale considera abbandono solamente i casi in cui una persona viene lasciata priva di sostegno da coloro che ne hanno la responsabilità di custodia e cura. Ne consegue che il ricovero presso strutture residenziali non è mai stato oggetto di sanzioni penali a carico dei congiunti.

(10) Cfr. “Guida del Comune di Torino all’affidamento familiare”, Prospettive assistenziali, n. 145, 2004.

(11) Pesanti sono state le affermazioni di Mons. Oreste Benzi, Presidente dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, contro l’adozione legittimante (cfr. la rubrica “Interrogativi” di questo numero). Mons. Benzi propone addirittura la sospensione dell’adozione legittimante e l’avvio delle adozioni aperte e cioè il reinserimento nel nostro ordinamento giuridico della vecchia normativa del 1942, la cui assoluta inadeguatezza rispetto alle esigenze dei fanciulli senza famiglia aveva indotto il Parlamento a sopprimerla nei confronti dei minori  mediante la legge 184/1983. Si ricorda  che l’adozione aperta, analogamente a quella denominata mite, è caratterizzata dalla non costituzione di un nuovo status familiare del minore e della conservazione di legami giuridici (ad esempio diritti ereditari, obbligo degli alimenti, ecc.) fra il minore stesso e il suo nucleo d’origine.

(12) Cfr. Stefania Miodini e Sara Borelli, “Il sostegno alla famiglia d’origine prima, durante e dopo l’affidamento familiare: gli interventi necessari e le possibili integrazioni fra servizi”, Prospettive assistenziali, n. 151, 2005.

(13) Cfr. Franco Garelli, Raffaella Ferrero, Daniela Teagno, “L’affidamento familiare visto dalla parte dei servizi: l’esperienza degli operatori dell’area metropolitana torinese”, Prospettive assistenziali, n. 146, 2004.

 

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