Prospettive assistenziali, n. 159, luglio - settembre 2007
SUPPORTI
ECONOMICI PER LE CURE DOMICILIARI DELLE PERSONE COLPITE DA PATOLOGIE
INVALIDANTI E DA NON AUTOSUFFICIENZA
MAURO PERINO *
Premessa
Il testo della petizione popolare volta ad ottenere che
nelle leggi della Regione Piemonte siano inseriti diritti esigibili per i
cittadini più deboli – promossa da numerose associazioni di volontariato e di
cui è in corso la raccolta di firme (le prime 10mila sono già state consegnate
al Presidente della Giunta regionale) – si pone, quale primo obiettivo, il
riconoscimento del diritto alle cure sanitarie domiciliari (assistenza domiciliare integrata e ospedalizzazione a domicilio).
A tal fine i promotori richiedono che
Per comprendere appieno l’importanza di tale
rivendicazione occorre tenere presente che, attualmente,
è prassi ordinaria dimettere gli anziani cronici non autosufficienti da
ospedali e case di cura private convenzionate, ponendoli a totale carico dei
congiunti e dei conviventi (nello “scarico” non si fanno infatti differenze fra
coniugati e non coniugati). Questa “soluzione” – spesso
motivata con l’appello ai presunti “doveri morali” della famiglia – oltre ad
essere illegittima (1), non ne considera nemmeno la reale situazione. Secondo
l’analisi effettuata dal Centro Studi dell’Università romana di Tor Vergata (sui più recenti dati Istat
del 2004) «295.572 famiglie (l’1,3% della
popolazione) sono precipitate al di sotto della soglia
di povertà a causa delle spese sanitarie sostenute. E
altri 967.619 nuclei familiari (4,2% della popolazione), sempre per ragioni
sanitarie, sono state sottoposte a “spese catastrofiche”. Il 45,6% delle
famiglie impoverite è composta da anziani soli o da
coppie di anziani senza figli. E comunque (…) la
grande maggioranza delle famiglie soggette ad impoverimento (circa il 65,3%)
conta almeno un membro anziano. Un over 65, inoltre, fa crescere del 42% la
probabilità di impoverimento, e se gli anziani sono
due, o più, l’aumento è del 50 per cento». Secondo la ricerca, inoltre, «sono ben 1,2 milioni i nuclei familiari
costretti a pagarsi la salute out of pocket (…). Con
alcune componenti che pesano più di tutte: i farmaci,
la specialistica, l’odontoiatria e la long term care,
almeno per le famiglie che possono permettersela» (2).
Appare chiaro che le famiglie di cui sopra sono vittime
della diseguaglianza sociale che si va diffondendo
(3). L’Italia è infatti annoverata «tra i Paesi che destinano» – alla spesa
sociale – «meno risorse (25,18% del Pil tra il 2000 e il 2006), e le spese sanitarie e per gli
anziani rappresentano poco meno del 75% della spesa sociale complessiva. I
pensionati sono 16.561.600 (in media prendono 12.500 euro l’anno,
ma 4 milioni di persone prendono meno di 500 euro mensili mentre mezzo
milione oltre 2.000 euro)» (4).
Il riconoscimento del diritto alle cure
sanitarie e socio-sanitarie domiciliari
Per quanto attiene al tema del diritto alle cure molto è stato scritto – sulle pagine di questa rivista
– anche con riferimento alle implicazioni derivanti dall’applicazione dei
decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001 (5) e 29
novembre 2001 (6), sempre ribadendo «la
piena competenza del Servizio sanitario nazionale nei confronti di tutti i
malati, siano essi giovani o adulti o anziani, colpiti da patologie acute e
croniche, guaribili o inguaribili, autosufficienti o non autosufficienti» (7).
Proprio alla luce della normativa che regola l’erogazione
delle prestazioni sociali e sanitarie è però opportuna
una ulteriore e più approfondita riflessione. Si tratta
infatti di capire se il vigente impianto normativo – incardinato
sull’utilizzo strumentale del concetto di integrazione tra sociale e sanitario
(8) – consente all’utenza più debole di esigere sin d’ora, dal sistema
sanitario, le prestazioni necessarie ad assicurare il diritto alle cure erogate
a livello domiciliare.
L’articolo 3 septies del
decreto legislativo 502/1992 sviluppa nel dettaglio il concetto di integrazione
socio-sanitaria fornendo, al primo
comma, la seguente definizione delle prestazioni socio-sanitarie. «Si definiscono prestazioni
socio-sanitarie tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che
richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale
in grado di garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra le azioni di
cura e quelle di riabilitazione».
Il secondo comma dell’articolo individua due tipologie di
prestazioni socio-sanitarie: a) le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, ovvero le «attività
finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione,
rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie
congenite e acquisite»; b) le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria,
cioè tutte le «attività del sistema
sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con
problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute».
Alle tipologie di cui sopra si aggiungono le prestazioni
ad elevata integrazione sanitaria che il quarto comma definisce come «caratterizzate da particolare rilevanza
terapeutica e intensità della componente sanitaria e
attengono prevalentemente alle aree materno-infantile,
anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenza da droga, alcool e
farmaci, patologie per infezioni da Hiv e patologie
in fase terminale, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative».
Pur rinviando «all’atto
di indirizzo e coordinamento di cui all’articolo 2,
comma 1, lettera n) della legge 30 novembre 1998, n. 419» l’individuazione
delle prestazioni da ricondurre alle tipologie a), b) e di quelle da inserire
nella fattispecie delle prestazioni ad elevata integrazione sanitaria,
nell’articolo in oggetto vengono fissati alcuni punti fermi in ordine al
problema delle competenze istituzionali. Le prestazioni socio-sanitarie ad
elevata integrazione sanitaria sono «assicurate
dalle aziende sanitarie e comprese nei livelli essenziali di assistenza
sanitaria, secondo le modalità individuate dalla vigente normativa e dai piani
nazionali e regionali, nonché dai progetti-obiettivo nazionali e regionali». Le
prestazioni sociali a rilevanza sanitaria
«sono di competenza dei comuni
che provvedono al loro finanziamento negli ambiti previsti dalla legge
regionale ai sensi dell’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 112».
L’individuazione del soggetto competente ad erogare le
prestazioni sanitarie a rilevanza sociale
è, nell’articolo esaminato, meno precisa e va ricercata nel precedente articolo
3 quinquies, comma 1, lettera c), ove si afferma –
con riferimento alle funzioni e risorse del distretto sanitario – che quest’ultimo deve garantire «l’erogazione delle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale,
connotate da specifica ed elevata integrazione, nonché delle prestazioni
sociali di rilevanza sanitaria se delegate dai comuni». In sintesi il quadro delle competenze – delineato con legge dello Stato – risulta così composto: alle Aziende sanitarie
locali compete l’erogazione delle «prestazioni
sanitarie a rilevanza sociale connotate
da specifica ed elevata integrazione» e di quelle «ad elevata integrazione sanitaria»; ai Comuni quelle «sociali a rilevanza sanitaria» (salvo
delega alle Asl).
Alla competenza ad erogare le prestazioni è collegata, in
modo però diversificato, l’attribuzione dell’onere
finanziario degli interventi. Infatti, se vi è perfetta
coincidenza tra gestione e “pagamenti” per quanto attiene alle prestazioni
socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria (fondo sanitario) ed a quelle
sociali a rilevanza sanitaria (fondi comunali), per le prestazioni sanitarie a
rilevanza sociale si procede diversamente. L’articolo 3 septies, comma 3, del decreto legislativo 502/1992 demanda infatti ad uno specifico “atto di indirizzo”
l’individuazione, sulla base dei principi e criteri direttivi fissati
nell’articolo, non solo delle prestazioni da ricondurre alle tipologie
individuate dalla legge, ma anche dei «criteri
di finanziamento delle stesse per quanto compete alle Unità sanitarie locali e
ai Comuni».
Nella fattispecie delle prestazioni sanitarie a rilevanza
sociale, connotate da specifica ed elevata integrazione, avremo
dunque, secondo questa chiave di lettura, una titolarità in capo all’Azienda sanitaria – che dovrà gestire gli interventi
attraverso il distretto di cui all’art. 3 ter del
decreto legislativo – ed una competenza finanziaria da suddividere tra fondo
sanitario e fondo assistenziale.
A tali indirizzi si conforma, a ben vedere, il decreto
del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001 “Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni
socio-sanitarie” che, addirittura, attribuisce alle Asl
le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale anche se non connotate da
specifica ed elevata integrazione. L’articolo 3, comma 1, del decreto afferma infatti che le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale,
in quanto tali, sono «di competenza
delle aziende unità sanitarie
locali ed a carico delle stesse, sono inserite in progetti personalizzati di
durata medio/lunga e sono erogate in regime ambulatoriale, domiciliare o
nell’ambito di strutture residenziali e semiresidenziali». Lo stesso articolo, al comma 3, con riferimento alle
prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria conferma,
inoltre, che «sono erogate dalle aziende sanitarie e sono a carico del
fondo sanitario. Esse possono essere erogate in regime ambulatoriale
domiciliare o nell’ambito di strutture residenziali e semiresidenziali e sono in particolare riferite alla copertura degli aspetti del
bisogno socio-sanitario inerenti le funzioni psicofisiche e la limitazione
delle attività del soggetto, nelle fasi estensive e di lungoassistenza».
Nella sostanza il decreto – pur confermando le competenze
istituzionali indicate dalla legge di riferimento – rinvia alle regioni la concreta definizione delle
prestazioni socio-sanitarie di cui all’articolo 3 septies
del decreto legislativo 502/1992, limitandosi ad indicare alcuni criteri di
riferimento: l’assistenza socio-sanitaria viene
prestata sulla base di «progetti
personalizzati redatti sulla scorta di valutazioni multidimensionali»;
le prestazioni sono definite tenendo conto della natura del bisogno, della
complessità, dell’intensità e della durata dell’intervento assistenziale;
l’intensità è stabilita in base a fasi temporali: la fase intensiva, quella
estensiva ed infine la fase di lungo assistenza.
Fasi che dovranno anche scandire
l’attribuzione, ai diversi soggetti chiamati in causa, della spesa sostenuta
per le prestazioni. Come nel caso della «cura e
recupero funzionale di soggetti non autosufficienti non curabili a domicilio,
tramite servizi residenziali a ciclo continuativo e diurno, compresi interventi
e servizi di sollievo alla famiglia» rivolti ad «anziani e persone non autosufficienti con patologie
cronico degenerative» ove gli oneri sono posti a carico del fondo
sanitario per il 100% in fase intensiva e (per quanto attiene alle prestazioni
ad elevata integrazione) nella fase estensiva; mentre nella fase di lungo
assistenza, il costo addebitato al fondo sanitario si riduce al 50% e, per la
restante parte, viene chiamato ad intervenire l’utente e/o il Comune.
A completare lo scenario normativo di riferimento
interviene il successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29
novembre 2001 che, all’allegato
Nella premessa dell’allegato
Se la congiunzione coordinativa disgiuntiva “ovvero” fosse
da intendersi come “oppure” saremmo
in presenza di una tipologia di prestazioni non prevista dal decreto
legislativo 502/1992 al quale l’atto di indirizzo è vincolato ad attenersi e,
in tal caso, «le prestazioni nelle quali
la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente
distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo non
attribuibile alle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario
nazionale» andrebbero ricondotte, pena l’illegittimità dell’atto stesso,
alla tipologia delle prestazioni sanitarie a rilievo sociale. Se, di contro,
con quel termine, si è inteso specificare
che, tra le prestazioni sanitarie di rilevanza
sociale, rientrano anche quelle «a componente non distinguibile» (e per le quali gli oneri
vengono convenzionalmente attribuiti in misura percentuale agli utenti/Comuni)
allora vale quanto detto precedentemente con riferimento all’atto di indirizzo
del 14 febbraio 2001 (esplicitamente citato, quale fonte normativa, nel decreto
che definisce i livelli essenziali per il sistema sanitario).
In buona sostanza è legittimo sostenere che entrambi i
decreti (il secondo dei quali, come si è detto, con forza di legge) assegnano
la titolarità di tutte le prestazioni
sanitarie e sanitarie a rilevanza sociale elencate nei
rispettivi allegati alla titolarità del comparto sanitario (9). Alle tipologie
d’utenza menzionate dai decreti, le Asl devono dunque
assicurare, tra le altre prestazioni, anche quelle erogate nell’ambito
dell’assistenza domiciliare integrata e programmata (Adp)
in quanto comprese tra i livelli essenziali di assistenza
e, come tali, pienamente esigibili (10).
Fatta ovviamente salva la competenza dei Comuni
nell’erogazione delle prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, che si
sostanziano nella messa a disposizione delle competenze professionali di area sociale – ove necessarie per la realizzazione dei
percorsi assistenziali socio-sanitari – e nell’assolvimento della funzione di
sostegno economico nei confronti degli utenti che – a causa del basso livello
di reddito – non possono assumere, a proprio carico, gli oneri non sanitari
degli interventi. Sono altresì a carico dei Comuni gli ordinari servizi
socio-assistenziali (tra i quali rientra l’aiuto domestico e familiare).
Il riconoscimento del volontariato intrafamiliare
Nell’ambito del macro-livello «assistenza territoriale ambulatoriale e domiciliare», successivamente declinato nel micro-livello
«assistenza programmata a domicilio (Adi e Adp)», il decreto
prevede l’erogazione delle seguenti prestazioni di livello essenziale: «a) prestazioni a domicilio di medicina
generale, pediatria di libera scelta; b) prestazioni a domicilio di medicina
specialistica; c) prestazioni infermieristiche a domicilio; d) prestazioni
riabilitative a domicilio; e) prestazioni di aiuto infermieristico e assistenza
tutelare alla persona; f) prestazioni di assistenza farmaceutica, protesica e integrativa». In base ai protocolli che
regolano l’assistenza, tali prestazioni possono essere erogate singolarmente o
integrate tra loro.
Con riferimento alle «prestazioni
di aiuto infermieristico e assistenza tutelare alla
persona» menzionate alla lettera e) – che nell’ambito dell’assistenza
domiciliare integrata e nell’ospedalizzazione a domicilio vengono svolte, nella
maggioranza dei casi, dai congiunti o da terzi che si impegnano a provvedere
alle cure dell’anziano non autosufficiente – la petizione popolare richiede che
le Asl riconoscano il ruolo del volontariato
intrafamiliare erogando un contributo economico forfettario (11) corrispondente
al 60% della quota sanitaria della retta che il Servizio sanitario regionale
assume a suo carico in caso di ricovero in Rsa (Residenze sanitarie
assistenziali).
Dal punto di vista normativo una risposta positiva da parte della Regione Piemonte a tale
rivendicazione risulterebbe ampiamente legittima, non solo con riferimento alle
leggi nazionali, ma anche perché conforme al disposto dell’articolo 49, comma
2, lettere c), f) e g) della legge regionale 1/2004, secondo il quale «i principi per lo svolgimento delle
attività di promozione regionale delle politiche per le persone anziane sono i
seguenti: (…) c) potenziamento dei servizi di supporto alla famiglia, compresi
contributi economici e assegni di cura per quelle famiglie che si fanno carico
di garantire l’assistenza di un proprio componente anziano non autosufficiente;
(…) f) affidamento di anziani a famiglie selezionate al fine di favorire l’anziano
nel mantenimento delle proprie abitudini di vita e del proprio contesto
territoriale; g) realizzazione di forme di accoglienza familiare notturna (…)».
L’attività socio-sanitaria di cura svolta in Piemonte
nell’ambito delle Rsa grava attualmente sul fondo
sanitario per il 54% della retta giornaliera di 86 euro e, quindi, il valore
del contributo sanitario è di circa 1.400 euro mensili che vengono corrisposti,
alla struttura, indipendentemente dalle risorse economiche del malato.
Dato atto che – anche in regime di assistenza
programmata a domicilio (Adi e Adp)
– l’assistenza tutelare (che si concretizza attraverso l’erogazione di
fondamentali prestazioni di cura della persona) viene, in ogni caso, posta a
carico del Servizio sanitario almeno nella misura del 50%, cosa impedisce di
prevedere l’erogazione di contributi sanitari, quantificati con riferimento al
valore di una “retta sanitaria”, a coloro che accudiscono l’anziano cronico non
autosufficiente? Si tratterebbe, semplicemente, di una diversa modalità di erogazione di «attività
integrate socio-sanitarie», comunque esigibili, che anche l’articolo 35,
comma 1, della legge regionale 1/2004, pone a parziale carico del fondo
sanitario regionale.
Posto che senza l’assunzione di una
responsabilità di cura da parte dei congiunti, sarebbe vano qualunque
intervento professionale finalizzato ad evitare il ricovero in struttura,
occorre che le Asl riconoscano, in primo luogo, il
valore dell’attività svolta a titolo volontario dai familiari o da terzi. A tal fine le Asl dovrebbero
corrispondere un «contributo di sostegno
al volontariato intrafamiliare» di 840 euro – pari al 60% della quota
sanitaria erogata alle Rsa – a coloro che si impegnano
a provvedere alle cure domiciliari dell’anziano non autosufficiente.
Come avviene per l’indennità di accompagnamento
(il cui importo mensile è di 457,66 euro), così per la somma sopra indicata le Asl non dovrebbero avere alcun potere circa la destinazione
specifica da parte di coloro che accolgono l’anziano, mentre – ovviamente –
dovrebbero controllare puntualmente la qualità delle prestazioni fornite al
paziente direttamente dai congiunti anche con l’ausilio di assistenti familiari
dagli stessi remunerati.
Il riconoscimento dell’assegno di cura
A proposito della remunerazione del lavoro privato di
cura – reso necessario dal fatto che la maggioranza degli anziani non
autosufficienti è costituita da persone di età molto
avanzata, per cui i congiunti hanno, a loro volta, oggettive difficoltà a
provvedere autonomamente all’assistenza – occorre rimarcare che i costi di
assunzione di un assistente familiare, soprattutto se co-residente,
sono diventati estremamente onerosi.
Come rileva Sergio Pasquinelli «un’assistente familiare convivente costa
adesso, contributi compresi, tra 1.000 e 1.300 euro al
mese, a seconda del livello in cui si colloca. Cui si devono
aggiungere le spese di vitto e alloggio. Il totale si avvicina ai 1.500 euro al mese» (12). Inoltre,
a fronte della necessità di coprire le 168 ore della settimana, l’orario
massimo del personale di aiuto domiciliare è di 54 ore
se co-residente, altrimenti è di 40 ore. Con la
conseguenza che spesso non è sufficiente l’assunzione di una sola persona .
Per le ragioni suddette è opportuno che qualora la
persona colpita da patologie invalidanti e da non autosufficienza, per poter
continuare ad essere curata a domicilio, richiedesse
prestazioni aggiuntive – di valore economico superiore a quello risultante
dalla somma del “contributo di sostegno al volontariato intrafamiliare” mensile
dell’Asl di 840 euro e dell’indennità di
accompagnamento di 457,66 euro (in totale 1.290 euro al mese) – si preveda che
il soggetto interessato e/o l’accuditore (13) possano
presentare istanza all’Asl per ottenere un sostegno
economico integrativo – configurato come “assegno di cura” – espressamente
finalizzato a coprire le ulteriori spese (effettivamente sostenute per la
regolare remunerazione degli assistenti familiari) fino alla concorrenza
massima di 360 euro mensili.
In tal modo, si contrasterebbe fattivamente il
prevedibile aumento del mercato nero – conseguente all’applicazione del nuovo
contratto di colf ed assistenti familiari – consentendo, ai “datori di lavoro”,
di sostenere i rilevanti costi dell’assistenza a domicilio a fronte di un
impegno economico dell’Asl comunque
inferiore a quello derivante dall’assunzione di una retta sanitaria (al massimo
1.200 euro mensili, tra “contributo di sostegno al volontariato intrafamiliare”
ed “assegno di cura”, contro i 1.400 euro mensili di una retta in Rsa).
È appena il caso di aggiungere che – nei casi di ulteriori necessità – verrebbe chiamato ad intervenire il
Comune, che dovrebbe valutare le richieste di sostegno economico tenendo conto
delle risorse economiche personali (redditi e beni) del malato, secondo i
criteri adottati per l’integrazione delle rette nelle strutture residenziali.
Considerazioni conclusive
La vigente normativa della Regione Piemonte prevede il
diritto alla continuità assistenziale. In particolare
la deliberazione della Giunta regionale del 20 dicembre 2004, n. 72-14420
“Percorso di continuità assistenziale per anziani
ultrasessantacinquenni non autosufficienti o persone i cui bisogni sanitari e
assistenziali siano assimilabili ad anziano non autosufficiente” delinea il
percorso del paziente che necessita di continuità assistenziale, successiva al
ricovero ospedaliero, prevedendo che lo stesso possa essere sviluppato –
nell’arco temporale di sessanta giorni e con oneri economici a carico del fondo
sanitario – in strutture dedicate alla riabilitazione o alla lungodegenza; in strutture residenziali (anche in regime
definitivo); al domicilio attraverso le cure domiciliari o l’ospedalizzazione a
domicilio. Secondo quanto stabilito dalla deliberazione regionale il percorso –
al termine della durata prevista ed ove necessiti –
può proseguire attraverso l’utilizzo di altre risposte socio-sanitarie
appropriate: cure domiciliari in regime di lungo assistenza; interventi
economici a sostegno della domiciliarità; semiresidenzialità; residenzialità.
Nonostante l’erogazione di interventi
economici a sostegno delle cure domiciliari venga individuata dalla Regione
come possibile risposta alle esigenze delle persone con patologie croniche tali
da determinare condizioni di non autosufficienza (14), ad oggi, la prassi di
gran lunga prevalente tra le Asl, si allinea sulla
tesi della impossibilità a fornire, direttamente, tali interventi (15). Quando
va bene, le Asl si fanno carico del rimborso
(parziale) della spesa sostenuta dagli enti gestori socio-assistenziali: i
quali, però, erogano spesso gli “assegni di cura” previa valutazione del
reddito del beneficiario (e magari, in violazione della norma, anche del nucleo
familiare di appartenenza).
È evidente che, in tal modo, il contributo economico
erogato non può rappresentare una valida alternativa
al ricovero in struttura. Mentre la “quota sanitaria” di una retta in Rsa viene erogata, a prescindere dal reddito dell’utente, almeno
sino alla concorrenza del 50% della retta totale, l’assegno di cura, così come
attualmente valorizzato in termini economici, non rappresenta un efficace
ausilio per i congiunti che possano e vogliano farsi carico del paziente
anziano.
Con l’erogazione diretta da parte della
Asl di “contributi di sostegno al volontariato
intrafamiliare” e di “assegni di cura” sino ad un massimale di spesa, per il
fondo sanitario di 1.200 euro mensili (e dunque inferiore ad una “quota
sanitaria”) si potrebbe effettivamente assicurare che l’utente compia un
percorso di continuità assistenziale “graduato” in base all’evoluzione delle
sue effettive esigenze di cura. Un percorso che dovrebbe iniziare con una
precoce presa in carico nella quale – ad integrazione delle prestazioni
domiciliari che il Servizio sanitario eroga direttamente – i congiunti vengono sostenuti, nell’accudimento
dell’anziano, con il contributo forfettario; che potrebbe proseguire con il
riconoscimento dell’assegno di cura (ove si renda necessario l’impiego di
operatori terzi per un numero elevato di ore); che dovrebbe prevedere momenti
di “ricovero di sollievo” (finanziati, in primo luogo, con le somme destinate
ai contributi ed agli assegni, la cui erogazione verrebbe interrotta per la
durata dell’inserimento temporaneo in struttura); che consentirebbe di
assicurare – con una minima integrazione di spesa da parte delle Asl – il ricovero definitivo ove venissero meno le
condizioni che consentono il mantenimento dell’utente al domicilio (anche in
questo caso utilizzando “l’impegno di spesa” stanziato per l’utente che, nelle
situazioni più gravi, risulterebbe già quantificato nell’86% circa della retta
sanitaria da corrispondere alla struttura).
Con le nuove procedure di presa in carico, l’utenza non sarebbe costretta ad individuare nel ricovero l’unica soluzione
possibile alle esigenze di cura determinate dall’insorgere di una
condizione di non autosufficienza. E neppure a collocarsi in “lista d’attesa”
per “prenotare” l’inserimento, in previsione di un temuto
ulteriore decadimento delle condizioni di salute. L’anziano ed i
congiunti che ad esso provvedono avrebbero, infatti,
la sicurezza di poter beneficiare dell’inserimento se (e quando) si rendesse
effettivamente necessario darvi corso. È infine appena il caso di osservare che
– garantendo una effettiva continuità assistenziale –
sarebbe possibile – per le Unità di valutazione geriatriche – programmare gli
inserimenti attraverso il monitoraggio costante dei piani assistenziali
individualizzati delle persone in carico.
* Direttore del Cisap, Consorzio dei servizi alla persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino).
(1) I congiunti non
hanno alcun obbligo giuridico di assicurare le attività di cura assegnate,
dalle leggi vigenti, al servizio sanitario nazionale. Legge 4 agosto 1955 n.
692: l’assistenza deve essere fornita senza limiti di durata alle persone
colpite da malattie specifiche della vecchiaia; decreto del Ministro del Lavoro
del 21 dicembre 1956: l’assistenza ospedaliera deve essere assicurata a tutti
gli anziani quando gli accertamenti diagnostici, le cure mediche o chirurgiche
non siano normalmente praticabili a domicilio; legge 12 febbraio 1968 n. 132,
articolo 29: le Regioni devono programmare i posti letto
ospedalieri necessari a soddisfare le esigenze dei malati acuti,
cronici, convalescenti e lungodegenti; legge 13 maggio 1978 n. 180: le Usl devono assicurare a tutti i cittadini, qualsiasi sia la
loro età, le necessarie prestazioni dirette alla prevenzione, cura e
riabilitazione delle malattie mentali; legge 23 dicembre 1978 n. 833: le Usl sono obbligate a provvedere alla tutela della salute
degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che
possono concorrere alla loro emarginazione, qualunque siano le cause, la
fenomenologia e la durata delle malattie; articolo 54 della legge 289/2002 che
conferma l’obbligo del Servizio sanitario nazionale di curare anche le persone
colpite da cronicità e da non autosufficienza.
(2) Roberto Turno,
“Famiglie più povere per la sanità”, Il
Sole 24 ore, n. 331, 8 dicembre 2006.
(3) Secondo i dati
presentati nel “Rapporto Eurispes
(4) Ibidem.
(5) Decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001 “Atto di indirizzo in
materia di prestazioni socio-sanitarie”.
Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29
novembre 2001 “Definizione dei livelli essenziali di assistenza”.
(6) Cfr. “Una petizione per difendere le esigenze e i diritti
della fascia più debole della popolazione dai truffaldini livelli essenziali di assistenza”, Prospettive
assistenziali, n. 137, 2002.
(7) Mauro Perino, “Con la scusa dell’integrazione”, Appunti sulle politiche sociali, n. 3,
2002.
(8) «Le prestazioni
sanitarie comprese nei livelli essenziali di assistenza»
– e tra queste quelle contenute nell’allegato
(9) Nell’ambito
dell’assistenza domiciliare integrata sono poste a carico del fondo sanitario
le prestazioni a domicilio di medicina generale e specialistica, di assistenza
infermieristica e di riabilitazione. Sono invece suddivise al 50% tra Servizio
sanitario nazionale e Comuni – sempre fatta salva la compartecipazione
dell’utente – l’assistenza tutelare. È infine posto a totale carico del Comune
l’aiuto domestico e familiare.
(10) Tale contributo
non verrebbe finalizzato al pagamento diretto delle attività, ma costituirebbe
un semplice rimborso delle spese vive, come previsto dalla legge 266/1991. Si
procederebbe cioè in analogia con le modalità adottate
da anni per il sostegno degli affidamenti extra ed intra
familiari. Cfr. Mauro Perino,
“Esperienze di affidamento intrafamiliare di disabili
intellettivi adulti”, Appunti sulle
politiche sociali, n. 2, 2002; Mauro Perino,
“Volontariato intrafamiliare: dalla sperimentazione al regolamento”, Prospettive assistenziali, n. 144, 2003.
(11) Sergio Pasquinelli, “Ancora più mercato nero? Contratto colf e badanti co-residenti”, Qualificare: newsletter sul lavoro privato di cura, n. 9, 2007.
(12) Si ritiene
preferibile il termine “accuditore” a quello di “caregiver”.
(13) Con riferimento
agli interventi economici di sostegno, oltre alla citata deliberazione della
Giunta regionale 20 dicembre 2004, n. 72-14420 è da segnalare la deliberazione
della Giunta della Regione Umbria 25 luglio 2006, n. 1347 “Sperimentazione
assegno di cura e sostegno per interventi sanitari e socio-assistenziali per
persone con gravissime disabilità”.
(14) Da tale prassi
si discosta l’Asl 6 che, con deliberazione del 1°
ottobre
(15) Da tale prassi
si discosta l’Asl 6 che, con deliberazione del 1°
ottobre
www.fondazionepromozionesociale.it