Prospettive assistenziali, n. 159, luglio - settembre 2007
abbandono e maltrattamenti in
strutture di ricovero per anziani: quale legge penale?
Elena Brugnone
Negli ultimi anni la stampa nazionale ha pubblicato
numerose notizie su fatti di abbandono e di
maltrattamenti perpetrati in strutture socio-sanitarie per anziani non
autosufficienti. La cronaca più eclatante parla di istituti
“lager” dove i ricoverati vivono in condizioni precarie e subiscono
maltrattamenti.
Alcuni comunicati stampa dei Nas hanno segnalato, inoltre, reati e illeciti ricorrenti
in una parte delle strutture residenziali per anziani sottoposte ad ispezione
(1). Si tratta di notizie che suscitano interrogativi inquietanti sulle
condizioni di vita dei degenti. I Nas hanno rilevato,
infatti, frequenti casi di abbandono di anziani non
autosufficienti.
Sono state scoperte alcune strutture di ricovero abusive
e altri fatti illeciti che comportano situazioni di pericolo per la salute dei
ricoverati.
Fra questi evidenzio i seguenti: esercizio abusivo della
professione sanitaria da parte di persone addette all’assistenza dei
ricoverati; somministrazione di medicinali guasti o scaduti; detenzione di alimenti in cattivo stato di conservazione o alterati.
I diversi illeciti sono accomunati da un aspetto significativo: la connessione a violazioni di legge nella
gestione di strutture per anziani e/o nell’esercizio di incarichi di assistenza
e cura interni alle stesse strutture. In riferimento a
questo grave fenomeno ritengo utile fare alcune considerazioni preliminari
sulla condizione di disagio delle persone ricoverate in strutture di cura e di
assistenza dove più frequentemente si verificano i fatti illeciti segnalati.
Salvo casi del tutto eccezionali, gli anziani degenti
presso istituti socio-sanitari sono affetti da patologie croniche invalidanti
con necessità di cure medico-infermieristiche e di assistenza
continua per il compimento dei normali atti della vita quotidiana.
Questa ricorrente condizione di malattia e di non
autosufficienza è significativa perché segnala gli
effetti della grave discriminazione sociale in atto contro i malati cronici non
autosufficienti.
Nel nostro Paese vi sono ancora numerosi ospedali che
negano il diritto alla continuità del ricovero senza limiti di durata a questi
malati. L’offerta di servizi domiciliari e di strutture socio-sanitarie non è attualmente sufficiente a rispondere alle esigenze.
In mancanza di adeguate
alternative di cura nel settore sanitario aumentano i ricoveri di persone
malate in età avanzata presso istituti di assistenza.
Ma questi ricoveri significano ulteriore
disagio per l’allontanamento definitivo dall’ambiente familiare, sociale, per
il cambiamento delle abitudini di vita e soprattutto per le carenze, spesso
vistose, delle cure sanitarie, in particolare quelle contro il dolore e gli
aggravamenti. Il personale è spesso insufficiente e non qualificato. Alcuni
addetti all’assistenza svolgono mansioni sanitarie senza l’abilitazione
professionale prescritta dalla legge. Ricorrono altri fatti illeciti come
quelli segnalati dai Nas.
Proprio in questo contesto di
emarginazione sociale si verificano casi di abbandono e di maltrattamenti per
responsabilità di amministratori e operatori di strutture assistenziali che si
comportano in violazione dei loro doveri contro gli assistiti (2).
Osservo che le vittime, normalmente, sono persone
incapaci di difendersi e di presentare denuncia penale contro i responsabili. Per
questo è di fondamentale importanza che le autorità preposte alla vigilanza
sulle strutture assistenziali assicurino controlli
frequenti e adeguati a tutela dei ricoverati.
Purtroppo la permanenza per un lungo periodo di tempo di
reati che incidono negativamente sulle condizioni di vita degli assistiti suscita pesanti dubbi sull’idoneità degli
interventi pubblici di vigilanza.
Perché alcune delle strutture “lager” scoperte dai
carabinieri sono risultate in possesso di regolari
autorizzazioni pubbliche a operare nel settore delle cure socio-sanitarie? Come
mai le autorità locali e regionali preposte alla vigilanza non hanno effettuato i controlli necessari a prevenire i casi di
maltrattamenti scoperti dai carabinieri dopo mesi o anni dall’inizio del loro
verificarsi?
Questi ed altri interrogativi interpellano lo Stato, le
Regioni e gli enti locali
affinché, nell’ambito delle rispettive competenze,
assumano iniziative concrete per affrontare il problema.
Da un lato sono necessari interventi per rispondere alle
diverse esigenze delle persone non autosufficienti in grave difficoltà,
promuovendo alternative concrete al loro ricovero e
l’effettivo riconoscimento dei loro diritti. Dall’altro lato sono utili
iniziative per assicurare una effettiva ed efficace
vigilanza pubblica su tutte le strutture sanitarie, socio-sanitarie e
assistenziali operanti nel territorio nazionale. È auspicabile, inoltre, un
intervento legislativo che si occupi anche degli aspetti penali.
Per quanto concerne la questione della vigilanza
credo che il legislatore dovrebbe fornire una apposita disciplina con la
previsione dei finanziamenti pubblici necessari a garantirne l’attuazione.
Al riguardo è auspicabile una normativa che disponga, in particolare, sui seguenti aspetti: enti
pubblici responsabili dei controlli e obblighi relativi, requisiti che il
personale e le strutture devono presentare, sanzioni amministrative da
applicare in caso di accertate violazioni di legge.
In ordine al problema dei fatti illeciti ricorrenti in una parte
delle strutture assistenziali operanti nel nostro Paese, ritengo che il
legislatore dovrebbe prenderli in seria considerazione per affrontare il
problema dal punto di vista penale.
La legge vigente non prevede autonome figure di reato
riferite specificamente alla responsabilità penale di amministratori
e operatori di strutture di ricovero che si comportano in violazione dei loro
doveri, mettendo in pericolo la salute degli utenti o causando danni agli
stessi. A tutt’oggi non è previsto alcun reato contro i responsabili di
strutture abusive per persone non autosufficienti.
Gli articoli del codice penale sui delitti di abbandono e di maltrattamenti non stabiliscono norme
specifiche per una maggiore tutela dei ricoverati contro il comportamento di
chi, invece di adempiere al proprio dovere, li abbandona o li maltratta.
Questi ed altri rilievi segnalano una questione penale su
cui ritengo utile soffermarmi per esporre qui di seguito alcune considerazioni
e proposte.
Una legge penale contro le strutture abusive
La legge penale italiana non prevede
alcun reato contro l’apertura e la gestione di strutture socio-sanitarie
abusive destinate al ricovero di persone non autosufficienti. I responsabili di
queste strutture risultano assimilati ai titolari di
“agenzie di affari ed esercizi pubblici non autorizzati o vietati” e non più
perseguibili penalmente in base all’articolo 13 del decreto legislativo n. 480
del 1994.
Questo decreto legislativo, infatti, ha
abrogato l’articolo 665 del codice penale che prevedeva il reato relativo all’apertura e alla gestione di “Agenzie di affari
ed esercizi pubblici non autorizzati o vietati”, incluse le strutture
alberghiere abusive (3). In forza di questa abrogazione,
e in mancanza di nuove norme di legge, viene sanzionato solo in via
amministrativa il comportamento illecito dei responsabili di strutture abusive
per persone non autosufficienti.
Questi gestori risultano, pertanto,
equiparati ai titolari di alberghi abusivi destinati a
persone autonome. Ma le persone non autosufficienti
ricoverate in strutture abusive non sono clienti in vacanza. Sono persone
incapaci di autogestirsi e, di conseguenza, non sono
in grado di denunciare eventuali fatti illeciti in loro
danno, né libere di andarsene quando vogliono. Si trovano in uno stato
di necessità che li costringe a rimanere nella struttura abusiva che li ospita,
anche se inadeguata alle loro esigenze.
A mio parere i responsabili di
strutture abusive per persone non autosufficienti dovrebbero essere
perseguibili penalmente perché, operando in violazione della legge, sottraggono
gli ospiti incapaci di autogestirsi ai necessari
interventi di tutela pubblica.
Occorre considerare, inoltre, che la
peculiare condizione di non autosufficienza vissuta nel
contesto di strutture non autorizzate è un fattore che favorisce il
verificarsi di casi di abbandono e di maltrattamenti.
In base a questi rilievi credo che il legislatore dovrebbe
predisporre, al più presto, una legge che preveda un reato specifico contro
l’apertura e la gestione di strutture socio-sanitarie abusive per soggetti non
autosufficienti e il sequestro delle stesse.
Una riforma dell’articolo 591 del codice penale
“Abbandono di persone minori o incapaci”
Il codice penale non prevede una norma incriminatrice che si occupi dell’abbandono di soggetti non
autosufficienti nell’ambito di strutture di ricovero.
L’articolo 591 del codice penale prevede, infatti,
un’unica fattispecie criminosa per tutti i casi di “Abbandono di persone minori
o incapaci”.
Le norme di questo articolo
conservano lo stesso testo approvato dal legislatore del 1930.
In base al primo comma è punito con la reclusione da sei
mesi a cinque anni «chiunque abbandona
una persona minore degli anni quattordici, ovvero una
persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra
causa, di provvedere a sè stessa, e della quale abbia
la custodia o debba avere cura» (4).
I limiti edittali di pena sono
aumentati da uno a sei anni di reclusione «se
dal fatto deriva una lesione personale» e da tre a
otto anni «se ne deriva la morte».
In base all’ultimo comma dell’articolo 591 è prevista,
inoltre, una circostanza che aggrava il reato in
riferimento alla relazione di parentela o coniugale o di tutela che lega il
responsabile dell’abbandono alla vittima, mentre nessun riferimento espresso
viene fatto alla gravità dell’abbandono di persone incapaci presso strutture di
ricovero in relazione a comportamenti penalmente rilevanti di dirigenti,
amministratori od operatori incaricati di curare e assistere i ricoverati.
Eppure questa forma di abbandono
è estremamente grave e merita di essere presa in considerazione dal
legislatore. Al riguardo sono significative alcune
sentenze di condanna emesse dalla Corte di Cassazione nei confronti di
amministratori di strutture assistenziali per abbandono di ricoverati anziani
malati non autosufficienti lasciati in pessime condizioni igienico-sanitarie
perché il personale non era sufficiente e privo della necessaria abilitazione
professionale (5).
Proprio in riferimento a casi
come questi
In riferimento al problema criminale dell’abbandono di
persone incapaci nel contesto di strutture di ricovero ritengo importante fare
alcuni rilievi di carattere generale. Il pericolo tipico del delitto in esame
non riguarda una sola persona ma, normalmente, una pluralità di
assistiti non autosufficienti. Si tratta di un pericolo connesso, di
solito, alla mancanza nella struttura di degenza dei requisiti di garanzia per la cura e l’assistenza ai ricoverati non
autosufficienti.
La responsabilità è riconducibile al comportamento di chi
si occupa dei servizi di cura per gli assistiti e viola i doveri connessi a questo incarico.
Gli stessi amministratori sono responsabili qualora
lascino i ricoverati in situazione di costante pericolo
perché, ad esempio, il personale impiegato non è qualificato e insufficiente
rispetto al numero dei ricoverati da assistere. Questa forma di
abbandono presenta una peculiare potenzialità criminale quando dipende
dalla responsabilità di chi dirige o comunque si occupa della cura e
dell’assistenza dei ricoverati in quanto si verifica in strutture istituite
proprio con lo scopo di curare e di assistere persone incapaci di
autodifendersi.
Si tratta di situazioni di pericolo che, spesso, si
protraggono per un lungo periodo di tempo prima di essere scoperte e, di
conseguenza, è più facile che si verifichino anche
danni alla salute dei ricoverati a causa delle carenze nell’assistenza e nella
cura.
Occorre considerare, inoltre, che la persistenza nel
tempo dell’abbandono può causare gravissime sofferenze, quando le omissioni di assistenza e di cura si ripetono giorno dopo giorno
contro persone gravemente non autosufficienti. In questi casi l’abbandono in
strutture di ricovero incide negativamente sulle condizioni di vita e di salute
delle vittime, assumendo una rilevanza lesiva peculiare per le
quali, a mio avviso, dovrebbe essere previsto un reato specifico più
grave di quelli attualmente stabiliti.
In base ai rilievi esposti credo che il legislatore
dovrebbe predisporre una riforma dell’articolo 591 del codice penale che
preveda espressamente norme penali contro le diverse forme di
abbandono di persone incapaci. La responsabilità penale di chi ha
incarichi direttivi o curativi o assistenziali presso
una struttura di ricovero dovrebbe essere presa in autonoma considerazione con
la previsione di specifiche figure di reato. L’intervento legislativo potrebbe
dare un indirizzo preciso all’autorità giudiziaria che attualmente,
in mancanza di norme espresse, dispone di un’ampia discrezionalità di
valutazione sui casi di abbandono di persone incapaci.
Occorre, inoltre, considerare l’esigenza di assicurare
una tutela tempestiva ai soggetti in stato di abbandono
degenti presso strutture gravemente inadeguate alle loro esigenze. Al riguardo
è auspicabile la previsione di provvedimenti giudiziari urgenti come, ad
esempio, la sospensione dagli incarichi direttivi dei responsabili e la contestuale nomina di un amministratore straordinario.
Per quanto riguarda la pena per il delitto di abbandono, credo che i limiti edittali
previsti dall’articolo 591 del codice penale dovrebbero essere opportunamente
aumentati. È utile, inoltre, una specifica previsione di pene accessorie per
impedire che amministratori e operatori condannati per il delitto di abbandono dei loro assistiti ritornino a occupare
incarichi presso strutture assistenziali o sanitarie.
Una riforma
dell’articolo 572 del codice penale “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”
Il nostro codice penale non prevede norme che riguardino specificamente i maltrattamenti perpetrati in
strutture di ricovero contro uno o più assistiti.
Per questi fatti si applica, a tutt’oggi, l’articolo 572
del codice penale intitolato “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” che
conserva il testo approvato dal legislatore del 1930. Persiste la formale
classificazione di questo reato fra i delitti contro la famiglia. Ma il legislatore dovrebbe decidersi a classificarlo fra i
delitti contro la persona.
L’articolo 572, primo comma, prevede che è punito con la
reclusione da uno a cinque anni «chiunque,
fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della
famiglia, o un minore di 14 anni, o una persona sottoposta alla sua autorità, o
a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per
l’esercizio di una professione o di un’arte».
Il riferimento fatto ai casi indicati nell’articolo
precedente (articolo 571 del codice penale) (7) è previsto per distinguere il
delitto di maltrattamenti dal delitto, ritenuto dalla legge meno grave, di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.
Questo possibile uso distorto dell’articolo
Ritornando all’articolo 572 osservo che il secondo comma
distingue tre casi di maltrattamenti ritenuti più gravi in
relazione all’entità del danno subito dalla vittima. È prevista la
reclusione da quattro a otto anni «se dal fatto deriva una lesione personale grave» (9); la reclusione da sette a quindici anni «se ne deriva una lesione gravissima»; la
reclusione da dodici a venti anni «se ne
deriva la morte».
Il codice penale non prevede, invece, un delitto
specifico relativo ai maltrattamenti perpetrati in strutture di cura e di assistenza contro uno o più ricoverati ovvero in altri
contesti, anche familiari, contro bambini, persone malate o soggetti non
autosufficienti. Questi casi vengono messi sullo
stesso piano dei maltrattamenti contro persone che, pur essendo in posizione di
subordinazione rispetto a chi li maltratta, sono comunque capaci di autogestirsi e denunciare i fatti. Penso, ad esempio, al
caso del lavoratore dipendente maltrattato dal datore di lavoro.
Credo che il legislatore in sede di riforma di questo
delitto dovrebbe stabilire norme penali specifiche che tengano conto della
peculiare gravità del reato nei confronti di persone
incapaci di difendersi. Al riguardo è necessaria un’attenzione legislativa
particolare per il problema dei maltrattamenti nei confronti dei minori in
famiglia, in istituto e in altri contesti ambientali. Non
entro nel merito specifico dei contenuti di norme penali che interessano la
tutela dei minori, ma ritengo importante segnalarne, comunque,
la necessità per una trattazione più approfondita in altra sede.
Prendendo in considerazione il problema dei
maltrattamenti contro assistiti ricoverati osservo che
ricorrono elementi tipici di gravità che impongono la previsione di autonome
figure di reato. Penso, in particolare, alla peculiare posizione dei
responsabili e alle conseguenti situazioni di pericolo o di danno per una
pluralità di vittime.
Al riguardo ritengo utile evidenziare due fattispecie che
ricorrono tipicamente nei casi di maltrattamenti contro persone ricoverate in
strutture sanitarie e assistenziali e che dovrebbero,
a mio avviso, ispirare la formulazione di autonome figure di reato.
La prima fattispecie è caratterizzata da omissioni di
cura e di assistenza, mancanza di igiene, pasti
preparati con alimenti avariati o in cattivo stato di conservazione, e altri
fatti che incidono negativamente sulle condizioni di vita di una pluralità di
assistiti. In questo caso i maltrattamenti sono con-nessi ad una cattiva
gestione che non rispetta le esigenze di vita degli assistiti. I responsabili
sono consapevoli delle conseguenze negative sulla salute dei loro assistiti e,
ciò nonostante, tengono abituali comportamenti in violazione dei loro doveri e
in danno dei ricoverati (10).
La seconda fattispecie è caratterizzata da comportamenti
vessatori che si manifestano attraverso un’aggressione abituale diretta contro
una o più persone ricoverate. Il responsabile non adempie al
proprio incarico rifiutando di prestare l’assistenza e le cure necessarie,
trattando con parole e gesti ingiuriosi l’assistito, minacciandolo. I
comportamenti vessatori si aggravano quando
intervengono anche atti di violenza fisica. In questi casi il dolo dei
responsabili è caratterizzato dalla volontà diretta a vessare le vittime dei
maltrattamenti (11).
Alla luce dei rilievi esposti credo che il legislatore in
sede di riforma del delitto in questione dovrebbe prevedere norme incriminatrici specifiche al fine di dare un indirizzo
preciso all’autorità giudiziaria.
È necessaria la previsione di limiti edittali
di pena più elevati di quelli previsti dal primo comma dell’articolo 572 e di
pene accessorie specifiche per l’interdizione da incarichi direttivi e assistenziali dei responsabili. Sono auspicabili, inoltre,
norme che stabiliscano provvedimenti urgenti a tutela
degli assistiti.
In mancanza di queste previsioni di legge, osservo che, a
tutt’oggi,
i ricoverati trovati in precarie condizioni di vita presso strutture, dove i
responsabili vengono indagati per il delitto in questione, rischiano di
continuare a subire vessazioni in attesa dei necessari urgentissimi interventi
di tutela.
Occorre, inoltre, rilevare che, grazie ai bassi limiti di
pena previsti dal primo comma dell’articolo 572, i
responsabili di maltrattamenti nei confronti di uno o più assistiti possono
patteggiare una reclusione non superiore ai due anni (articolo 444 del codice
di procedura penale). Con il patteggiamento si ottiene il beneficio della non
applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza (articolo 445
del codice di procedura penale). Ciò significa che, se un amministratore o un
operatore imputato per maltrattamenti patteggia e ottiene anche la sospensione
condizionale della pena, può ritornare a lavorare nella struttura dove ha
commesso il delitto.
È vero che il secondo comma
dell’articolo 572 del codice penale prevede pene più elevate, ma fa
dipendere la maggiore gravità dei fatti dalla prova che i maltrattamenti
abbiano causato lesioni gravi (malattia che mette in pericolo la vita o che
dura più di quaranta giorni) o menomazioni gravissime ovvero la morte della
vittima.
Credo che i maltrattamenti che incidono negativamente
sulle condizioni di salute degli assistiti sono fatti molto gravi
indipendentemente dalla prova della entità delle
conseguenze lesive. Occorre, peraltro, evidenziare che gran parte dei
ricoverati in strutture dove si verificano
maltrattamenti si trovano già in condizioni di rilevante non autosufficienza
per malattie croniche degenerative e invalidanti.
La condizione delle vittime, unitamente alla prova di abituali omissioni di assistenza e cura e/o di altri
comportamenti vessatori nei loro confronti, dovrebbe bastare per imporre una
valutazione di maggiore gravità dei fatti rispetto alla fattispecie semplice
prevista dal primo comma dell’articolo 572.
In conclusione, alla luce di tutti i rilievi esposti,
credo che il legislatore dovrebbe avviare al più presto la predisposizione di
una legge che affronti i diversi aspetti del problema dal punto di vista
penale. È necessario un intervento legislativo che esprima
una chiara valutazione di gravità contro fatti illeciti come quelli ricorrenti
in strutture di ricovero per persone non autosufficienti e preveda una maggiore
tutela per tutti i degenti. Senza questa legge le forme di emarginazione
sociale che favoriscono i maltrattamenti contro le persone più deboli e
indifese continueranno a trovare le condizioni favorevoli per svilupparsi.
(1) Cfr. “Controlli effettuati dai Nas sulle strutture residenziali per anziani: altre allarmanti infrazioni penali e amministrative”, Prospettive
assistenziali, n. 143, 2003.
(2) Cfr. Corte di Cassazione, Sezione V, 9 maggio
1986; Giorgini, Cassazione penale, 1987, 1094; Corte
di Cassazione, Sezione V, 22 novembre 1989, n. 1016; Bruni, Cassazione penale
1990, 1349, con nota di Domenico Carcano; Corte di
Cassazione, Sezione VI, 30 maggio 1990; Cosco,
Cassazione penale 1992, 1505, n. 776; Corte di Cassazione, Sezione V, 28 marzo
1990, Mancini, Cassazione penale 1992, 614; Corte di Cassazione, Sezione V, 21
ottobre 1992, n. 832; Dramis, Rivista penale, 1993,
1131; Corte di Cassazione, Sezione VI, 17 ottobre 1994; Fiorillo, Cassazione
penale 1996, 511, n. 243, con nota di Rocco Blaiotta,
“Maltrattamenti nelle istituzioni assistenziali e
dovere di solidarietà”; Corte di Cassazione, Sezione V, 28 novembre 1997;
Cimino, Gazzetta giuridica, Giuffrè, Italia Oggi
(22), 1998, 30.
(3) L’articolo 665 del codice penale stabiliva quanto segue: «Chiunque senza la licenza dell’Autorità, o
senza la preventiva dichiarazione alla medesima, quando siano
richieste, apre o conduce agenzie d’affari, stabilimenti o esercizi pubblici,
ovvero per mercede alloggia persone, o le riceve in convitto o in cura, è
punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a lire un milione. Se la licenza è stata negata, revocata o sospesa, le pene
dell’arresto e dell’ammenda si applicano congiuntamente. Qualora, ottenuta la licenza, non si osservino le altre
prescrizioni della legge o dell’Autorità, la pena è dell’arresto fino a tre
mesi o dell’ammenda fino a lire seicentomila».
(4) L’articolo 591 del codice penale “Abbandono di persone minori e incapaci” dispone quanto segue «chiunque
abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero
una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per
altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba
avere cura, è punito con la reclusione
da sei mesi a cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi abbandona
all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel
territorio dello Stato per ragioni di lavoro. La pena è della reclusione da uno
a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte.
Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal
tutore o dal coniuge, ovvero dall’adottante o
dall’adottato».
(5) Cfr. la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V, 22
novembre 1989, n. 1016; Bruni, Cassazione
penale, 1990, 1349, con nota di Domenico Carcano;
Sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V, 21 ottobre 1992; Dramis, Rivista
penale, 1993, 1131.
(6) Cfr. Corte di Cassazione,
Sezione V, 22 novembre 1989, n. 1016; Bruni, Cassazione penale, 1990, 1349, con nota di Domenico Carcano.
(7) L’articolo 571 del codice penale “Abuso dei mezzi di correzione o di
disciplina” prevede quanto segue: «Chiunque
abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta
alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione,
cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di
un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o
nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una lesione
personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione
da tre a otto anni».
(8) Cfr. Corte di Cassazione, Sezione V, 86/173956;
Corte di Cassazione, Sezione VI, 96/205033; Commentario
breve al Codice penale, Complemento giurisprudenziale a cura di Giuseppe Zuccalà, quarta edizione, Cedam,
1996, p. 1429 e Appendice di aggiornamento 1996-1998, Cedam, 1998, p. 255.
(9) L’articolo 583 del codice penale definisce nel seguente modo i concetti
di lesione personale grave e gravissima. La lesione personale è grave: 1) se
dal fatto deriva una malattia
che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una
malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo
superiore ai quaranta giorni; 2) se il fatto produce l’indebolimento permanente
di un senso o di un organo; 3) se del fatto deriva l’accelerazione del parto. La
lesione personale è gravissima se dal fatto deriva: 1) una malattia certamente
o probabilmente insanabile; 2) la perdita di un senso; 3) la perdita di un
arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero
la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una
permanente e grave difficoltà della favella; 4) la deformazione ovvero lo
sfregio permanente del viso; 5) l’aborto della persona offesa.
(10) Cfr. Corte di Cassazione, Sezione VI, 30 maggio
1990 (deposito 16 gennaio 1991); Cosco, Cassazione penale, 1992, 1505, n. 776;
Corte di Cassazione, Sezione V, 21 ottobre 1992, n. 832 (deposito 1 febbraio
1993); Dramis, Rivista
penale, 1993, 1131; Corte di Cassazione, Sezione VI, 17 ottobre 1994
(deposito 19 novembre 1994); Fiorillo, Cassazione
penale, 1996, 511, n. 243, con nota di Rocco Blaiotta,
“Maltrattamenti nelle istituzioni assistenziali e
dovere di solidarietà”.
(11) Cfr. il n. 64, 1983,
di Prospettive assistenziali, in cui
è pubblicato il testo integrale della sentenza del Tribunale di Venezia, del 24
novembre 1982, relativa a gravi maltrattamenti contro anziani malati non
autosufficienti ricoverati presso la casa di riposo “Villa Lucia” di Mestre. La
condanna di sette degli otto imputati (dipendenti della casa di riposo, addetti
all’assistenza dei ricoverati nel reparto infermeria uomini) per il delitto di
maltrattamenti (capo di imputazione I) è stata
confermata dalla Corte di appello di Venezia con sentenza 10 maggio 1984 n. 954
e, successivamente, anche dalla Corte di
Cassazione. Nonostante la condanna penale, i
responsabili non sono stati nemmeno licenziati.
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