Prospettive assistenziali, n. 159, luglio - settembre 2007

 

 

I DIRITTI DELLE PERSONE IN CONDIZIONE DI DISAGIO E IL RUOLO DEL TERZO SETTORE

Francesco Santanera

 

 

Su Aggiornamenti sociali, giugno 2006, rivista dei Gesuiti dei Centri studi di Milano e Palermo, è riportato un articolo del gruppo “oltre il giardino” operante a Genova, di cui fanno parte «operatori, coinvolti a diverso livello nel lavoro sociale».

partendo dalla considerazione che il lavoro sociale «ha il suo centro nella persona», i componenti del gruppo sostengono che detta attività si esprime «principalmente attraverso la relazione operatore-utente» e che proprio da detta relazione si realizza una «azione di trasformazione culturale della società».

Il concetto della funzione risolutiva della relazione operatore-utente è ripreso più volte nell’articolo del gruppo genovese. Ad esempio, viene affermato che «le garanzie di un risultato del lavoro sociale sono indissolubilmente legate alla capacità di generare relazioni di aiuto efficace», che «il momento di messa alla prova di un servizio alla persona si realizza proprio nella relazione tra operatore e utente» e che «la relazione operatore-utente [è] il cuore del lavoro sociale».

Affermano, inoltre, che gli operatori sono i «principali promotori di possibili istanze di cambiamento nei servizi», nonché «parte fondante della coscienza critica dello Stato sociale».

Mentre sono sicuramente assai importanti il ruolo di analisi e di proposta degli operatori e la loro corretta relazione con gli utenti, è evidente l’esigenza primaria della messa a disposizione dei nuclei familiari e delle singole persone in difficoltà delle prestazioni materiali occorrenti per il superamento delle situazioni di disagio.

Ad esempio, i genitori che lavorano a tempo pieno non riescono a seguire a casa loro 24 ore su 24 e 365 giorni all’anno il figlio colpito da grave handicap intellettivo che ha terminato la scuola dell’obbligo e non è autosufficiente. Pertanto o il figlio può frequentare un centro diurno, oppure l’impossibilità dei suoi congiunti di continuare ad accoglierlo a casa loro non viene risolta o attenuata, nonostante la disponibilità umana e professionale degli operatori e le valide relazioni da essi instaurate con il soggetto in questione.

Com’è ovvio, l’esigenza di poter usufruire di adeguati supporti materiali riguarda tutti gli ambiti sociali: la sanità per le attività di cura e riabilitazione delle persone affette da malattie acute o croniche; la casa con particolare riguardo alla idoneità dell’alloggio e all’ammontare del canone di locazione; la scuola e la  formazione professionale anche per quanto concerne la frequenza degli allievi con handicap.

Analoghe considerazioni valgono per il lavoro, i trasporti e gli altri settori di intervento che dovrebbero essere predisposti e organizzati in modo da agire altresì per la prevenzione e risoluzione delle situazioni di disagio.

Certamente se detti sostegni vengono forniti da operatori che instaurano validi rapporti con gli utenti, questi ultimi beneficeranno non solo di aiuti materiali indispensabili per le loro esigenze, ma anche di relazioni molto positive sotto il profilo umano, sociale e culturale.

 

Dimenticati gli utenti dei servizi e le loro organizzazioni

Nell’articolo in oggetto viene affermato che «la dialettica tra servizi erogati dall’ente pubblico e quelli erogati dal terzo settore è importante per alimentare il confronto sulla qualità degli stessi, la comprensione dei bisogni, la garanzia dei diritti e contribuire all’autoregolazione del sistema».

La sopra riportata asserzione riguarda questioni di fondamentale importanza: chi sono gli attori a cui compete analizzare i bisogni, individuare le relative idonee risposte e garantire i diritti?

 

Ruolo del settore pubblico e delle organizzazioni sociali

È ovvio che spetta al settore pubblico (Parlamento, Regioni, Comuni, ecc.) definire le linee politiche di intervento e garantire i necessari finanziamenti e gli opportuni controlli.

Ritengo però inaccettabile che per determinare le attività da svolgere, gli enti pubblici stabiliscano, come propone il gruppo “Oltre il giardino”, rapporti solamente con il terzo settore.

in tutto l’articolo non c’è una sola parola riguardante il ruolo degli utenti in merito alla individuazione dei loro bisogni e alle relative prestazioni.

Si tratta di una posizione assai preoccupante, in quanto non solo i destinatari dei servizi, ma anche i soggetti (ad esempio, gli affidatari di minori o di altri soggetti) direttamente coinvolti nelle prestazioni, sono di fatto considerati incapaci di fornire alcun positivo apporto alla definizione e valutazione delle linee di intervento.

A mio avviso occorrerebbe, invece, che non solo gli enti pubblici ma anche le strutture del terzo settore riconoscessero il ruolo attivo delle organizzazioni degli utenti e del volontariato per quanto concerne l’accertamento delle esigenze, la programmazione delle attività e il funzionamento dei servizi, nonché la verifica dei risultati raggiunti (1).

Invece, in merito alle singole prestazioni, gli operatori, a qualsiasi organizzazione appartengano, dovrebbero sempre tenere in attenta ponderazione le richieste degli utenti.

Aspetto significativo della scarsa considerazione degli utenti del settore socio-assistenziale è l’assenza di ogni loro concreta possibilità di ricorso, mentre detta facoltà è prevista nel campo delle competenze della sanità (2).

Anche questa situazione non è stata oggetto di riflessione da parte degi operatori “Oltre il giardino”.

 

Il ruolo assegnato dalle istituzioni al terzo settore

Circa il ruolo assegnato dalle istituzioni al terzo settore, non si può certamente fare a meno di ricordare il protocollo di intesa tra il Governo e il Forum permanente del terzo settore sottoscritto in data 12 febbraio 1999 dall’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Massimo D’Alema, dai Ministri per la solidarietà sociale e del lavoro Livia Turco e Antonio Bassolino nonché, a nome e per conto del Forum, da Franco Marzocchi e da Nuccio Jovine.

Come era stato a suo tempo osservato (3), una delle caratteristiche salienti dell’intesa era il riconoscimento ufficiale, da parte del Governo D’Alema, del terzo settore quale soggetto politico, sociale ed economico in grado di «corrispondere in modo efficace alla domanda insoddisfatta di servizi di interesse collettivo e al diffuso bisogno di “beni relazionali” necessari per la convivenza civile e la coesione sociale», e di incentivare «l’occupabilità dei lavoratori svantaggiati».

I sopra citati compiti assegnati al terzo settore sono stati confermati dalla legge 328/2000 di riforma dell’assistenza, dalle relative normative approvate dalle Regioni, nonché dai Governi che si sono succeduti dal 1999 ad oggi.

Com’era facilmente prevedibile, l’attribuzione al terzo settore dei compiti sopra indicati non ha affatto apportato modifiche sostanziali alle situazioni di emarginazione dei soggetti più deboli.

Infatti, com’è evidente, le cause dell’esclusione sociale dipendono essenzialmente dalle misure politiche e sociali assunte dalle istituzioni e non dalla semplice gestione di attività.

È altresì indubitabile che gli spazi di autonomia concessi dalle istituzioni agli enti gestori sono estremamente limitati.

Come rileva giustamente il gruppo “Oltre il giardino”, il ruolo degli operatori del terzo attore «è fortemente penalizzato proprio dall’inserimento in organizzazioni oggettivamente dipendenti dal finanziamento pubblico».

Orbene, detto condizionamento non riguarda certamente solo il personale del terzo settore, ma coinvolge gli addetti di tutti i servizi privati e pubblici, nonché le organizzazioni che hanno ottenuto dal settore pubblico la gestione di funzioni operative.

Si comprende, pertanto, il vero motivo della assenza di iniziative da parte degli enti privati gestori dei servizi, compresi quelli facenti parte del terzo settore, nei confronti delle situazioni più deleterie per gli utenti, ad esempio le dimissioni illegali e spesso selvagge degli anziani cronici non autosufficienti da ospedali e da case di cura private convenzionate, le vistose carenze di interventi nei confronti dei soggetti con handicap intellettivi gravi e gravissimi e la richiesta, non ammessa dalle vigenti disposizioni di legge, di contribuzioni economiche ai parenti degli assistiti.

Non si conoscono, infatti, cooperative o altre organizzazioni private che gestiscono servizi affidati dal settore pubblico che abbiano assunto posizioni contrastanti con le linee politiche di Comuni, Province e Asl a cui sia stata rinnovata l’assegnazione di attività.

D’altra parte non si può richiedere agli operatori degli enti pubblici e privati, terzo settore compreso, di assumere iniziative a livello personale o di gruppo a difesa delle persone alle quali le istituzioni negano diritti anche fondamentali.

Infatti, in questi casi gli addetti non solo mettono in pericolo ogni loro progressione di carriera, ma rischiano di perdere il posto di lavoro o di essere isolati nei cosiddetti “reparti confino”.

Anche se vi sono esempi di gestione corretta di attività da parte del terzo settore, occorre valutarne i limiti. Ad esempio il trasferimento di giovani con handicap intellettivo lieve, e quindi in possesso di potenzialità lavorative, dai tradizionali sorpassati istituti di ricovero alle comunità alloggio di dimensioni familiari gestite da uno stabile gruppo di operatori motivati (4), ha certamente migliorato notevolmente le loro condizioni di vita.

Tuttavia, se non sono stati predisposti dall’ente pubblico competente i corsi di formazione prelavoritiva (5) e non sono state attuate le misure occorrenti per l’inserimento presso aziende pubbliche o private dei soggetti in grado di svolgere una attività lavorativa proficua, la loro condizione continua ad essere quella di emarginati sociali, anche se in misura attenuata rispetto alla precedente situa­zione.

Alla luce delle considerazioni esposte, risultano insostenibili le affermazioni del gruppo “Oltre il giardino” che nell’articolo in questione sostengono che «il terzo settore esiste indipendentemente dalle provvidenze pubbliche» e che «la collaborazione paritaria con l’ente locale può avvenire solo se il terzo settore si rende autonomo, capace di definire liberamente la sua identità. In questo modo potrà affrancarsi da una posizione subordinata, da una funzione ancellare rispetto agli enti pubblici».

Infatti, com’è evidente, il terzo settore vive e può continuare ad operare solamente se gli enti pubblici gli affidano la gestione dei servizi.

 

L’alternativa proposta dal gruppo “Oltre il giardino”

Il gruppo “Oltre il giardino” ritiene che per superare le attuali carenze sia possibile una azione di coordinamento «di tutte le fasi del processo di realizzazione di una politica o di un intervento sociale» da concordare fra il pubblico e il terzo settore.

Secondo il suddetto gruppo «non si tratta di spartire meccanicamente o rigidamente al 50% fra “pubblico” e “privato” ogni fase (pianificazione, programmazione, gestione, valutazione, ecc.) o di negare il ruolo sovraordinato del “pubblico” che discende dai suoi compiti istituzionali», ma di «proporre un progetto che impegni i diversi soggetti chiamati in campo dalla legge 328/2000 ad analizzare i seguenti compiti:

1) definizione concertata e contrattata delle regole del gioco, che metta al centro la qualità dei ser­vizi;

2) definizione di sistemi di informazione (Carte dei servizi) e di accesso al sistema integrato;

3) accreditamento dei fornitori in modo che il settore pubblico e il terzo settore siano sottoposti agli stessi criteri di qualità;

4) promozione della scelta da parte del cittadino/cliente/utente sulla base dei prezzi dei diversi servizi accreditati;

5) forme di tutela del cittadino, se e quando non è capace di scegliere da solo;

6) forme di promozione della capacità di azione sociale degli utenti, della qualità dei servizi erogati dalle organizzazioni del terzo settore, della professionalità di operatori e volontari;

7) forme di controllo della qualità dell’erogazione dei servizi basati principalmente sull’ascolto dei clienti e degli operatori di contatto;

8) forme di gestione pubblica diretta di servizi per definire gli standard e per garantire segmenti strategici della rete di offerta dei servizi stessi;

9) valutazione congiunta da parte degli attori individuati dalla legge n. 328/2000 sulla base di regole e valori fondanti stabiliti insieme».

A mio avviso le suddette proposte sono molto preoccupanti in quanto incentrate sull’applicazione della legge 328/2000 di riforma dell’assistenza e dei servizi sociali che non stabilisce alcun diritto esigibile da parte dei cittadini e dei nuclei familiari e lascia quindi al settore pubblico l’assoluta discrezione di intervenire o non agire anche nei casi in cui i mancati interventi siano la causa dell’emarginazione di persone e di nuclei familiari.

 

Una proposta di collaborazione fra il terzo settore e le forze sociali

La proposta che mi accingo a fare parte da tre considerazioni.

In primo luogo ognuno di noi può, ad esempio a seguito di un handicap o di una malattia invalidante, diventare un utente dei servizi sanitari e, nei casi in cui le patologie siano gravemente invalidanti, di quelli socio-sanitari.

Dunque, anche i dirigenti e gli operatori del terzo settore hanno un interesse diretto ad ottenere il riconoscimento effettivo del diritto alle prestazioni sanitarie e socio-sanitarie, domiciliari, semiresidenziali e residenziali, diritto – lo ricordo – sancito dalle leggi vigenti (la prima, la n. 692, risale addirittura al 1955) ma quasi mai rispettato dalle istituzioni con la conseguenza che gli interessati e/o i loro congiunti nel caso necessitino di essere ricoverati in strutture residenziali, sono costretti a subire oneri anche nella misura di 60-70 mila euro prima che le Asl provvedano al pagamento della quota sanitaria che, invece, dovrebbe essere versata fin dal momento dell’insorgere della cronicità ai sensi delle norme sui Lea (Livelli essenziali di assistenza) di cui all’articolo 54 della legge 289/2002.

In secondo luogo ritengo che la posizione subalterna rispetto alle istituzioni degli enti gestori possa essere attenuata solamente se vengono predisposte alleanze fra le forze sociali che costringano il settore pubblico a tener conto delle esigenze dei soggetti deboli.

Se non si interviene per tutelare le proprie e altrui esigenze, anche nella considerazione – lo ripeto – che ognuno di noi può diventare non autosufficiente da un giorno all’altro a seguito di malattie o handicap invalidanti – le istituzioni certamente continueranno a fornire le minori prestazioni possibili con la solita scusa della mancanza di risorse economiche.

Mentre per i motivi che ho già esposto, non credo possibile l’intervento dei singoli operatori e delle  singole strutture gestionali, mi sembra che abbiano la concreta possibilità di agire le federazioni delle organizzazioni del terzo settore.

Si tratta, infatti, di strutture non coinvolte nella gestione di attività e quindi le cui risorse economiche non derivano direttamente dalle erogazioni del settore pubblico.

Inoltre, poiché ad esse fanno riferimento numerosi enti, hanno una non indifferente forza contrat­tuale.

L’intesa fra dette federazioni e le disponibili associazioni di volontariato e di tutela degli utenti può determinare la presenza di un gruppo di interlocutori che le istituzioni non possono ignorare.

Non si tratta di ricercare, fra le suddette entità, intese su tutti i problemi: sarebbe un successo notevole l’elaborazione di una piattaforma volta a rivendicare diritti esigibili su una sola questione di rilevanza sociale.

A questo proposito occorre tener conto che da sempre i diritti esigibili sono lo strumento più efficace per la difesa delle esigenze delle persone deboli e sono, altresì, alternativi alle ingiustizie sociali, al disinteresse dei burocrati e alle prepotenze dei più forti.

 

 

 

(1) Per quanto riguarda le realizzazioni promosse dal volontariato, si veda il volume di Giuseppe D’Angelo, Anna Maria Gallo e Francesco Santanera, Il volontariato dei diritti - Quarant’anni di esperienze nei settori della sanità e dell’assistenza, Utet Libreria.

(2) L’articolo 41 della legge 12 febbraio 1968 n. 132 stabilisce che le norme concernenti l’ordinamento interno degli ospedali devono disciplinare “la possibilità di ricorso da parte dell’infermo”. L’articolo 4 della legge 23 ottobre 1985 n. 595 recita: «Avverso gli atti con cui si nega o si limita ai cittadini la fruibilità delle prestazioni di assistenza sanitaria, sono ammesse osservazioni ed opposizioni in via amministrativa redatte in carta semplice, da presentarsi entro quindici giorni dal momento in cui l’interessato abbia avuto conoscenza dell’atto contro cui intende osservare od opporsi, al comitato di gestione dell’Unità sanitaria locale, che decide in via definitiva entro quindici giorni». La seconda parte del 5° comma dell’articolo 14 del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 502 è redatto come segue: «Al fine di garantire la tutela del cittadino avverso gli atti o comportamenti con i quali si nega o si limita la fruibilità delle prestazioni di assistenza sanitaria, sono ammesse osservazioni, opposizioni, denunce o reclami in via amministrativa, redatti in carta semplice, da presentarsi entro quindici giorni dal momento in cui l’interessato abbia avuto conoscenza dell’atto contro cui intende osservare od opporsi, da parte dell’interessato, dei suoi parenti o affini, degli organismi di volontariato o di tutela dei diritti accreditati presso la Regione competente, al direttore generale dell’unità sanitaria locale o dell’azienda che decide in via definitiva entro quindici giorni, sentito il direttore sanitario. La presentazione delle anzidette osservazioni ed opposizioni non impedisce né preclude la proposizione di impugnative in via giurisdizionale».

(3) Cfr. “Intesa fra Governo e il Forum del terzo settore per l’emarginazione sociale dei cittadini aventi limitate capacità di autodifesa”, Prospettive assistenziali, n. 127, 1999. Nello stesso numero della rivista è riportato integralmente il testo del protocollo d’intesa.

(4) Una delle caratteristiche molto negative delle strutture gestite dal terzo settore o da altri enti privati è l’alto livello del turnover, situazione che crea notevoli disagi agli utenti.

(5) Cfr. Maria Grazia Breda e Francesco Santanera, Handicap: oltre la legge quadro - Riflessioni e proposte, Utet Libreria.

 

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