Prospettive assistenziali, n. 158, aprile - giugno 2007
Notiziario dell’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie
CIRCOLARE DEL TRIBUNALE PER I
MINORENNI DI TORINO SUGLI AFFIDAMENTI
A seguito della lettera inviata dall’Anfaa al Tribunale per i minorenni di Torino e
pubblicata su Prospettive
assistenziali n.154/2006,
il Presidente Cesare Castellani ha inviato agli Assessori alle Politiche
sociali delle Regioni Piemonte e Valle d’Aosta e all’Assessore alla famiglia e
ai Servizi sociali del Comune di Torino la circolare allegata.
L’Anfaa si è rivolta al Tribunale per i minorenni per
rappresentare alcune difficoltà nell’organizzazione e gestione degli
affidamenti familiari realizzati a seguito di provvedimento dell’Autorità
giudiziaria minorile. In particolare viene segnalato
che:
1) nel volume La
tutela giudiziaria dei minori in Piemonte, stampato e diffuso dalla
Regione, viene spiegato (paragrafo
2) al termine del periodo di affidamento
familiare troppo poco viene fatto per assicurare che il minore, rientrato nel
nucleo di origine o, comunque, collocato in altro contesto, possa comunque
mantenere rapporti con gli ex affidatari, che potrebbero risultare, invece,
molto importanti per il suo benessere in forza dei legami affettivi stabiliti
con i componenti della famiglia;
3) alle famiglie affidatarie non viene
notificata o comunicata copia del decreto con il quale il Tribunale per i
minorenni dispone l’affidamento, sicché tali persone, pur impegnandosi con
dedizione all’accoglienza ed educazione del minore, non sono informate sui loro
diritti e prerogative, né sulla durata dell’affidamento.
Tanto premesso, si ritiene opportuno fornire, all’esito
di un confronto tra i magistrati del Tribunale, alcune indicazioni sui punti
sopra indicati:
1) in effetti pare utile
ricordare ai Servizi sociali della Regione, affinché i cittadini interessati
all’esperienza dell’affidamento familiare siano informati in modo il più
possibile completo che, fermo restando l’impegno per il superamento, attraverso
ogni forma di sostegno, delle condizioni di disagio della famiglia di origine
del minore che hanno reso necessaria la misura di cui trattasi, allo scopo di
favorire il rientro del figlio minore, l’affidamento familiare, come stabilito
dall’articolo 4, commi 5° e 6° legge 184/1983, modificato dalla legge 149/2001,
può essere prorogato dal Tribunale per i minorenni, dopo il periodo iniziale sopra
indicato, nei casi in le difficoltà della famiglia di origine non siano venute
meno. Infatti, in queste situazioni, il Tribunale può adottare «ulteriori provvedimenti nell’interesse del minore»,
tra i quali rientra certamente l’affidamento familiare;
2) il Tribunale si impegna, con
i propri provvedimenti, a prendere posizione, qualora ciò corrisponda
all’interesse del minore, in merito ai rapporti tra i minori stessi e l’ex
famiglia affidataria. A tal fine, tuttavia, appare
necessario che i Servizi locali forniscano al Giudice delegato le opportune
informazioni (sul piano sociale e psicologico), possibilmente con congruo
anticipo rispetto al momento conclusivo dell’affidamento familiare;
3) il decreto che dispone l’affidamento familiare di un
minore ai sensi dell’art. 4 legge 184/1983, modificato
dalla legge 149/2001 non può essere notificato (salvo eccezioni
in casi del tutto particolari) alle persone degli affidatari, in quanto non si
tratta di “parti”, in senso tecnico, del procedimento di limitazione della
potestà. Tuttavia, tenuto conto dell’importanza del ruolo che la famiglia affidataria esplica e per favorire
l’attuazione della misura in condizioni di miglior chiarezza e serenità, il
Tribunale per i minorenni ritiene di segnalare alla Regione e agli Enti gestori
l’opportunità che, al momento dell’avvio dell’affidamento, sia consegnato a
ogni famiglia affidataria un documento che,
sintetizzando il dispositivo del provvedimento giudiziario, fornisca le
informazioni più importanti circa l’affidamento disposto (prevedibile durata,
diritti della famiglia di origine, misure psico-sociali
a sostegno del minore).
RIFLESSIONI
E PROPOSTE PER INIZIATIVE SUI TEMI DA APPROFONDIRE NEI CORSI DI AGGIORNAMENTO
PER INSEGNANTI
Si è notevolmente
intensificata a livello nazionale e locale l’attività dell’Anfaa sui temi della
scuola, su cui si è costituito anche un gruppo di lavoro specifico, cui
collabora anche Emilia De Rienzo, autrice del libro Stare bene insieme a scuola si
può?
Riportiamo le
riflessioni elaborate dalla stessa Emilia De Rienzo dopo l’ultima riunione del
gruppo.
Premessa
Proprio perché la scuola è così importante, oggi più che
mai è necessario che la riflessione su di essa sia più
collettiva, che si sentano coinvolti gli insegnanti, i genitori, ma anche gli
operatori del territorio e gli amministratori locali. È importante che la
riflessione parta dal basso, dalle realtà concrete di vita, che ci si interroghi su dove la scuola sta andando e su quali
finalità si pone.
Bisogna affiancare la scuola, offrirle risorse e mezzi,
saperi ed esperienze. Bisogna lavorare insieme perché la scuola diventi
veramente una risorsa per l’integrazione. Il ruolo dei servizi su questo
terreno può essere fondamentale.
Dobbiamo allora porci alcune domande. Vogliamo lavorare
per una scuola che pensi al bambino solo in termini cognitivi o che pensi al
bambino nella sua interezza mettendo quindi al suo
centro la relazione educativa? Vogliamo lavorare per una scuola fatta di tante
classi isolate una dall’altra o per una scuola in cui gli insegnanti imparano a
lavorare in équipe? La scuola deve diventare, come
diceva una direttrice didattica, “un
supermercato delle offerte” oppure deve imparare a rispondere ai bisogni
reali dei bambini? Vogliamo costruire una scuola della quantità o una scuola di qualità per tutti? Un’educazione che ha come
finalità, come già diceva Montaigne, una “testa ben fatta” o una testa piena; un sapere che sappia trasformarsi in saggezza o
in erudizione? Vogliamo una scuola isolata dal contesto
in cui vive o che sappia integrarsi in esso e sappia quindi, insieme alle altre
risorse, costruire una rete di comunicazione e di interazione? Vogliamo una
scuola chiusa in se stessa o con tante finestre aperte che sappiano
guardare la realtà in tutte le sue sfaccettature: la realtà dei bambini che
cambiano, la realtà delle famiglie. Oggi le famiglie sono
diverse, ci sono famiglie adottive, affidatarie, genitori separati,
famiglie monoparentali, famiglie immigrate.
Stiamo lavorando per
una scuola in cui si abituano i bambini a competere ad ogni costo o a
cooperare. Stiamo costruendo una scuola dove il compito dell’insegnante è
quello di “travasare” sapere o anche di educare alla buona convivenza e
all’accettazione dell’altro?
1. Noi siamo per una scuola che ricostruisca la corresponsabilità, che ristabilisca il
principio della partecipazione che oggi ha un valore molto spesso puramente
formale e non di sostanza.
Dice Morin: «L’indebolimento di una percezione globale conduce all’indebolimento del senso di
responsabilità così come all’indebolimento della solidarietà, poiché ciascuno
tende a essere responsabile solo del proprio compito specializzato».
È necessario
costruire una relazione stretta tra famiglia, insegnante e
operatori. Quello che oggi sembra dominare è un gioco di reciproche
diffidenze e paure, troppo spesso si scarica gli uni con gli altri la
responsabilità innescando un circolo vizioso molto
pericoloso e soprattutto controproducente. Incontrarsi, parlare, partendo dai
bambini e non dalle nostre diffidenze e paure porterebbe
a grossi risultati, spezzerebbe il cerchio della solitudine che spesso ci tiene
segregati nelle nostre case e nei nostri ruoli. Bisogna lavorare per questo obiettivo, per costruire un rapporto solidale tra
genitori e insegnanti e operatori nell’interesse del bambino. Non è un punto di
partenza, ma un percorso che bisogna fare con fiducia e costanza e che si
costruisce con un dialogo continuo e assiduo.
2. Il compito dell’insegnante è,
secondo noi, di educare alla buona convivenza e all’accettazione dell’altro. Bisogna
costruire una scuola accogliente. Le nuove sfide che la scuola deve affrontare,
richiedono una diversa organizzazione per andare incontro ai problemi che man
mano si presentano. L’immigrazione, l’interculturalità sono degli esempi
sotto gli occhi di tutti. Il cambiamento della famiglia: le famiglie
adottive, quelle affidatarie, le famiglie separate e monoparamentali
sono un altro.
La gestione
dell’accoglienza implica all’interno dell’istituto un lavoro costante di
formazione del personale, attraverso gli strumenti che la scuola nella sua
autonomia riterrà di adottare. Ci dovrebbero essere, per esempio, spazi al di là delle aule e dei laboratori. Spazi per incontrarsi,
per ricevere i genitori… Scritte in tutte le lingue… L’ideazione, la creazione
e la gestione di alcuni spazi dovrebbero a mio avviso
essere progettati e condivisi dagli allievi e dai loro genitori. Ma soprattutto
deve esserci un insegnante accogliente, un insegnate
che sappia costruire una buona relazione educativa con ogni bambino. La
conoscenza del bambino, infatti, avviene nella relazione quotidiana, in un
colloquio costante e attento, direi instancabile
3. Per prevenire fenomeni di “bullismo” è importante che l’insegnante sappia per prima
cosa creare un “buon clima di classe”, il che vuol dire:
• che nessuno si senta mai solo;
• è compito di noi adulti far comprendere la differenza
tra scherzo e offesa, tra divertimento e aggressione dell’altro, far notare che
ciò che noi soffriamo è sofferenza anche nell’altro, che la sensibilità può
essere diversa, che qualcuno può essere più
vulnerabile di un altro;
• insegnare, quindi, l’ascolto e il dialogo;
• educare i bambini a “dare risposte”, a
essere responsabili dei loro comportamenti non per “punirli”, ma per far loro
prendere coscienza di quanto ogni piccolo gesto può far del bene o del male;
• renderli partecipi
della vita degli altri, per aiutarli a sentirsi “individui” tra altri ”individui” e non parte di un gruppo in cui comanda chi alza
di più la voce per farsi sentire.
4. Insegnare ai bambini a
raccontarsi e a rispettare le storie dell’altro. La scuola può, in questo modo,
diventare un luogo dove ogni bambino si incontra con
altre realtà di vita e può ritrovare la propria diversità in mezzo ad altre
diversità, i propri problemi in mezzo ad altri problemi. Il racconto della
propria vita è sempre vicinanza alle proprie emozioni
e per questo bisogna accostarsi in punta di piedi alle loro storie. Raccontarsi
non vuol dire “ricostruire l’albero genealogico della famiglia”, portare
fotografie, ecc. La storia di sé è legata sempre alle emozioni, ai sentimenti
ed è quindi importante accostarsi in punta di piedi. È quindi importante
parlare delle emozioni, dei sentimenti, fare letture che li aiutino
ad esprimere quello che sentono o provano, che gli diano il linguaggio per
dire.
Solo se le emozioni e i sentimenti degli allievi sono
accolti e riconosciuti come aspetti strettamente legati all’esperienza e non
come ostacolo o disturbo allo svolgimento del programma, il bambino può trovare
la forza di raccontarsi, di appropriarsi della propria
storia, anche se a volte dolorosa, come un valore e non come un motivo di
esclusione da tutti gli altri. Ogni
bambino potrà trovare una spiegazione alla sua storia personale solo se capirà
che la sua storia è compresa, accettata e non si sentirà aggredito da domande e
commenti inopportuni.
Se il bambino sa che ogni vita ha
la sua dignità, ogni storia può essere raccontata e trovare degli ascoltatori e
non dei giudici, allora il bambino dentro di sé potrà tentare di indagare su se
stesso, di accettare ciò che dentro di sé è un’ombra. Non racconterà
necessariamente una storia, ma dialogherà con gli altri sui propri ed altrui
vissuti perché c’è uno spazio psicologico in cui farlo.
5. Scuola come luogo dove non si stigmatizzi la diversità. Scoprire la propria unicità vuol
dire essere un bambino in mezzo ad altri bambini. La
sua diversità non sarà stigmatizzata.
È inimmaginabile lo stato di frustrazione derivante
dall’essere inchiodati a una definizione che distorce
e mutila la propria complessità psichica. «Il
pericolo è quell’ essere “denominati” – come afferma Binswanger
– cioè etichettati e cristallizzati in
una forma che tradisce sempre la nostra ricchezza interiore. Settorializzare la visione del bambino vuol dire veder
spesso le difficoltà come insormontabili, ci impedisce
di vederlo nella sua vera luce, nella sua specificità psicologica e coglierne
quindi le potenzialità».
Bisogna aiutare i
bambini a scoprire le proprie potenzialità. «Non
ci si può basare su quello che manca in un certo bambino, su quello che in lui
non si manifesta, ma bisogna avere un’idea di quello che possiede, di quello
che è»: così dice Vygotskj, ma questo può essere
possibile solo se avere delle difficoltà non significa essere isolati dal contesto sociale.
6. Prepararsi ad accogliere un bambino adottato o affidato vuol dire
conoscere le sue specificità. Siamo riconoscibili, a partire proprio dalla
nostra nascita, dalla nostra appartenenza o meno ad un
gruppo sociale. E per determinate nostre
caratteristiche, possiamo essere soggetti, però, a pregiudizi. Un bambino
adottato soprattutto se straniero può dover superare, più di altri, una serie di ostacoli per sentirsi inserito all’interno della propria
famiglia e in seguito all’interno del contesto più ampio di appartenenza. La
sicurezza che pian piano riesce a costruirsi nella sua famiglia a volte può vacillare di fronte al non riconoscimento esterno
dell’“altro”.
A scuola si trova a
dover affrontare le domande, le curiosità o le richieste degli insegnanti e dei
compagni e può trovarsi in difficoltà nel dare una spiegazione della sua
situazione: il genitore non è presente ed è lui che deve trovare le parole per
rispondere. Avrà difficoltà a
raccontarsi perché è difficile per i bambini capire che al mondo siamo tutti
diversi se non è l’adulto ad insegnarglielo e se non è l’adulto a fargli
comprendere che ogni diversità contiene in sé una ricchezza.
Se i bambini non
sono abituati a capire, ad accettare e valorizzare la diversità, nei momenti di
conflitto e non solo, la stigmatizzeranno.
A questi problemi si
aggiunge nel bambino l’iniziale difficoltà nell’uso della lingua italiana. Anche
se è stato preparato al nuovo ambiente e alle sue regole, gran parte di questo
viaggio avviene in solitudine e richiede un grande
lavoro interiore. è prevedibile
che spesso si troverà smarrito, impaurito e potrà reagire con comportamenti che
non sempre sono facili da decifrare (per es. l’isolamento, l’aggressività, l’iperattività, l’accentrare l’attenzione su di sé). Proprio
per seguire questo momento delicato è importante che ci sia un lavoro
coordinato tra servizi, famiglia e scuola.
È importante che gli
operatori facciano parallelamente nella scuola con il
capo d’istituto e con gli insegnanti un lavoro preventivo di informazione su
che cos’è l’adozione, sulle buone prassi nel rapportarsi sia al bambino che
alla famiglia adottiva, su come si può informare la classe su cos’è la genitorialità in generale e sulle sue varie forme.
Alla luce poi dei cambiamenti della composizione
familiare bisogna sollecitare gli insegnanti all’attenzione nell’affrontare
l’argomento nascita e famiglia. Gli argomenti da svolgere dovrebbero tener
conto degli alunni e della loro storia, della loro
sensibilità e delle loro difficoltà. Su questi argomenti si possono costruire
percorsi specifici di aggiornamento eventualmente con
strumenti didattici che prevedano anche la preparazione di eventuali libretti
esplicativi.
www.fondazionepromozionesociale.it