Prospettive assistenziali, n. 157, gennaio - marzo 2007
L’AFFIDAMENTO
FAMILIARE A SCOPO EDUCATIVO: le
condizioni per non sottrarre indebitamente i minori ai loro nuclei d’ORIGINE
FrANCESCO SANTANERA
com’è confermato dalle numerose
esperienze realizzate in Italia a partire dagli anni
’60-’70, l’affidamento familiare a scopo educativo è uno degli interventi più
validi per i minori la cui permanenza presso i loro congiunti non è possibile,
anche temporaneamente, nemmeno mediante l’erogazione delle occorrenti
prestazioni psico-socio-economiche e che, nello
stesso tempo, non possono essere dichiarati in stato di adottabilità in quanto
non sono «privi di assistenza morale e
materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la
mancanza di assistenza non sia dovuta a forza maggiore di carattere
transitorio» (articolo 8 della legge 184/1983).
Purtroppo il Parlamento non ha mai approvato norme per rendere obbligatori sia i
servizi di sostegno ai nuclei familiari in condizioni di grave disagio sociale,
sia quelli concernenti l’affidamento a scopo educativo. D’altra parte le
Regioni, con la sola esclusione del Piemonte (1), non hanno reso esigibili le
prestazioni di cui sopra.
Ne deriva che nella stragrande
maggioranza dei Comuni italiani non vi sono attività di aiuto
alle famiglie in difficoltà adeguate alle loro esigenze, per cui sono numerosi
i minori abbandonati a loro stessi dalle istituzioni e sono drammaticamente
carenti gli affidamenti educativi.
Dati sui minori che
vivono al di fuori del loro nucleo d’origine
Un primo elemento inquietante: le
autorità non sanno quanti sono i minori che vivono al di fuori del loro nucleo
d’origine e da decenni non raccolgono i relativi dati in modo da poterli
confrontare Regione per Regione e anno per anno.
secondo il 7° Rapporto nazionale
sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, la cui sintesi è stata
diffusa nel dicembre 2006 dal settimanale Vita,
il numero di detti minori è solamente stimato e sarebbe compreso fra 32 e
37 mila unità: 2.700 ricoverati in istituti, tra i 15 ed i 20 mila accolti in
comunità (le cui caratteristiche non sono evidenziate nel suddetto documento per cui potrebbero anche essere le vecchie strutture a
carattere di internato),
A causa della mancanza di dati
attendibili a livello nazionale e regionale non è possibile conoscere la realtà
effettiva dei minori che vivono al di fuori del loro
nucleo d’origine, né le relative cause. Inoltre non vi sono gli elementi
occorrenti per conoscere la situazione di ciascun minore (motivi del ricovero,
durata, ecc.), per verificare l’andamento del fenomeno (è in diminuzione o in
aumento?), per accertare l’idoneità o meno delle prestazioni fornite, nonché per individuare gli enti che hanno assunto iniziative
di sostegno ai nuclei d’origine e di affidamento a scopo educativo e quelli
inadempienti (2).
La beffa della chiusura degli
istituti per minori
Ai sensi della legge 149/2001 gli
istituti di assistenza all’infanzia dovevano cessare
ogni attività alla data del 31 dicembre 2006, ovviamente previa attuazione
degli interventi occorrenti per garantire ai fanciulli prestazioni familiari o
parafamiliari. Tuttavia, non essendo state ovunque predisposte le necessarie
misure alternative (aiuti psico-sociali
ai nuclei familiari disagiati, promozione e sviluppo degli affidamenti intra ed etero familiari,
apertura di comunità alloggio con 8-10 posti al massimo, sveltimento
delle procedure relative alla dichiarazione di adottabilità e verifica
dell’effettuazione delle segnalazioni dei minori privi di assistenza morale e
materiale da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi, ecc.) (3),
la situazione si presenta in modo paradossale: per la legge 149/2001 gli
istituti per i minori non ci sono più, ma in realtà numerosi sono ancora i
fanciulli ricoverati in dette strutture.
D’altra parte i Parlamenti ed i
Governi succedutisi dal 2001 (anno di entrata in
vigore della citata legge 149) non si sono mai preoccupati di emanare
disposizioni (4) per cui ancora oggi non c’è alcun riferimento normativo volto
a precisare le caratteristiche degli istituti (in modo da poterne anche
verificare se e come è stata effettuata la loro chiusura) e delle comunità di
tipo familiare.
Ne consegue che vi sono edifici
con 70-100 posti che si sono adattati alle circostanze mediante la semplice
suddivisione dei locali, in modo da poter affermare che sono stati creati
gruppi di 8-10 soggetti, gruppi che vengono quindi
definiti come comunità di tipo familiare. Si verifica,
altresì, che i villaggi Sos, ognuno dei quali può
accogliere anche un centinaio di minori, vengano considerati anch’essi
strutture parafamiliari.
Significativa, ad esempio, la denuncia del
Comitato Associazioni Tutela (comunicato stampa del 28 ottobre 2006 riportato
su Appunti, novembre-dicembre 2006)
secondo cui «per
Le allarmanti proposte di legge presentate al Parlamento
Come avevo
già rilevato, sono in atto da parte di parlamentari
e di organizzazioni sociali iniziative volte a cambiare radicalmente le
finalità degli affidamenti a scopo educativo dei minori in gravi condizioni di
disagio, in modo da rendere praticabile la sottrazione di questi fanciulli ai
loro nuclei d’origine mediante le cosiddette adozioni “mite” e “aperta”. Analoghi
tentativi sono rivolti a modificare gli scopi dell’adozione legittimante (5).
La pilatesca
posizione delle Regioni
In data 13 settembre 2006 gli
Assessori regionali alle politiche sociali hanno approvato un documento (6) in
cui, mentre ribadiscono la necessità di non apportare
nessuna proroga al termine del 31 dicembre 2006 per la chiusura degli istituti,
si limitano ad elencare gli interventi noti da anni (sostegno alle famiglie
d’origine, predisposizione di piccole strutture di accoglienza, potenziamento
dei servizi sociali, ecc.) (7), ma non si impegnano a intraprendere iniziative
concrete, né a stanziare i necessari finanziamenti.
Enfatizzato strumentalmente
l’abbandono
ricordo che fin dal 1962 l’Anfaa
(Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie) ha avviato una serie
copiosa e intensa di iniziative volte a segnalare alle
autorità e all’opinione pubblica le nefaste conseguenze della carenza di cure
familiari e dell’istituzionalizzazione dei minori, ma mai ha affermato che il
ricovero in istituto determinava comunque una situazione di abbandono.
Si sapeva allora e si è ben
consapevoli ancora adesso che il ricovero presso strutture residenziali,
comprese le comunità alloggio, non sempre dipende da carenze
educative dei congiunti, ma può essere una inevitabile necessità. Ad esempio, è
ovvio che un genitore solo e privo di supporti, costretto a lavorare per poter
mantenere se stesso ed i figli, non può fare a meno di ricercare una
sistemazione extra familiare per i bambini troppo piccoli per
essere lasciati soli in casa dal mattino alla sera.
Non si può pertanto concordare
con l’Aibi (Associazione Amici dei bambini),
Inoltre il termine abbandono non
dovrebbe più essere usato non solo per i casi sopra descritti ma sempre e comunque (8), anche perché molto sovente i figli adottivi, i
minori in affidamento e quelli ricoverati presso strutture residenziali
soffrono ritenendo di essere stati rifiutati dai loro genitori d’origine anche
nei casi in cui essi non potevano agire altrimenti (9).
Durata degli affidamenti
Come era stato rilevato nel volume L’affidamento familiare di Giuseppe Andreis, Francesco Santanera e
Frida Tonizzo, edito nel 1973 dall’Amministrazione
per le attività assistenziali italiane e internazionali, «l’affidamento intende essere una risposta ai problemi del bambino il
cui nucleo familiare eccezionalmente o temporaneamente o definitivamente non è
in grado di provvedere al suo allevamento, educazione, istruzione e d’altra
parte la situazione non è risolvibile con un aiuto economico e/o sociale alla
famiglia d’origine o con l’adozione a seconda dei casi».
Dunque, fin dalle prime
iniziative di promozione dell’affidamento familiare a
scopo educativo, intraprese nel 1967 dall’Associazione famiglie adottive e
affidatarie e dall’Unione per la promozione dei diritti del minore (ora Unione
per la lotta contro l’emarginazione sociale), era evidente la necessità che
l’affido fosse concepito e organizzato tenendo conto che le esigenze del minore
e della sua famiglia di origine potevano essere eccezionali e quindi
conseguenti a un evento imprevisto (ad esempio il ricovero ospedaliero della
madre vedova o nubile o separata) o ad una situazione temporanea (com’è il caso
di difficoltà risolvibili con aiuti psico-sociali al
nucleo familiare di origine) o a fatti tali da non consentire né il ritorno del
minore a casa sua né la dichiarazione di adottabilità. Pertanto, ferma restando
l’evidente necessità di un adeguato monitoraggio degli interventi forniti a
tutti i soggetti (i minori, nonché i nuclei d’origine
e quelli affidatari) e di apportare gli occorrenti aggiornamenti ai piani di
intervento, occorrerebbe modificare l’articolo 2 della legge 184/1983
aggiungendo a “temporaneamente” le parole “eccezionalmente” e
“definitivamente”.
Circa gli affidamenti che non si concludono con il rientro dell’affidato nel proprio nucleo d’origine,
ricordiamo che il Comune di Torino non solo ne prevede la prosecuzione oltre il
diciottesimo anno di età, ma ha
altresì previsto «progetti
individualizzati al fine di intraprendere percorsi di autonomia per quei
giovani in affidamento familiare che hanno raggiunto la maggiore età (…). Destinatari
di questi progetti possono essere quei giovani che, in affidamento familiare al
compimento del diciottesimo anno di età, non possono
rientrare presso la loro famiglia, e per i quali non è possibile avviare un
percorso per l’autonomia personale, lavorativa ed abitativa». Allo scopo il
Comune di Torino eroga agli affidatari un contributo massimo di
euro 5.164,57 da utilizzare per il pagamento della cauzione
dell’alloggio in cui andrà abitare il giovane, per l’acquisto dei mobili e per
le altre sue esigenze (10).
Un aiuto concreto ai nuclei
familiari in condizione di disagio sarebbe certamente fornito prevedendo
l’obbligo a carico dei Comuni singoli e associati di sviluppare gli affidamenti
infra ed etero familiari
diurni e quelli limitati ai soli giorni lavorativi o ai fine settimana. Inoltre
non si deve mai dimenticare che vi sono esperienze molto positive in cui gli affidatari si sono fatti carico
non solo del minore, ma anche del o dei suoi genitori.
Ovviamente, nei casi in cui
durante l’affidamento familiare a scopo educativo venga
accertata la totale privazione di
assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti, il minore
dovrebbe essere dichiarato in stato di adottabilità, dando agli stessi
affidatari la possibilità di poterlo adottare.
La responsabilità del settore
pubblico
definendo come abbandonati i
minori istituzionalizzati o in affidamento familiare, si attribuiscono sempre e
comunque tutte le responsabilità ai genitori e agli
altri congiunti. Si tratta in molti casi del capovolgimento totale della realtà
dei fatti. In verità, se si vuole veramente difendere
il diritto prioritario dei minori di vivere nel loro nucleo familiare di origine, occorre riconoscere le carenze – spesso gravissime
– delle istituzioni: Parlamento, Governo, Regioni, Comuni, Province, Asl, ecc.: la mancanza di diritti esigibili né è la prova
inconfutabile.
Certamente vi sono e vi saranno
affidamenti di minori i cui congiunti non sono e non saranno mai in grado di
riaccoglierli, a volte anche per motivi non ad essi
imputabili (disoccupazione, malattie con aggravamenti ricorrenti, ecc.).
Ciò non toglie che i servizi
sociali dovrebbero sempre intervenire nei riguardi dei nuclei di origine dei minori non solo in relazione al probabile
rientro, ma anche, nei casi ciò non sia possibile, per attenuare in tutta la
misura del possibile le incomprensioni, i risentimenti, le accuse in modo da
evitare che i fanciulli coinvolti non si attribuiscano responsabilità che non hanno
o ritengano di essere portatori di “tare” negative che non saranno mai in grado
di eliminare o di ridurre, nonché per fornire agli stessi nuclei d’origine i
supporti occorrenti per il superamento anche parziale delle loro difficoltà.
L’affido deve essere
gestito direttamente dai Comuni singoli e associati
Numerose sono le cooperative e
associazioni che, anche allo scopo di accrescere il loro campo di azione e la loro influenza nei confronti dell’opinione
pubblica e delle autorità, richiedono ai Comuni singoli e associati la gestione
degli affidamenti familiari di minori a scopo educativo.
Purtroppo la stessa richiesta è
avanzata anche dalle Associazioni Amici dei Bambini e
Papa Giovanni XXIII (11).
La netta opposizione
all’attribuzione ad enti pubblici (ad esempio Ipab -
Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) e
privati (associazioni, cooperative, ecc.) delle funzioni gestionali relative
all’affidamento familiare educativo di minori è motivata in primo luogo dalla
necessità di non creare separazione alcuna fra i responsabili diretti degli
interventi concernenti i minori (anche nei casi in cui non è prevedibile il
loro rientro in famiglia), il nucleo d’origine e quello affidatario.
Infatti si tratta di un insieme di relazioni e
prestazioni che vanno gestite da un unico gruppo di operatori allo scopo di
analizzare in modo unitario le molteplici e complesse problematiche e di
fornire risposte per quanto possibile univoche.
Inoltre occorre che
l’organizzazione del lavoro sia tale da evitare interventi che, pur nella
considerazione del prevalente interesse del minore, privilegino
un nucleo (quello d’origine o quello affidatario)
danneggiando l’altro (12). A questo proposito è noto il rischio continuo di
appoggiare il nucleo affidatario che ovviamente presenta
minori difficoltà, soprattutto quando il minore è ben
inserito.
Occorre dunque evitare che il
minore venga sottratto al suo nucleo di origine in
tutti i casi in cui, pur fra le note ed evidenti difficoltà, detto nucleo può
essere adeguatamente sostenuto e positivamente accompagnato.
Le condizioni di disagio
determinano quasi sempre situazioni molto complesse,
difficili da normalizzare e a volte anche da comprendere.
D’altra parte gli interventi
sovente riguardano competenze non assistenziali: la
scuola, la casa, il lavoro, la sanità, ecc.
Dunque, vi sono oggettive e rilevanti
problematiche da affrontare qualora si vogliano sostenere effettivamente i
nuclei familiari in difficoltà.
Dette problematiche coinvolgono
spesso non solo gli operatori dei vari servizi, ma riguardano anche le scelte
politico-amministrative: sostegno economico ai disoccupati, corsi di
qualificazione o riconversione professionale, criteri di accesso
agli alloggi dell’edilizia economica e popolare, strutture di accoglienza anche
temporanee per i soggetti con disturbi psichiatrici, ecc. È quindi molto facile
la tentazione di sostenere l’irrecuperabilità del
nucleo di origine quando si incontrano ostacoli sia a livello del proprio
servizio di assistenza sociale, sia da parte degli altri settori (casa, lavoro,
ecc.).
È incontrovertibile che da molti
anni la tendenza della nostra società sia quella di non riconoscere la
drammatica situazione della fascia più debole della popolazione: basti pensare
al già ricordato mancato riconoscimento ai soggetti deboli di diritti esigibili
alle prestazioni socio-assistenziali.
Ne deriva una condizione di grave
inferiorità giuridica e sociale dei soggetti in gravi difficoltà nei confronti
delle istituzioni, situazione che non è certo risolvibile mediante le
altisonanti dichiarazioni di Ministri, Parlamentari, Sindaci e Assessori.
nella ricerca svolta da Franco Garelli, docente di sociologia della conoscenza
dell’Università di Torino e dai suoi collaboratori, è stato rilevato che «sul piano delle politiche sociali c’è
l’incompatibilità tra la
valorizzazione dell’affido a livello di linee programmatiche e il
reale investimento in termini di risorse messe in campo» (13).
In conclusione c’è il pericolo
reale che l’attribuzione a enti privati della gestione
degli affidamenti determini di per sé uno scadimento anche di rilevante entità
degli interventi attualmente forniti, anche se in misura spesso inadeguata, ai
nuclei di origine dei minori.
Non bastano le affermazioni di
principio
nella relazione del bilancio
sociale 2005 dell’Associazione Amici dei bambini, viene
affermato che fra «le attività attraverso
cui si può sospendere l’abbandono» c’è «il
reinserimento nella famiglia d’origine, quando possibile, attraverso:
accompagnamento e supporto alla famiglia d’origine per ricostruire i legami
affettivi con il bambino; sviluppo di un percorso specifico per il bambino per
prepararlo al rientro in famiglia; formazione di operatori; affiancamento
alla famiglia con équipe psico-sociali
dopo il reinserimento del bambino».
Si tratta certamente di asserzioni pienamente condivisibili, ma le attività
devono essere altresì rivolte alla eliminazione delle cause che provocano la
separazione dei bambini dai loro nuclei di appartenenza, separazione
attualmente provocata troppo spesso dalle carenze dei servizi.
Per la realizzazione di quanto
sopra non è sufficiente la presentazione di proposte anche molto valide;
occorre altresì agire per ottenere la messa a disposizione dei nuclei in
difficoltà delle indispensabili risorse sociali (casa, lavoro, trasporti, cure
sanitarie, ecc.), nonché per la radicale revisione
delle norme che non riconoscono alcun diritto esigibile ai minori e ai loro
congiunti in gravi difficoltà.
A questo proposito sarebbe
interessante conoscere i nominativi e le iniziative
delle organizzazioni di tutela delle esigenze dei minori che sono intervenute
pubblicamente, informando quindi anche la popolazione, per ottenere
l’applicazione:
a) dei primi tre commi della
legge 184/1983 così redatti:
«1. il minore ha diritto
crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia.
«2. Le condizioni di indigenza dei genitori o del
genitore esercente la potestà genitoriale non
possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria
famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di
sostegno e di aiuto.
«3. Lo Stato, le Regioni e gli enti
locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengono, con idonei
interventi, nel rispetto della loro autonomia e nei limiti delle risorse
finanziarie disponibili, i nuclei familiari a rischio, al fine di prevenire
l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito della
propria famiglia. Essi promuovono altresì iniziative di formazione
dell’opinione pubblica sull’affidamento e l’adozione e di sostegno all’attività
delle comunità di tipo familiare, organizzano corsi di preparazione ed
aggiornamento professionale degli operatori sociali nonché
incontri di formazione e preparazione per le famiglie e le persone che
intendono avere in affidamento o in adozione minori. I medesimi enti possono
stipulare convenzioni con enti o associazioni senza
fini di lucro che operano nel campo della tutela dei minori e delle famiglie
per la realizzazione delle attività di cui al presente comma»;
b) dell’ultimo comma
dell’articolo 80 della stessa legge in cui è stabilito
che «le Regioni determinano le condizioni
e le modalità di sostegno alle famiglie, persone e comunità di tipo familiare
che hanno minori in affidamento, affinché tale affidamento si possa fondare
sulla disponibilità e l’idoneità all’accoglienza indipendentemente dalle
condizioni economiche».
Mentre si resta in attesa di ricevere la documentazione sopra richiesta,
sappiamo bene per esperienza che le organizzazioni che denunciano le
responsabilità del settore pubblico, soprattutto quando i contenuti sono
documentati e quindi inoppugnabili, incontrano l’opposizione degli organismi
coinvolti.
Ne conseguono quasi
sempre il blocco dei finanziamenti pubblici alle organizzazioni che,
intervenendo a difesa dei soggetti deboli, contestano l’operato delle
istituzioni, nonché la sospensione a tempo indeterminato (e cioè fino a quando
cessano le critiche) delle azioni di sostegno, ad esempio la partecipazione di parlamentari e assessori a convegni e dibattiti, l’affidamento di consulenze
retribuite, nonché la creazione di gruppi di lavoro finalizzati alla promozione
della visibilità delle associazioni che svolgono ruoli collaborativi.
Altro effetto è
la caduta verticale delle presenze dei responsabili delle organizzazioni non
allineate nei programmi dei mezzi di comunicazione di massa.
Mentre si è contrari alla
gestione degli affidamenti da parte di associazioni e
cooperative, estremamente positivo è il riconoscimento del ruolo delle
organizzazioni private che promuovono l’affidamento familiare purché ciò
avvenga nel rispetto delle esigenze dei nuclei di origine ed assumendo le
necessarie iniziative nei riguardi delle istituzioni affinché approvino gli
opportuni provvedimenti volti all’inserimento sociale degli affidati, in
particolare di coloro che non possono rientrare nel loro nucleo d’origine.
Inoltre, anche per quanto
concerne il settore pubblico, sono ovvie le conseguenze estremamente
negative dei rapporti di lavoro precario e a tempo determinato.
(1) Come è stato più volte rilevato su Prospettive assistenziali, la legge
della Regione Piemonte n. 1/2004 prevede diritti esigibili. Cfr.
Giuseppe D’Angelo, “La nuova legge regionale piemontese
sull’assistenza”, Ibidem, n. 147,
2004.
(2) Il problema sarebbe facilmente risolvibile
mediante l’istituzione di “anagrafi” regionali, coordinate a livello nazionale.
(3) Si vedano nel notiziario dell’Associazione
nazionale famiglie adottive e affidatarie di questo numero le “Conclusioni
della ricerca in merito all’attuazione da parte della Procura della Repubblica
presso i Tribunali per i minorenni dei compiti inerenti la dichiarazione di
adottabilità”.
(4) Dette disposizioni avrebbero dovuto essere state
individuate da anni ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione in cui viene
precisato che «lo Stato ha legislazione
esclusiva nelle seguenti materie: (…) m) determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale».
(5) Cfr. Francesco Santanera, “L’adozione mite: una iniziativa
allarmante e illegittima, mai autorizzata dal Consiglio superiore della
magistratura”, Prospettive assistenziali,
n. 154, 2006 e “Gravemente inadeguate le proposte di legge presentate al
Parlamento in materia di adozione e di affidamento di minori a scopo
educativo”, Ibidem, n. 156, 2006.
(6) Il documento è stato pubblicato sul numero 1,
2006 della rivista Il Picchio.
(7) Il Consiglio comunale di Torino, a seguito delle
iniziative assunte dal Csa (Coordinamento sanità e
assistenza fra i movimenti di base), ha approvato in data 14 settembre 1976
(sono quindi trascorsi ben 30 anni!) una
delibera, tuttora in vigore, che definisce le priorità di intervento in campo socio-assistenziale, privilegiando
le iniziative che eliminano o riducono le cause che provocano l’emarginazione e
l’esclusione sociale, finalizzando gli interventi socio-assistenziali
all’eliminazione del ricovero in istituti dei minori, dei soggetti con handicap
e degli anziani in tutto o in parte autosufficienti.
(8) Si vedano sul n. 153 bis di Prospettive assistenziali le “Proposte per un linguaggio
appropriato in materia di adozione”.
(9) Si osservi che il codice penale considera
abbandono solamente i casi in cui una persona viene lasciata priva di sostegno
da coloro che ne hanno la responsabilità di custodia e cura. Ne consegue che il
ricovero presso strutture residenziali non è mai stato oggetto di sanzioni
penali a carico dei congiunti.
(10) Cfr. “Guida del Comune
di Torino all’affidamento familiare”, Prospettive
assistenziali, n. 145, 2004.
(11) Pesanti sono state le affermazioni di Mons. Oreste Benzi, Presidente
dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, contro
l’adozione legittimante (cfr. la
rubrica “Interrogativi” di questo numero). Mons. Benzi propone addirittura la sospensione dell’adozione
legittimante e l’avvio delle adozioni aperte e cioè il
reinserimento nel nostro ordinamento giuridico della vecchia normativa del
1942, la cui assoluta inadeguatezza rispetto alle esigenze dei fanciulli senza
famiglia aveva indotto il Parlamento a sopprimerla nei confronti dei minori mediante la legge 184/1983. Si ricorda che l’adozione
aperta, analogamente a quella denominata mite, è caratterizzata dalla non
costituzione di un nuovo status familiare
del minore e della conservazione di legami giuridici (ad esempio diritti
ereditari, obbligo degli alimenti, ecc.) fra il minore stesso e il suo nucleo
d’origine.
(12) Cfr. Stefania Miodini e Sara Borelli, “Il
sostegno alla famiglia d’origine prima, durante e dopo l’affidamento familiare:
gli interventi necessari e le possibili integrazioni fra servizi”, Prospettive assistenziali,
n. 151, 2005.
(13) Cfr. Franco Garelli, Raffaella Ferrero,
Daniela Teagno, “L’affidamento familiare visto dalla
parte dei servizi: l’esperienza degli operatori dell’area metropolitana
torinese”, Prospettive assistenziali,
n. 146, 2004.
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