Prospettive assistenziali, n. 158, aprile - giugno 2007

 

 

Libri

 

 

 

COSTANZO RANCI, Il volontariato, Il Mulino, Bologna, 2006, pag. 120, euro 8,80.

Il volumetto si limita a prendere in esame il volontariato consolatorio e cioè le iniziative volte a collaborare con gli enti pubblici erogatori di prestazioni e spesso, purtroppo, a tamponare le carenze dei servizi pubblici o quelli privati di interesse pubblico.

Non è, invece, preso in considerazione il volontariato dei diritti che opera, cioè, per il riconoscimento delle esigenze fondamentali di vita dei soggetti deboli, con particolare riguardo a coloro che non sono in grado di autodifendersi.

Si comprende pertanto il motivo di fondo in base al quale l’Autore afferma che al volontario «non vengono richieste particolari capacità: spesso basta l’impegno, la disponibilità umana, qualche conoscenza tecnica che può essere appresa. Inoltre, fare volontariato è facile perché è immediatamente soddisfacente».

Le difficoltà consisterebbero solamente nel «calcolo del tempo da mettere a disposizione (…) e delle energie psichiche e materiali che possono essere impegnate nella nuova attività», nonché nella «precisa e relativa considerazione delle nostre capacità e delle nostre predisposizioni» poiché «non tutti sopportano di dover assistere una persona che non è in grado di muoversi e di parlare, mentre altri possono avvertire come faticosa e noiosa un’attività spesa dietro ad uno sportello informativo».

È altresì significativo che Costanzo Ranci sostenga che il volontariato sia «indubbiamente (…) un fenomeno di moda».

È vero che «esso viene quotidianamente celebrato sui giornali e sui media, richiamato dalle istituzioni e dalla politica, promosso dalle autorità religiose e civili».

È vero, ma questa esaltazione riguarda solamente il volontariato consolatorio e mai quello dei diritti.

Sul volontariato consolatorio occorrerebbe, invece, analizzare oggettivamente le conseguenze non su questa o quella persona o su questo o quel gruppo di individui nei cui confronti vengono attuati interventi, ma anche le eventuali conseguenze negative sull’insieme delle persone alle quali vengono fornite le prestazioni dovute, in particolare quelle  indispensabili.

Ad esempio, se come malauguratamente succede, le autorità ritengono che competa ai volontari imboccare i malati non in grado di assumere autonomamente il cibo, viene pertanto giustificata la mancanza del personale addetto allo scopo, nei casi in cui i volontari non possano provvedere per assenze impreviste.

Riferendosi al volontariato consolatorio, Costanzo Ranci afferma che opera «a raggio limitato (…) nei confronti di poche persone» e che «si colloca senz’altro sul lato delle forme di partecipazione a basso costo e a rischio modesto».

Dunque, secondo l’Autore, mentre «chi opera nella lotta politica o sindacale attribuisce alla propria attività una finalità solidaristica» in quanto «si tratta di sostenere i diritti e gli interessi di un’intera collettività di cui il militante si sente parte integrante, il volontario, a differenza del militante, sostiene gli interessi di una comunità di cui non fa parte, di persone diverse da sé».,

Ne deriva, secondo Ranci, che l’attività del volontario «non è “militanza” proprio perché non c’è una comunione di interessi con gli altri».

Mentre le valutazioni di Ranci sul volontariato consolatorio sono quasi sempre condivisibili, non è accettabile che il volume ignori totalmente il volontariato dei diritti, tenuto anche conto  della professione dell’Autore che insegna sociologia e politica sociale nel Politecnico di Milano.

 

Francesco BELLETTI (a cura di), Dopo di noi, insieme a noi. Famiglie e servizi nella cura dei disabili adulti, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2004, pag. 298, euro 18,00.

Il volume affronta uno dei problemi più angoscianti dei genitori (e degli altri congiunti) di soggetti con handicap e con limitata o nulla autonomia. Che cosa sarà della loro vita dopo la morte dei genitori o nei casi di incapacità a provvedere ai loro figli?

In primo luogo occorre eliminare il carattere di emergenza che spesso assume la questione: la presenza di adeguate iniziative (sostegno ai nuclei di origine, affidi a parenti o terzi, gruppi appartamento per 2-3 soggetti con adeguate autonomie, comunità alloggio di 8-10 posti al massimo non raggruppate fra loro, ecc.) costituiscono una base imprescindibile anche per far fronte alle situazioni impreviste.

Dure sono le critiche rivolte ai Comuni da parte delle famiglie: «Il Comune è assente», «Qui non si è fatto vivo nessuno del Comune. È un Comune piccolo e ci conoscono, ma non ci hanno mai detto niente», «Se lei vede la cartella di A. che hanno in Comune è un plico alto 20 centimetri: sembra che abbia 90 anni e che abbiano dato di tutto. Invece sono tutte parole senza concludere nulla».

Purtroppo nel volume – fatto gravissimo – non viene segnalato un aspetto della massima importanza e cioè che da oltre 70 anni i Comuni sono obbligati ad intervenire ai sensi degli articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 “Testo della legge di pubblica sicurezza”, come ha precisato su questa rivista (cfr. il n. 135, 2001) il magistrato, attualmente consigliere della Corte di Cassazione, Massimo Dogliotti nell’articolo “I minori, i soggetti con handicap, gli anziani in difficoltà…“pericolosi per l’ordine pubblico” hanno ancora diritto ad essere assistiti dai Comuni”.

Per ottenere il rispetto di detto obbligo, che purtroppo riguarda solo il ricovero e non gli interventi alternativi all’istituzionalizzazione, è sufficiente, qualora il Comune di residenza del soggetto con handicap rifiutasse di provvedere, rivolgere istanza scritta all’autorità di pubblica sicurezza.

A questo riguardo ricordiamo (cfr. Prospettive assistenziali, n. 123, 1998) che, a seguito di semplice preavviso consistente nella richiesta dell’applicazione dei sopra citati articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931, si è riusciti ad ottenere dopo appena ventun giorni e con oneri a totale carico di un Consorzio di Comuni, l’accoglienza presso una comunità alloggio di un soggetto con handicap grave e autonomia molto limitata.

 

SIMONETTA CAVALLI, Perché mi hai preso? Adolescenti adottivi, Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari), 2005, pag. 132, euro 12,00.

Simonetta Cavalli, assistente sociale, partendo dall’attività che svolge nel gruppo interdisciplinare sulle adozioni dell’Asl Roma/A, presenta sette resoconti che hanno quale elemento unificante la preadolescenza e l’adolescenza di ragazzi adottati già grandicelli. Si tratta di situazioni molto particolari, le cui problematiche rendono evidente la necessità di interventi solleciti e specialistici a causa delle gravi privazioni affettive subite dai minori da parte dei loro nuclei d’origine.

Nello stesso tempo i casi descritti dimostrano ancora una volta l’assoluta necessità di una diligente e profonda selezione/preparazione delle coppie disponibili ad adottare minori grandicelli e confermano i gravi rischi delle adozioni “fai da te”.

Sono trascorsi decenni da quando negli anni ’60 sono state avviate le iniziative che hanno portato prima alla legge 431/1967 e poi alla 183/1984 le cui finalità erano e sono incentrate sull’accoglienza dei bambini senza famiglia da parte delle coppie in possesso delle capacità occorrenti per quel determinato fanciullo, di cui dovrebbero essere tenute in attenta considerazione gli aspetti profondi della personalità, le esperienze vissute e le aspettative.

Si comprendono, pertanto, le drammatiche conseguenze delle adozioni improvvisate, come quella di Miguel, accolto all’età di quindici anni dalla «nostra speciale famiglia» che, essendo in possesso di «grande generosità», aveva adottato dieci anni prima la sorella Isabelle.

Prima di venire in Italia, Miguel era sempre vissuto in un istituto ed aveva alle spalle due tentativi di adozione non riusciti.

Non stupisce che Miguel «arrivato a Roma cercò di imporsi nell’unico modo che la vita gli aveva insegnato, con violenza e aggressività» e che dalla madre adottiva venga definiti «un ragazzo fortemente disturbato, incapace di attirare simpatie e affetto» per cui «finì col tirarsi indietro, schierandosi con il nostro rifiuto».

Miguel, che non ha legato nemmeno con la sorella, attualmente «è in una casa famiglia, ha diciassette anni e credo nessuna possibilità ormai di sperare di poter essere accolto in una famiglia».

Analoga la situazione di Pavel, ragazzo bielorusso accolto all’età di sei anni, a seguito dei soggiorni cosiddetti climatici, da Nicola di sessantacinque anni e dalla moglie Benedetta di cinquantasei e adottato quando ne aveva compiuti dodici, con la conseguenza che viene definito dai genitori adottivi «introverso, sgradevole e pericoloso, da sopportare e controllare» che li trascina «su una strada di disperazione senza ritorno».

 

ANTONIO FATIGATI (a cura di), Genitori si diventa - esperienze, percorsi per il cammino adottivo, Franco Angeli, Milano, 2005, pag. 162, euro 17,50.

1. Fra i numerosi autori del volume curato da Antonio Fatigati, presidente dell’Associazione “Genitori si diventa”, la nostra attenzione si è soffermata in particolare sul contributo di Silvia Pollastri, psicologa, riguardante “La preparazione continua: il post adozione”.

Premesso che «adottare significa far diventare figlio il bambino nato da qualcun altro», l’Autrice sostiene che per avviare in modo positivo questo processo occorre incominciare «a sfatare la convinzione che il benessere loro e del figlio e il successo dell’adozione siano legati unicamente ad una buona dose di amore e di affetto».

Anche se l’amore «è una condizione indispensabile che i genitori adottivi dovranno provare per il bambino», questa esigenza «non è sufficiente a garantire la costruzione e il successo del legame filiale».

Silvia Pollastri ritiene che sia indispensabile prendere coscienza «che la filiazione adottiva è diversa dalla filiazione biologica ed accettare che, solo con il tempo, possono diventare genitori di quel bambino nato da qualcun altro, sono le condizioni principali, oltre all’amore, per poter creare il famoso e tanto discusso legame genitoriale».

Infatti «l’attaccamento è un processo che richiede lo stare insieme in maniera speciale, che deve essere costruito sulla relazione e che non si forma in virtù dell’appellativo “figlio” e “genitori” dato da un atto giuridico».

Occorre, altresì, tener conto che «i bambini adottivi arrivano in famiglia con un percorso di sviluppo alterato: alcuni di loro sono cresciuti troppo in fretta, altri si comportano già come adulti, altri ancora non hanno mai potuto affidarsi a qualcuno».

Vi è pertanto la necessità di una preparazione e di un sostegno anche dopo l’ingresso del bambino nella sua nuova famiglia. Secondo l’Autrice «gli strumenti più frequentemente utilizzati sono il gruppo e la consulenza individuale con personale specializzato».

2. Per quanto riguarda il capitolo “Superare la sterilità, prepararsi all’adozione” della psicologa Daniela Serturini, ricordiamo che l’adozione può essere disposta anche nei confronti dei coniugi con figli biologici. Anzi, tenendo conto del preminente interesse del minore, dovrebbero essere favorite dai Tribunali per i minorenni e dai servizi sociali le adozioni richieste dai suddetti coniugi e da quelli che hanno già accolto positivamente minori a scopo adottivo.

Riteniamo molto negativo considerare, come fa non solo Daniela Serturini, ma anche altri autori come Livia pomodoro nella presentazione, utilizzare la parola “abbandonato” per indicare il bambino non riconosciuto alla nascita.

Com’è già stato rilevato (cfr. “Proposte per un linguaggio appropriato in materia di adozione”, Prospettive assistenziali, n. 153 bis, 2006) «la scelta che compie la donna, che decide per motivi anche drammatici, di non diventare la madre del piccolo partorito, non riconoscendolo come figlio, compie una scelta responsabile che merita il rispetto di tutti: quel piccolo non è abbandonato, bensì consegnato alle istituzioni perché lo inseriscano al più presto in una famiglia».

Non è una mera questione terminologica: si tratta, invece, di utilizzare parole che esprimano correttamente la realtà.

Inoltre, occorre tener presente che assai diversi sono i riflessi sul vissuto dell’adottato e quindi sul suo presente e sul suo futuro sapere che è stato abbandonato e cioè rifiutato, oppure che è stato lasciato perché potesse vivere in una famiglia: da un lato la totale noncuranza, dall’altro versante un’azione compiuta nel suo interesse.

3. Molte riserve abbiamo in merito alla testimonianza di Carla Forcolin, presidente dell’Associa­zione “La Gabbianella e altri animali” che sostiene quanto segue: «Di norma ha poco senso chiedere che una singola persona possa adottare quando ci sono più di dieci coppie disponibili per ogni bambino adottabile nell’adozione nazionale e poco meno in quella internazionale, ma non sempre è così».

A nostro avviso, tenuto conto della preminente esigenza del bambino di vivere in una famiglia completa, “deve sempre essere così” e occorre pertanto, nei casi in cui vi sia anche una minima probabilità della dichiarazione della loro adottabilità, che i bambini vengano sempre e solo affidati a coppie.

Esclusivamente nei casi di reale impossibilità, si dovrebbe provvedere ad affidare i bambini a persone singole.

Altra perplessità riguarda le modalità di inserimento di Bruno, un ragazzo di 15 anni, rimasto solo a seguito del suicidio della madre.

In questi casi ci sembra di dover rilevare che l’approccio deve essere assolutamente graduale, che deve essere evitata qualsiasi forzatura: gli adolescenti dovrebbero essere accolti solamente al termine di un lungo periodo di reciproca conoscenza e dopo aver accertato la loro concorde decisione di vivere insieme.

4. Vive perplessità suscita, altresì, la testimonianza di Virginia Gasparin, non riconosciuta e adottata all’età di 11 mesi e sua volta madre adottiva di due bambini, in quanto sostiene la necessità «che la legislazione italiana venga modificata conformemente alla legislazione di altri paesi europei ed extraeuropei», anche per quanto concerne «l’estensione del diritto alla conoscenza anche a chi non è stato riconosciuto alla nascita, introducendo altresì la figura di un “tramite” fra le parti (famiglia biologica e figlio adottivo) e la possibilità di un incontro fra gli stessi quando ambedue abbiano espresso il loro consenso».

A nostro avviso si tratta di una proposta assolutamente sbagliata in quanto la vera filiazione (che è realtà ben diversa  dalla semplice procreazione) consiste nel riconoscere che i legami familiari autentici si creano sulla base dei rapporti affettivi che si instaurano fra figli e genitori e che sono reciprocamente formativi.

In secondo luogo la possibilità di infrangere il segreto del parto (che in base alle leggi vigenti deve essere garantito per la durata di cento anni) determinerebbe sicuramente un aumento degli infanticidi e degli abbandoni che mettono in pericolo la vita dei neonati, nonché degli aborti praticati da coloro che non lo accettano sul piano etico.

Anche i figli adottivi, riconosciuti o non riconosciuti alla nascita, hanno a nostro avviso il dovere di tener conto delle esigenze sociali delle altre persone e, quand’è necessario, devono rinunciare a proporre iniziative che possano danneggiare le persone in difficoltà.

 

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