Prospettive assistenziali, n. 159, luglio - settembre 2007

 

 

SUPPORTI ECONOMICI PER LE CURE DOMICILIARI DELLE PERSONE COLPITE DA PATOLOGIE INVALIDANTI E DA NON AUTOSUFFICIENZA

MAURO PERINO *

 

 

Premessa

Il testo della petizione popolare volta ad ottenere che nelle leggi della Regione Piemonte siano inseriti diritti esigibili per i cittadini più deboli – promossa da numerose associazioni di volontariato e di cui è in corso la raccolta di firme (le prime 10mila sono già state consegnate al Presidente della Giunta regionale) – si pone, quale primo obiettivo, il riconoscimento del diritto alle cure sanitarie domiciliari (assistenza domiciliare integrata e ospedalizzazione a domicilio).

A tal fine i promotori richiedono che la Regione Piemonte si impegni a garantire agli adulti ed agli anziani cronici non autosufficienti, ai malati di Alzheimer ed ai pazienti affetti da sindromi correlate o da disturbi psichiatrici invalidanti, il diritto esigibile alle prestazioni domiciliari nei casi in cui siano contemporaneamente soddisfatte le seguenti condizioni: «Non vi siano controindicazioni cliniche o di altra natura; il soggetto sia consenziente e gli possano essere fornite le necessarie cure mediche e infermieristiche, nonché, se occorrenti, quelle riabilitative; i congiunti o soggetti terzi siano disponibili ad assicurare l’occorrente sostegno domiciliare e siano riconosciuti idonei dall’ente erogatore; siano previsti interventi di emergenza sia nel caso che i congiunti o soggetti terzi non siano più in grado di prestare gli interventi di loro competenza, sia qualora insorgano esigenze del soggetto che ne impongano il ricovero presso idonee strutture; i costi a carico delle Asl e/o dei Comuni non siano superiori a quelli di loro spettanza nei casi di ricovero presso strutture residenziali; ai congiunti e ai soggetti terzi venga riconosciuto il ruolo di volontariato intrafamiliare e ad essi venga versato dalle Asl, nella misura del 60% della retta corrisposta alle Rsa (Residenze sanitarie assistenziali) un rimborso forfettario delle spese sostenute per le cure domiciliari, compresi gli oneri derivanti dalle sostituzioni della persona responsabile delle cure domiciliari per le occorrenti incombenze personali e familiari (acquisti, commissioni, ecc.)».

Per comprendere appieno l’importanza di tale rivendicazione occorre tenere presente che, attualmente, è prassi ordinaria dimettere gli anziani cronici non autosufficienti da ospedali e case di cura private convenzionate, ponendoli a totale carico dei congiunti e dei conviventi (nello “scarico” non si fanno infatti differenze fra coniugati e non coniugati). Questa “soluzione” – spesso motivata con l’appello ai presunti “doveri morali” della famiglia – oltre ad essere illegittima (1), non ne considera nemmeno la reale situazione. Secondo l’analisi effettuata dal Centro Studi dell’Università romana di Tor Vergata (sui più recenti dati Istat del 2004) «295.572 famiglie (l’1,3% della popolazione) sono precipitate al di sotto della soglia di povertà a causa delle spese sanitarie sostenute. E altri 967.619 nuclei familiari (4,2% della popolazione), sempre per ragioni sanitarie, sono state sottoposte a “spese catastrofiche”. Il 45,6% delle famiglie impoverite è composta da anziani soli o da coppie di anziani senza figli. E comunque (…) la grande maggioranza delle famiglie soggette ad impoverimento (circa il 65,3%) conta almeno un membro anziano. Un over 65, inoltre, fa crescere del 42% la probabilità di impoverimento, e se gli anziani sono due, o più, l’aumento è del 50 per cento». Secondo la ricerca, inoltre, «sono ben 1,2 milioni i nuclei familiari costretti a pagarsi la salute out of pocket (…). Con alcune componenti che pesano più di tutte: i farmaci, la specialistica, l’odontoiatria e la long term care, almeno per le famiglie che possono permettersela» (2).

Appare chiaro che le famiglie di cui sopra sono vittime della diseguaglianza sociale che si va diffondendo (3). L’Italia è infatti annoverata «tra i Paesi che destinano» – alla spesa sociale – «meno risorse (25,18% del Pil tra il 2000 e il 2006), e le spese sanitarie e per gli anziani rappresentano poco meno del 75% della spesa sociale complessiva. I pensionati sono 16.561.600 (in media prendono 12.500 euro l’anno, ma 4 milioni di persone prendono meno di 500 euro mensili mentre mezzo milione oltre 2.000 euro)» (4).

 

Il riconoscimento del diritto alle cure sanitarie e socio-sanitarie domiciliari

Per quanto attiene al tema del diritto alle cure molto è stato scritto – sulle pagine di questa rivista – anche con riferimento alle implicazioni derivanti dall’applicazione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001 (5) e 29 novembre 2001 (6), sempre ribadendo «la piena competenza del Servizio sanitario nazionale nei confronti di tutti i malati, siano essi giovani o adulti o anziani, colpiti da patologie acute e croniche, gua­ribili o inguaribili, autosufficienti o non autosufficienti» (7).

Proprio alla luce della normativa che regola l’erogazione delle prestazioni sociali e sanitarie è però opportuna una ulteriore e più approfondita riflessione. Si tratta infatti di capire se il vigente impianto normativo – incardinato sull’utilizzo strumentale del concetto di integrazione tra sociale e sanitario (8) – consente all’utenza più debole di esigere sin d’ora, dal sistema sanitario, le prestazioni necessarie ad assicurare il diritto alle cure erogate a livello domiciliare.

L’articolo 3 septies del decreto legislativo 502/1992 sviluppa nel dettaglio il concetto di integrazione socio-sanitaria fornendo, al primo comma, la seguente definizione delle prestazioni socio-sanitarie. «Si definiscono prestazioni socio-sanitarie tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale in grado di garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra le azioni di cura e quelle di riabilitazione».

Il secondo comma dell’articolo individua due tipologie di prestazioni socio-sanitarie: a) le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, ovvero le «attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite»; b) le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, cioè tutte le «attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute».

Alle tipologie di cui sopra si aggiungono le prestazioni ad elevata integrazione sanitaria che il quarto comma definisce come «caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria e attengono prevalentemente alle aree materno-infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenza da droga, alcool e farmaci, patologie per infezioni da Hiv e patologie in fase terminale, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative».

Pur rinviando «all’atto di indirizzo e coordinamento di cui all’articolo 2, comma 1, lettera n) della legge 30 novembre 1998, n. 419» l’individuazione delle prestazioni da ricondurre alle tipologie a), b) e di quelle da inserire nella fattispecie delle prestazioni ad elevata integrazione sanitaria, nell’articolo in oggetto vengono fissati alcuni punti fermi in ordine al problema delle competenze istituzionali. Le prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria sono «assicurate dalle aziende sanitarie e comprese nei livelli essenziali di assistenza sanitaria, secondo le modalità individuate dalla vigente normativa e dai piani nazionali e regionali, nonché dai progetti-obiettivo nazionali e regionali». Le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria «sono di competenza dei comuni che provvedono al loro finanziamento negli ambiti previsti dalla legge regionale ai sensi dell’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112».

L’individuazione del soggetto competente ad erogare le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale è, nell’articolo esaminato, meno precisa e va ricercata nel precedente articolo 3 quinquies, comma 1, lettera c), ove si afferma – con riferimento alle funzioni e risorse del distretto sanitario – che quest’ultimo deve garantire «l’erogazione delle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, connotate da specifica ed elevata integrazione, nonché delle prestazioni sociali di rilevanza sanitaria se delegate dai comuni». In sintesi il quadro delle competenze – delineato con legge dello Stato –  risulta così composto: alle Aziende sanitarie locali compete l’erogazione delle «prestazioni sanitarie a rilevanza sociale connotate da specifica ed elevata integrazione» e di quelle «ad elevata integrazione sanitaria»; ai Comuni quelle «sociali a rilevanza sanitaria» (salvo delega alle Asl).

Alla competenza ad erogare le prestazioni è collegata, in modo però diversificato, l’attribuzione dell’onere finanziario degli interventi. Infatti, se vi è perfetta coincidenza tra gestione e “pagamenti” per quanto attiene alle prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria (fondo sanitario) ed a quelle sociali a rilevanza sanitaria (fondi comunali), per le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale si procede diversamente. L’articolo 3 septies, comma 3, del decreto legislativo 502/1992 demanda infatti ad uno specifico “atto di indirizzo” l’individuazione, sulla base dei principi e criteri direttivi fissati nell’articolo, non solo delle prestazioni da ricondurre alle tipologie individuate dalla legge, ma anche dei «criteri di finanziamento delle stesse per quanto compete alle Unità sanitarie locali e ai Comuni».

Nella fattispecie delle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, connotate da specifica ed elevata integrazione, avremo dunque, secondo questa chiave di lettura, una titolarità in capo all’Azienda sanitaria – che dovrà gestire gli interventi attraverso il distretto di cui all’art. 3 ter del decreto legislativo – ed una competenza finanziaria da suddividere tra fondo sanitario e fondo assistenziale.

A tali indirizzi si conforma, a ben vedere, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001 “Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie” che, addirittura, attribuisce alle Asl le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale anche se non connotate da specifica ed elevata integrazione. L’articolo 3, comma 1, del decreto afferma infatti che le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, in quanto tali, sono «di compe­tenza delle aziende unità sanitarie locali ed a carico delle stesse, sono inserite in progetti personalizzati di durata medio/lunga e sono erogate in regime ambulatoriale, domiciliare o nell’ambito di strutture residenziali e semiresidenziali». Lo stesso articolo, al comma 3, con riferimento alle prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria conferma, inoltre, che «sono erogate dalle aziende sanitarie e sono a carico del fondo sanitario. Esse possono essere erogate in regime ambulatoriale domiciliare o nell’ambito di strutture residenziali e semiresidenziali e sono in particolare riferite alla copertura degli aspetti del bisogno socio-sanitario inerenti le funzioni psicofisiche e la limitazione delle attività del soggetto, nelle fasi estensive e di lungoassistenza».

Nella sostanza il decreto – pur confermando le competenze istituzionali indicate dalla legge di riferimento – rinvia alle regioni la concreta definizione delle prestazioni socio-sanitarie di cui all’articolo 3 septies del decreto legislativo 502/1992, limitandosi ad indicare alcuni criteri di riferimento: l’assistenza socio-sanitaria viene prestata sulla base di «progetti personalizzati redatti sulla scorta di valutazioni multidimensionali»; le prestazioni sono definite tenendo conto della natura del bisogno, della complessità, dell’intensità e della durata dell’intervento assistenziale; l’intensità è stabilita in base a fasi temporali: la fase intensiva, quella estensiva ed infine la fase di lungo assistenza.

Fasi che dovranno anche scandire l’attribuzione, ai diversi soggetti chiamati in causa, della spesa sostenuta per le prestazioni. Come nel caso della «cura e recupero funzionale di soggetti non autosufficienti non curabili a domicilio, tramite servizi residenziali a ciclo continuativo e diurno, compresi interventi e servizi di sollievo alla famiglia» rivolti ad «anziani e persone non autosufficienti con patologie cronico degenerative» ove gli oneri sono posti a carico del fondo sanitario per il 100% in fase intensiva e (per quanto attiene alle prestazioni ad elevata integrazione) nella fase estensiva; mentre nella fase di lungo assistenza, il costo addebitato al fondo sanitario si riduce al 50% e, per la restante parte, viene chiamato ad intervenire l’utente e/o il Comune.

A completare lo scenario normativo di riferimento interviene il successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 novembre 2001 che, all’allegato 1.C, definisce i livelli essenziali di assistenza (Lea) con riferimento all’area dell’integrazione socio-sanitaria. Si tratta di un decreto (molto importante in quanto ha assunto forza di legge dello Stato con l’approvazione dell’articolo 54 della legge 289/2002) che occorre, pur brevemente, esaminare per capire se introduce novità nella definizione delle competenze istituzionali fissate dal decreto legislativo di riferimento e riprese – nelle linee generali – dall’atto di indirizzo del 14 febbraio 2001.

Nella premessa dell’allegato 1.C – parte integrante e sostanziale del decreto sui Lea – si afferma che «nella tabella riepilogativa, per le singole tipologie erogative di carattere socio-sanitario, sono evidenziate, accanto al richiamo alle prestazioni sanitarie, anche quelle sanitarie di rilevanza sociale ovvero le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo non attribuibile alle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario nazionale. In particolare, per ciascun livello sono individuate le prestazioni a favore di minori, donne, famiglia, anziani, disabili, pazienti psichiatrici, persone con dipendenza da alcool, droghe e farmaci, malati terminali, persone con patologie da Hiv».

Se la congiunzione coordinativa disgiuntiva “ovverofosse da intendersi come “oppure” saremmo in presenza di una tipologia di prestazioni non prevista dal decreto legislativo 502/1992 al quale l’atto di indirizzo è vincolato ad attenersi e, in tal caso, «le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo non attribuibile alle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario nazionale» andrebbero ricondotte, pena l’illegittimità dell’atto stesso, alla tipologia delle prestazioni sanitarie a rilievo sociale. Se, di contro, con quel termine, si è inteso specificare che, tra le prestazioni sanitarie di rilevanza sociale, rientrano anche quelle «a componente non distinguibile» (e per le quali gli oneri vengono convenzionalmente attribuiti in misura percentuale agli utenti/Comuni) allora vale quanto detto precedentemente con riferimento all’atto di indirizzo del 14 febbraio 2001 (esplicitamente citato, quale fonte normativa, nel decreto che definisce i livelli essenziali per il sistema sanitario).

In buona sostanza è legittimo sostenere che entrambi i decreti (il secondo dei quali, come si è detto, con forza di legge) assegnano la titolarità di tutte le prestazioni sanitarie e sanitarie a rilevanza sociale elencate nei rispettivi allegati alla titolarità del comparto sanitario (9). Alle tipologie d’utenza menzionate dai decreti, le Asl devono dunque assicurare, tra le altre prestazioni, anche quelle erogate nell’ambito dell’assistenza domiciliare integrata e programmata (Adp) in quanto comprese tra i livelli essenziali di assistenza e, come tali, pienamente esigibili (10).

Fatta ovviamente salva la competenza dei Comuni nell’erogazione delle prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, che si sostanziano nella messa a disposizione delle competenze professionali di area sociale – ove necessarie per la realizzazione dei percorsi assistenziali socio-sanitari – e nell’assolvimento della funzione di sostegno economico nei confronti degli utenti che – a causa del basso livello di reddito – non possono assumere, a proprio carico, gli oneri non sanitari degli interventi. Sono altresì a carico dei Comuni gli ordinari servizi socio-assistenziali (tra i quali rientra l’aiuto domestico e familiare).

 

Il riconoscimento del volontariato intrafamiliare

Nell’ambito del macro-livello «assistenza territoriale ambulatoriale e domiciliare», successivamente declinato nel micro-livello «assistenza programmata a domicilio (Adi e Adp)», il decreto prevede l’erogazione delle seguenti prestazioni di livello essenziale: «a) prestazioni a domicilio di medicina generale, pediatria di libera scelta; b) prestazioni a domicilio di medicina specialistica; c) prestazioni infermieristiche a domicilio; d) prestazioni riabilitative a domicilio; e) prestazioni di aiuto infermieristico e assistenza tutelare alla persona; f) prestazioni di assistenza farmaceutica, protesica e integrativa». In base ai protocolli che regolano l’assistenza, tali prestazioni possono essere erogate singolarmente o integrate tra loro.

Con riferimento alle «prestazioni di aiuto infermieristico e assistenza tutelare alla persona» menzionate alla lettera e) – che nell’ambito dell’assistenza domiciliare integrata e nell’ospedalizzazione a domicilio vengono svolte, nella maggioranza dei casi, dai congiunti o da terzi che si impegnano a provvedere alle cure dell’anziano non autosufficiente – la petizione popolare richiede che le Asl riconoscano il ruolo del volontariato intrafamiliare erogando un contributo economico forfettario (11) corrispondente al 60% della quota sanitaria della retta che il Servizio sanitario regionale assume a suo carico in caso di ricovero in Rsa (Residenze sanitarie assistenziali).

Dal punto di vista normativo una risposta positiva da parte della Regione Piemonte a tale rivendicazione risulterebbe ampiamente legittima, non solo con riferimento alle leggi nazionali, ma anche perché conforme al disposto dell’articolo 49, comma 2, lettere c), f) e g) della legge regionale 1/2004, secondo il quale «i principi per lo svolgimento delle attività di promozione regionale delle politiche per le persone anziane sono i seguenti: (…) c) potenziamento dei servizi di supporto alla famiglia, compresi contributi economici e assegni di cura per quelle famiglie che si fanno carico di garantire l’assistenza di un proprio componente anziano non autosufficiente; (…) f) affidamento di anziani a famiglie selezionate al fine di favorire l’anziano nel mantenimento delle proprie abitudini di vita e del proprio contesto territoriale; g) realizzazione di forme di accoglienza familiare notturna (…)».

L’attività socio-sanitaria di cura svolta in Piemonte nell’ambito delle Rsa grava attualmente sul fondo sanitario per il 54% della retta giornaliera di 86 euro e, quindi, il valore del contributo sanitario è di circa 1.400 euro mensili che vengono corrisposti, alla struttura, indipendentemente dalle risorse economiche del malato.

Dato atto che – anche in regime di assistenza programmata a domicilio (Adi e Adp) – l’assistenza tutelare (che si concretizza attraverso l’erogazione di fondamentali prestazioni di cura della persona) viene, in ogni caso, posta a carico del Servizio sanitario almeno nella misura del 50%, cosa impedisce di prevedere l’erogazione di contributi sanitari, quantificati con riferimento al valore di una “retta sanitaria”, a coloro che accudiscono l’anziano cronico non autosufficiente? Si tratterebbe, semplicemente, di una diversa modalità di erogazione di «attività integrate socio-sanitarie», comunque esigibili, che anche l’articolo 35, comma 1, della legge regionale 1/2004, pone a parziale carico del fondo sanitario regionale.

Posto che senza l’assunzione di una responsabilità di cura da parte dei congiunti, sarebbe vano qualunque intervento professionale finalizzato ad evitare il ricovero in struttura, occorre che le Asl riconoscano, in primo luogo, il valore dell’attività svolta a titolo volontario dai familiari o da terzi. A tal fine le Asl dovrebbero corrispondere un «contributo di sostegno al volontariato intrafamiliare» di 840 euro – pari al 60% della quota sanitaria erogata alle Rsa – a coloro che si impegnano a provvedere alle cure domiciliari dell’anziano non autosufficiente.

Come avviene per l’indennità di accompagnamento (il cui importo mensile è di 457,66 euro), così per la somma sopra indicata le Asl non dovrebbero avere alcun potere circa la destinazione specifica da parte di coloro che accolgono l’anziano, mentre – ovviamente – dovrebbero controllare puntualmente la qualità delle prestazioni fornite al paziente direttamente dai congiunti anche con l’ausilio di assistenti familiari dagli stessi remunerati.

 

Il riconoscimento dell’assegno di cura

A proposito della remunerazione del lavoro privato di cura – reso necessario dal fatto che la maggioranza degli anziani non autosufficienti è costituita da persone di età molto avanzata, per cui i congiunti hanno, a loro volta, oggettive difficoltà a provvedere autonomamente all’assistenza – occorre rimarcare che i costi di assunzione di un assistente familiare, soprattutto se co-residente, sono diventati estremamente onerosi.

Come rileva Sergio Pasquinelli «un’assistente familiare convivente costa adesso, contributi compresi, tra 1.000 e 1.300 euro al mese, a seconda del livello in cui si colloca. Cui si devono aggiungere le spese di vitto e alloggio. Il totale si avvicina ai 1.500 euro al mese» (12). Inoltre, a fronte della necessità di coprire le 168 ore della settimana, l’orario massimo del personale di aiuto domiciliare è di 54 ore se co-residente, altrimenti è di 40 ore. Con la conseguenza che spesso non è sufficiente l’assunzione di una sola persona .

Per le ragioni suddette è opportuno che qualora la persona colpita da patologie invalidanti e da non autosufficienza, per poter continuare ad essere curata a domicilio, richiedesse prestazioni ag­giuntive – di valore economico superiore a quello risultante dalla somma del “contributo di sostegno al volontariato intrafamiliare” mensile dell’Asl di 840 euro e dell’indennità di accompagnamento di 457,66 euro (in totale 1.290 euro al mese) – si preveda che il soggetto interessato e/o l’accuditore (13) possano presentare istanza all’Asl per ottenere un sostegno economico integrativo – configurato come “assegno di cura” – espressamente finalizzato a coprire le ulteriori spese (effettivamente sostenute per la regolare remunerazione degli assistenti familiari) fino alla concorrenza massima di 360 euro mensili.

In tal modo, si contrasterebbe fattivamente il prevedibile aumento del mercato nero – conseguente all’applicazione del nuovo contratto di colf ed assistenti familiari – consentendo, ai “datori di lavoro”, di sostenere i rilevanti costi dell’assistenza a domicilio a fronte di un impegno economico dell’Asl comunque inferiore a quello derivante dall’assunzione di una retta sanitaria (al massimo 1.200 euro mensili, tra “contributo di sostegno al volontariato intrafamiliare” ed “assegno di cura”, contro i 1.400 euro mensili di una retta in Rsa).

È appena il caso di aggiungere che – nei casi di ulteriori necessità – verrebbe chiamato ad intervenire il Comune, che dovrebbe valutare le richieste di sostegno economico tenendo conto delle risorse economiche personali (redditi e beni) del malato, secondo i criteri adottati per l’integrazione delle rette nelle strutture residenziali.

 

Considerazioni conclusive

La vigente normativa della Regione Piemonte prevede il diritto alla continuità assistenziale. In particolare la deliberazione della Giunta regionale del 20 dicembre 2004, n. 72-14420 “Percorso di continuità assistenziale per anziani ultrasessantacinquenni non autosufficienti o persone i cui bisogni sanitari e assistenziali siano assimilabili ad anziano non autosufficiente” delinea il percorso del paziente che necessita di continuità assistenziale, successiva al ricovero ospedaliero, prevedendo che lo stesso possa essere sviluppato – nell’arco temporale di sessanta giorni e con oneri economici a carico del fondo sanitario – in strutture dedicate alla riabilitazione o alla lungodegenza; in strutture residenziali (anche in regime definitivo); al domicilio attraverso le cure domiciliari o l’ospedalizzazione a domicilio. Secondo quanto stabilito dalla deliberazione regionale il percorso – al termine della durata prevista ed ove necessiti – può proseguire attraverso l’utilizzo di altre risposte socio-sanitarie appropriate: cure domiciliari in regime di lungo assistenza; interventi economici a sostegno della domiciliarità; semiresidenzialità; residenzialità.

Nonostante l’erogazione di interventi economici a sostegno delle cure domiciliari venga individuata dalla Regione come possibile risposta alle esigenze delle persone con patologie croniche tali da determinare condizioni di non autosufficienza (14), ad oggi, la prassi di gran lunga prevalente tra le Asl, si allinea sulla tesi della impossibilità a fornire, direttamente, tali interventi (15). Quando va bene, le Asl si fanno carico del rimborso (parziale) della spesa sostenuta dagli enti gestori socio-assistenziali: i quali, però, erogano spesso gli “assegni di cura” previa valutazione del reddito del beneficiario (e magari, in violazione della norma, anche del nucleo familiare di appartenenza).

È evidente che, in tal modo, il contributo economico erogato non può rappresentare una valida alternativa al ricovero in struttura. Mentre la “quota sanitaria” di una retta in Rsa viene erogata, a prescindere dal reddito dell’utente, almeno sino alla concorrenza del 50% della retta totale, l’assegno di cura, così come attualmente valorizzato in termini economici, non rappresenta un efficace ausilio per i congiunti che possano e vogliano farsi carico del paziente anziano.

Con l’erogazione diretta da parte della Asl di “contributi di sostegno al volontariato intrafamiliare” e di “assegni di cura” sino ad un massimale di spesa, per il fondo sanitario di 1.200 euro mensili (e dunque inferiore ad una “quota sanitaria”) si potrebbe effettivamente assicurare che l’utente compia un percorso di continuità assistenziale “graduato” in base all’evoluzione delle sue effettive esigenze di cura. Un percorso che dovrebbe iniziare con una precoce presa in carico nella quale – ad integrazione delle prestazioni domiciliari che il Servizio sanitario eroga direttamente – i congiunti vengono sostenuti, nell’accudimento dell’anziano, con il contributo forfettario; che potrebbe proseguire con il riconoscimento dell’assegno di cura (ove si renda necessario l’impiego di operatori terzi per un numero elevato di ore); che dovrebbe prevedere momenti di “ricovero di sollievo” (finanziati, in primo luogo, con le somme destinate ai contributi ed agli assegni, la cui erogazione verrebbe interrotta per la durata dell’inserimento temporaneo in struttura); che consentirebbe di assicurare – con una minima integrazione di spesa da parte delle Asl – il ricovero definitivo ove venissero meno le condizioni che consentono il mantenimento dell’utente al domicilio (anche in questo caso utilizzando “l’impegno di spesa” stanziato per l’utente che, nelle situazioni più gravi, risulterebbe già quantificato nell’86% circa della retta sanitaria da corrispondere alla struttura).

Con le nuove procedure di presa in carico, l’utenza non sarebbe costretta ad individuare nel ricovero l’unica soluzione possibile alle esigenze di cura determinate dall’insorgere di una condizione di non autosufficienza. E neppure a collocarsi in “lista d’attesa” per “prenotare” l’inserimento, in previsione di un temuto ulteriore decadimento delle condizioni di salute. L’anziano ed i congiunti che ad esso provvedono avrebbero, infatti, la sicurezza di poter beneficiare dell’inserimento se (e quando) si rendesse effettivamente necessario darvi corso. È infine appena il caso di osservare che – garantendo una effettiva continuità assistenziale – sarebbe possibile – per le Unità di valutazione geriatriche – programmare gli inserimenti attraverso il monitoraggio costante dei piani assistenziali individualizzati delle persone in carico.

 

 

* Direttore del Cisap, Consorzio dei servizi alla persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino).

(1) I congiunti non hanno alcun obbligo giuridico di assicurare le attività di cura assegnate, dalle leggi vigenti, al servizio sanitario nazionale. Legge 4 agosto 1955 n. 692: l’assistenza deve essere fornita senza limiti di durata alle persone colpite da malattie specifiche della vecchiaia; decreto del Ministro del Lavoro del 21 dicembre 1956: l’assistenza ospedaliera deve essere assicurata a tutti gli anziani quando gli accertamenti diagnostici, le cure mediche o chirurgiche non siano normalmente praticabili a domicilio; legge 12 febbraio 1968 n. 132, articolo 29: le Regioni devono programmare i posti letto ospedalieri necessari a soddisfare le esigenze dei malati acuti, cronici, convalescenti e lungodegenti; legge 13 maggio 1978 n. 180: le Usl devono assicurare a tutti i cittadini, qualsiasi sia la loro età, le necessarie prestazioni dirette alla prevenzione, cura e riabilitazione delle malattie mentali; legge 23 dicembre 1978 n. 833: le Usl sono obbligate a provvedere alla tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che possono concorrere alla loro emarginazione, qualunque siano le cause, la fenomenologia e la durata delle malattie; articolo 54 della legge 289/2002 che conferma l’obbligo del Servizio sanitario nazionale di curare anche le persone colpite da cronicità e da non autosufficienza.

(2) Roberto Turno, “Famiglie più povere per la sanità”, Il Sole 24 ore, n. 331, 8 dicembre 2006.

(3) Secondo i dati presentati nel “Rapporto Eurispes 2007”, oltre il 50% delle famiglie ha un reddito mensile inferiore a  1.900 euro al mese. Inoltre, l’indebitamento delle famiglie per spese mediche e personali risulta quantificato in 50.000 milioni di euro (più 4,7% rispetto all’anno 2005). Fonte: Luca Fazio, “L’Italietta del neofeudalesimo”, Il Manifesto, 27 gennaio 2007.

(4) Ibidem.

(5) Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001 “Atto di indirizzo in materia di prestazioni socio-sanitarie”.

Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 novembre 2001 “Definizione dei livelli essenziali di assistenza”.

(6) Cfr. “Una petizione per difendere le esigenze e i diritti della fascia più debole della popolazione dai truffaldini livelli essenziali di assistenza”, Prospettive assistenziali, n. 137, 2002.

(7) Mauro Perino, “Con la scusa dell’integrazione”, Appunti sulle politiche sociali, n. 3, 2002.

(8) «Le prestazioni sanitarie comprese nei livelli essenziali di assistenza» – e tra queste quelle contenute nell’allegato 1.C Area dell’integrazione socio sanitaria del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 novembre 2001 – «sono garantite dal servizio sanitario nazionale a titolo gratuito o con la partecipazione alla spesa, nelle forme e secondo le modalità previste dalla legislazione vigente» (art. 1, comma 3, decreto legislativo 502/1992).

(9) Nell’ambito dell’assistenza domiciliare integrata sono poste a carico del fondo sanitario le prestazioni a domicilio di medicina generale e specialistica, di assistenza infermieristica e di riabilitazione. Sono invece suddivise al 50% tra Servizio sanitario nazionale e Comuni – sempre fatta salva la compartecipazione dell’utente – l’assistenza tutelare. È infine posto a totale carico del Comune l’aiuto domestico e familiare.

(10) Tale contributo non verrebbe finalizzato al pagamento diretto delle attività, ma costituirebbe un semplice rimborso delle spese vive, come previsto dalla legge 266/1991. Si procederebbe cioè in analogia con le modalità adottate da anni per il sostegno degli affidamenti extra ed intra familiari. Cfr. Mauro Perino, “Esperienze di affidamento intrafamiliare di disabili intellettivi adulti”, Appunti sulle politiche sociali, n. 2, 2002; Mauro Perino, “Volontariato intrafamiliare: dalla sperimentazione al regolamento”, Prospettive assistenziali, n. 144, 2003.

(11) Sergio Pasquinelli, “Ancora più mercato nero? Contratto colf e badanti co-residenti”, Qualificare: newsletter sul lavoro privato di cura, n. 9, 2007.

(12) Si ritiene preferibile il termine “accuditore” a quello di “caregiver”.

(13) Con riferimento agli interventi economici di sostegno, oltre alla citata deliberazione della Giunta regionale 20 dicembre 2004, n. 72-14420 è da segnalare la deliberazione della Giunta della Regione Umbria 25 luglio 2006, n. 1347 “Sperimentazione assegno di cura e sostegno per interventi sanitari e socio-assistenziali per persone con gravissime disabilità”.

(14) Da tale prassi si discosta l’Asl 6 che, con deliberazione del 1° ottobre 2003, ha approvato il regolamento per l’erogazione sperimentale di assegni di cura agli anziani malati cronici non autosufficienti. Cfr. “Assegni di cura per anziani cronici non autosufficienti: due delibere contrastanti per i medesimi utenti”, Prospettive assistenziali, n. 148, 2004.

(15) Da tale prassi si discosta l’Asl 6 che, con deliberazione del 1° ottobre 2003, ha approvato il regolamento per l’erogazione sperimentale di assegni di cura agli anziani malati cronici non autosufficienti. Cfr. “Assegni di cura per anziani cronici non autosufficienti: due delibere contrastanti per i medesimi utenti”, Prospettive assistenziali, n. 148, 2004.

 

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