Prospettive assistenziali, n. 160, ottobre - dicembre 2007
ALTRE leggi
regionali (BASILICATA, FRIULI
VENEZIA GIULIA, LIGURIA E PUGLIA) prive di effettivi diritti per le fasce
più deboli
Giuseppe D’Angelo
Un po’ alla volta le Regioni
italiane proseguono nella loro attività di recepimento
della legge di riforma dell’assistenza e dei servizi
sociali, la 328/2000, la cosiddetta “legge Turco” (1).
Ad oggi hanno legiferato:
l’Emilia Romagna (con la legge regionale 2/2003, analizzata nel numero 145,
2004 di Prospettive assistenziali);
Le ultime norme regionali
approvate sono dunque quelle delle Regioni Basilicata, Friuli Venezia Giulia
(2), Liguria (3), Puglia (4) e Basilicata (5), oggetto del presente articolo.
Una doverosa premessa
Occorre premettere che le norme
in questione sono abbastanza corpose, hanno tutte in genere un articolato assai
maggiore della legge capostipite, la 328/2000, che aveva
previsto trenta articoli (6).
Ma in tali e tanti articoli,
accresciuti di numero ma non di vera sostanza, purtroppo, troviamo tutto
fuorché diritti esigibili. Poche le novità positive a
favore degli utenti che con dette norme, almeno in teoria, si afferma di
tutelare.
Appare utile
però, prima di commentare le suddette leggi regionali, evidenziare quale
a nostro avviso dovrebbe essere un quadro di riferimento appropriato al fine di
legiferare opportunamente in materia di assistenza e servizi sociali.
Presupposti fondamentali
Il presupposto fondamentale per
un quadro di riferimento corretto dovrebbe essere quello di garantire effettivi diritti
esigibili per quella fascia della popolazione (esigua, per fortuna) con
limitata o nulla autonomia, tenendo sempre presente che per i soggetti non
autosufficienti a causa di malattie in atto o loro esiti invalidanti deve
provvedere il Servizio sanitario nazionale.
Per favorire la garanzia del
diritto esigibile alle prestazioni e servizi, appare corretto restringere il
perimetro, individuando la fascia della popolazione più debole e bisognosa.
Altresì occorre limitare gli
interventi solo a quelli prettamente assistenziali,
senza farsi carico cioè di poco giustificate “ingerenze” in altri settori,
anche per il fatto che detti sconfinamenti sono quasi sempre negativi per gli
utenti. Si pensi, ad esempio alla creazione di abitazioni
destinate esclusivamente a persone assistite, veri e propri ghetti; alle scuole
speciali; ai laboratori protetti per i soggetti con handicap, alternativi
all’inserimento lavorativo presso normali aziende pubbliche e private.
Questa impostazione è peraltro in
sintonia con la nostra Costituzione che all’articolo 38,
primo comma, prevede che «ogni cittadino
inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al
mantenimento e all’assistenza sociale».
Ciò premesso, ricordiamo che
purtroppo già la legge 328/2000 non ha disegnato questo quadro di riferimento. Anziché
stabilire diritti esigibili, ha previsto solo una priorità di
accesso al sistema integrato di interventi e servizi sociali per la
fascia più debole della popolazione, ma senza garantire effettivamente nulla.
Essa ha, inoltre, ampliato la
sfera prettamente assistenziale di competenza facendo
proprie tutte le attività di cui all’articolo 128 del decreto legislativo 31
marzo 1998, n. 112 (7). In questo modo ha previsto possibili (e assai
discutibili) integrazioni degli interventi assistenziali
con altri settori (sanitario in primis, ma anche istruzione, lavoro, ecc.). Allo
stesso tempo ha altresì spalancato alla cittadinanza in generale l’accesso agli
interventi e ai servizi sociali introducendo il cosiddetto carattere di universalità. Ma senza garantire
nulla a nessuno.
Le leggi regionali del Friuli-Venezia-Giulia, Liguria,
Puglia e Basilicata, oggetto del presente articolo, hanno tutte, purtroppo,
ripreso l’impostazione della 328/2000.
Eclatanti principi
Eclatanti sono i principi e le
finalità delle suddette leggi. Scorrendo solo i primi articoli, infatti, siamo
indotti a credere di avere sotto gli occhi la soluzione dei problemi concernenti la povertà, l’emarginazione, l’infermità, la
disabilità, ecc.
Per esempio: «
Altresì «
Per quanto riguarda la legge
pugliese 19/2006: «
Di
analogo
tenore anche la legge ligure: «
Anche la legge regionale della
Basilicata conferma la suddetta inclinazione e riporta, tra le altre cose,
quanto segue: «La presente legge delinea e regola la rete regionale integrata dei servizi di
cittadinanza sociale, al fine di: a. affermare
l’eguale dignità sociale delle persone e garantire l’effettiva tutela dei
diritti di cittadinanza, favorendo un accesso incondizionato alle opportunità
di partecipazione attiva alla vita sociale, di affermazione dell’autonomia personale
e di autorealizzazione dei progetti di vita di
ciascuno».
Purtroppo tali
dichiarazioni non trovano affatto riscontro nello
sviluppo del relativo articolato normativo.
Andando al nocciolo
della questione, ovvero alle eventuali garanzie per
poter usufruire di servizi e prestazioni, nelle leggi regionali in argomento
non troviamo nulla di concreto.
Per esempio, la
legge del Friuli Venezia Giulia rinvia al Piano
regionale degli interventi e servizi sociali «i livelli essenziali delle prestazioni da garantire sul territorio
regionale” comprese “le condizioni di
esigibilità» (articolo 7).
Pertanto appaiono di fatto compromessi i principi espressi negli articoli
iniziali. Rimandando ad altro provvedimento – e per giunta ad un Piano
regionale che in genere nasce con carattere programmatorio
– la norma in oggetto perde di vero significato. Pur
definendo nel successivo articolato le competenze dei vari enti (Regione,
Province, Comuni, ecc.), la legge regionale del Friuli
Venezia Giulia lascia piena discrezionalità in merito agli interventi.
Per quanto riguarda
la legge regionale pugliese, essa definisce che le competenze dei Comuni «titolari di tutte le funzioni amministrative
concernenti gli interventi sociali svolti a livello
locale» previste dall’articolo 16 «spettano,
nell’ambito delle risorse disponibili in base al Piano regionale e di zona».
Siamo alla solita
frase di rito che, con la sottintesa – ma
assolutamente falsa (8) – premessa che le risorse – per le fasce più deboli –
sono assai limitate, lega gli interventi non sulla base del bisogno effettivo
ma alla loro “disponibilità”.
In assoluta assonanza la legge
regionale della Basilicata che, dopo una serie di articolati
in cui viene precisato che «la rete
regionale integrata dei servizi di cittadinanza sociale assicura l’erogazione
dei livelli essenziali delle prestazioni sociali» (articolo 3, comma 1) e
che
La legge regionale ligure così si
esprime (articolo 55): «Alla realizzazione e alla gestione della rete
dei servizi sociali concorrono i finanziamenti dei Comuni, della Regione, dello
Stato e le compartecipazioni dei cittadini». E
inoltre: «Sono a carico dei Comuni, che
vi possono provvedere anche attraverso le forme associative previste dalla
presente legge, le spese per l’attivazione delle prestazioni sociali derivanti
dalla legge 328/2000 e dalla presente legge, relative ai livelli essenziali di assistenza sociale». In ogni caso non è previsto
alcun obbligo da parte dei Comuni. Anzi l’articolo 42 prevede
che «le prestazioni di carattere
economico» sono erogate «secondo le
compatibilità di bilancio».
Universalità delle prestazioni
L’assenza di garanzie per
l’effettiva fruibilità dei servizi da parte degli utenti deriva dunque, prima
di tutto, dal non voler prevedere finanziamenti adeguati. E cioè
finanziamenti definiti in funzione delle necessità dei cittadini più bisognosi
e non, all’opposto, interventi a misura delle risorse messe a disposizione. È
anche chiaro che i finanziamenti non sono e non saranno mai sufficienti se si
amplia il raggio di intervento, cioè estendendo il
perimetro a servizi che assistenziali non lo sono e aprendo la porta ad utenti
che non dovrebbero rientrarvi in quanto non presentano situazioni di effettivo
bisogno.
A questo proposito le leggi
regionali in oggetto seguono, come già anticipato, l’impostazione della legge
328/2000 e fanno proprio il carattere di universalità
previsto con l’articolo 2 comma 2 della stessa.
Tale approccio appare criticabile
in un’ottica di servizi di tipo assistenziale, non
solo perché non concentra l’attenzione sulle fasce più deboli della popolazione
(tra questi ricordiamo i minori in situazione di abbandono, i soggetti con
handicap non avviabili ad attività lavorative, le
famiglie in situazione di povertà), ma perché ampliando l’utenza si sconfina in
settori che assistenziali non sono (per esempio istruzione, lavoro, ecc.).
Dimenticanze
Tutte le leggi regionali in
questione “dimenticano” (al pari peraltro della legge 328/2000)
che i Comuni, ai sensi degli articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931
(Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) sono obbligati ad assistere
(anche se purtroppo solamente mediante ricovero in istituto) i soggetti inabili
a qualsiasi lavoro proficuo e quindi i minori, i soggetti con handicap e gli
anziani in difficoltà che non hanno i mezzi di sussistenza sufficienti per
vivere.
Si tratta di disposizioni
normative importantissime – anche se datate – ma ancora del tutto in vigore,
come ci ha confermato il Servizio per i testi normativi della Camera dei
Deputati con la comunicazione del 6 ottobre 2003 (9).
Un’altra dimenticanza riguarda
l’ancora vigente assurda discriminazione fra l’assistenza ai bambini nati nel o
fuori dal matrimonio, malauguratamente conservata
dalla legge 328/2000 (si veda il 5° comma dell’articolo 8).
Attualmente, purtroppo, l’assistenza ai nati
fuori dal matrimonio, ai ciechi e ai sordi è attribuita alle Province anziché
ai Comuni. Le Regioni potevano e possono prevedere il trasferimento di
competenze ai Comuni, ma nessuna disposizione in
merito è presente nelle leggi delle Regioni Basilicata, Friuli Venezia Giulia,
Liguria e Puglia.
Del tutto ignorata anche la
questione delle gestanti e madri nubili e coniugate in difficoltà, del loro
sostegno volto alla massima responsabilizzazione possibile
nei riguardi del riconoscimento o non riconoscimento dei loro nati e delle
importanti problematiche concernenti il segreto del parto.
Non competenze dell’assistenza
L’articolo 32 della legge
regionale ligure, nelle politiche a favore dei minori prevede quanto segue: «2. Le Asl, in
collaborazione con i Comuni e con le Istituzioni scolastiche, assicurano,
attraverso i consultori pubblici e quelli privati accreditati, programmi di
sostegno, informazione e formazione per i giovani sui temi della sessualità e
sulla procreazione responsabile, sul ruolo della famiglia e sulle
responsabilità genitoriali, con particolare
riferimento ai diritti della donna in stato di gravidanza, nonché
sui servizi sociali e sociosanitari a favore dei minori. (…) 4.
Secondo un corretto quadro di
riferimento (precedentemente accennato in premessa),
gli interventi sopra previsti dovrebbero porsi in capo all’Assessorato all’istruzione
o alle attività del tempo libero, ma non dell’assistenza.
Trasferendoci alla legge
regionale pugliese, essa prevede tra le strutture per minori (articolo 41) gli «asili nido». Tra i
servizi socioassistenziali (articolo 46) prevede
altresì «le ludoteche; il centro ludico
per la prima infanzia; (…) i servizi socio-educativi innovativi e sperimentali
per la prima infanzia; (…) u) i servizi educativi per il tempo libero».
Si tratta di servizi che non
dovrebbero rientrare nell’ambito assistenziale in
quanto facenti capo al settore dell’istruzione. Ricordiamo che tale
orientamento è stato espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 370
del 17 dicembre 2003 (10).
La citata sentenza peraltro è
importante in quanto fornisce una interpretazione di
fondo della legge quadro sull’assistenza n. 328/2000, laddove, erroneamente
comprende fra i servizi sociali, oltre alle attività di assistenza sociale,
anche quelle relative all’istruzione, alla casa, ai trasporti, alla cultura, al
tempo libero e agli altri settori di attività (con la sola esclusione delle
funzioni relative alla previdenza, alla sanità e all’amministrazione della
giustizia).
Assai pericoloso è poi l’articolo
47, comma 4, della legge pugliese, ove è stabilito che «il servizio di assistenza e di educativa
domiciliare consiste: (…)
b) in prestazioni di tipo socio-assistenziale, anche domiciliari, per
malati affetti da disturbi mentali, da malattie croniche invalidanti e/o progressivo-terminali». Anche in questo caso si
tratta di compiti spettanti non all’assistenza ma, in questo caso, al Servizio
sanitario nazionale.
Sulla stessa linea la legge
regionale del Friuli Venezia Giulia che prevede
sostegni anche finanziari al settore socio-educativo (cfr.
l’articolo 40).
Fa invece un caposaldo delle
politiche sociali integrate, peraltro già a partire dal
proprio titolo, la legge regionale della Basilicata. L’articolo 1, comma 3 è
così redatto: «La rete regionale
integrata dei servizi di cittadinanza sociale organizza sul territorio
regionale gli interventi aventi contenuto sociale, socio-sanitario,
socio-assistenziale, socio-educativo e socio-lavorativo, realizzati dagli enti
locali e dalle Aziende sanitarie locali, anche in
collaborazione con altre istituzioni».
Tale impostazione è a nostro avviso assai pericolosa. Se osserviamo, nell’ottica degli utenti, quanto di negativo è accaduto nel
corso degli anni passati – ed ancora continua ad accadere – a seguito della
nefasta iniziativa dell’integrazione socio-sanitaria, possiamo renderci conto
della sorte che attende le fasce deboli nel caso in cui venisse esteso questo
orientamento.
Il rischio, evidentemente, è
quello della riaffermazione delle problematiche emerse già con l’avvenuta
integrazione tra il settore sanitario e quello assistenziale.
In particolare:
- l’allontanamento dei soggetti
deboli dai naturali settori di competenza rivolti a tutta la popolazione. Per
esempio, il settore sanitario in materia di malati cronici non autosufficienti
ha deciso – in genere e oramai da tempo – di non riconoscere la stessa
pertinenza esercitata invece in occasione di pazienti acuti; dunque una
discriminazione in violazione anche all’articolo 3 della Costituzione che al
primo comma afferma: «Tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione
di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali»;
- lo scadimento del livello
generale dei diritti e delle prestazioni. Nell’esempio appena sopra citato, i
livelli di cura sono manifestamente superiori in una struttura sanitaria
anziché in una Rsa/cronicario;
- aggiuntive attribuzioni di oneri economici all’utente (si veda, a proposito, il
concorso da parte dell’utente al costo delle prestazioni cosiddette di
“lungo-assistenza”), ecc.
Sul rischio di veder riprodotto
l’approccio “integrato” negli altri settori, facciamo l’esempio della scuola
che oggi prevede – giustamente – che i soggetti con handicap debbano accedere
nelle normali classi rivolte a tutti; domani non vorremmo che venissero ricostituite, con la scusa dell’integrazione
“socio-scolastica”, le classi speciali per i soggetti con handicap o altre
difficoltà.
Fondi per la non autosufficienza
Negli ultimi anni è subentrata
l’idea che per rispondere adeguatamente alle esigenze di
varie fasce deboli, sia indispensabile puntare sulla costituzione di un
fondo specifico per la cosiddetta non autosufficienza.
Noi riteniamo che non ci sia
assolutamente bisogno di prevedere nulla di nuovo. Anzi, la costituzione di un
fondo per la non autosufficienza appare addirittura pericolosa.
Ricordiamo innanzitutto
che, da un lato, esiste già il Fondo nazionale per le politiche sociali,
sancito dall’articolo 20 della legge 328/2000; pertanto, qualora l’intento
fosse solo quello di aumentare gli stanziamenti del settore socio-assistenziale
si potrebbe (e si dovrebbe) elevare gli stanziamenti a favore di quest’ultimo.
Tralasciando il fatto
(assolutamente negativo) che fra i non autosufficienti possono esservi soggetti
aventi esigenze assai diverse tra loro (persone in coma, malati di Alzheimer, individui con handicap intellettivo grave e
gravissimo, malati psichiatrici), appare assai pericoloso un fondo per la non
autosufficienza soprattutto perché appare chiara l’intenzione reale di separare
la competenza istituzionale e organizzativa delle cure sanitarie: il Servizio
sanitario nazionale interverrebbe solamente nei confronti dei pazienti colpiti
da patologie acute, mentre se si tratta di soggetti non autosufficienti gli
interventi sanitari verrebbero condizionati dalla disponibilità delle risorse
assegnate al fondo per la non autosufficienza (13).
Questa è una impostazione
assai preoccupante che, lo ripetiamo, scardina fondamentali diritti in campo
sanitario (14).
Oggi c’è assoluto bisogno,
invece, che le istituzioni diano attuazione piena e
corretta delle leggi vigenti e, altresì, che le varie organizzazioni sociali
difendano per davvero i diritti delle fasce più deboli! È risaputo che il
diritto esigibile alle cure sanitarie e socio-sanitarie vige anche per le
persone malate e non autosufficienti (demenze senili, morbo di
Alzheimer, gravi esiti di ictus, infarti, ecc.). Si tratta di
rispettarlo e difenderlo con forza.
Il problema centrale è, dunque,
il rispetto dei diritti. Occorre quindi prendere posizione
contro quegli ospedali che dimettono precocemente, spesso selvaggiamente, gli
anziani malati cronici e non autosufficienti, senza alcuna garanzia di
continuità terapeutica (a domicilio o in adeguata struttura).
Questo scarico comporta, oltre
all’aggravamento delle patologie in atto, l’attesa anche fino a due-tre anni per l’inserimento in strutture di lungodegenza; pertanto un accollo di oneri
insostenibili da parte dei congiunti costretti a ricorrere a strutture a
pagamento con spese che vanno fino a 100 euro al giorno ovvero un esborso di
50-70mila euro in due anni!
Tutto ciò avviene nonostante
oggi, ripetiamo, sia pienamente vigente il diritto alle cure sanitarie senza
limiti di durata e gratuite (eccetto ticket) nella fase acuta della malattia;
unitamente al diritto alle cure socio-sanitarie senza limiti di durata nella
fase di stabilizzazione (cronicità) delle affezioni (lungodegenza),
con pagamento – se ricoverato in strutture tipo Rsa, Residenza sanitaria assistenziale – della cosiddetta quota alberghiera da parte
del solo utente (per gli anziani ultrasessantacinquenni non autosufficienti e
per i soggetti con handicap in situazione di gravità).
Le funzioni di vigilanza assegnate ai Comuni
Tutte le leggi regionali in
oggetto prevedono di porre l’attività di vigilanza delle
strutture residenziali e semiresidenziali in capo all’ente comunale (cfr. per la legge della Regione
Puglia gli articoli 16, 49 e 61; per la legge del Friuli Venezia Giulia gli
articoli 17 e 32; per la legge regionale ligure l’articolo 5; per la legge
della Basilicata l’articolo
Si tratta di un evidente
conflitto di interessi in quanto lo stesso ente
incaricato a vigilare svolge anche le funzioni amministrative, organizzative e
gestionali dei servizi. Sarebbe stato più indicato porre in capo alle Province
l’attività di controllo e vigilanza, dopo aver trasferito agli
enti locali comunali tutte le funzioni assistenziali ancora svolte dalle
stesse Province.
Altresì sarebbe auspicabile la
presenza di rappresentanti delle associazioni dell’utenza
nelle richieste commissioni provinciali.
Le Province
Proprio al riguardo delle residue
funzioni socio-assistenziali che continuano ad essere in capo alle Province,
ricordiamo le seguenti:
a) l’assistenza ai minori figli di ignoti e ai fanciulli nati fuori del matrimonio
riconosciuti dalla sola madre, nonché le prestazioni di sostegno alle gestanti
e madri (legge 6 dicembre 1928, n. 2838, tuttora vigente);
b) le funzioni assistenziali
già svolte dall’Omni, Opera nazionale per la
protezione della maternità e dell’infanzia;
c)
le prestazioni di sostegno ai «ciechi e
sordi poveri rieducabili» (così definiti dal regio decreto 3 marzo 1934, n.
383).
Come abbiamo già osservato, le norme regionali in oggetto non fanno
alcun cenno del trasferimento a livello comunale. Continua così una chiara
forma di discriminazione in quanto gli enti tenuti ad intervenire sono diversi
(Province ed Enti gestori) in funzione non del tipo di prestazione erogata ma
solamente delle diverse condizioni sociali dell’utente (15).
Ricordiamo che
Ricordiamo che il disegno di
legge predisposto dalla Regione Piemonte per il sostegno alle gestanti e madri
in condizioni di disagio socio-economico è stato successivamente
approvato all’unanimità dal Consiglio regionale il 26 aprile 2006 (16).
Standard dei
presidi
Nulla è stabilito in
maniera migliorativa rispetto agli standard nazionali relativamente
ai presidi residenziali assistenziali. Ricordiamo che il decreto
ministeriale del 21 maggio 2001, n. 308, prevede, per esempio per i disabili,
strutture con capienza sino a 20 posti letto e,
soprattutto, non ne vieta gli accorpamenti.
La legge pugliese
agli articoli 41 e 42 definisce le tipologie di presidi rispettivamente per
minori e disabili.
Per i minori sono previste le
seguenti tipologie: a) comunità familiare; b) comunità educativa; c) comunità
di pronta accoglienza; d) comunità alloggio o gruppo appartamento per adolescenti;
e) centro socio-educativo diurno e di aggregazione per
pre-adolescenti e adolescenti; f) centro aperto polivalente; g) asili nido.
Al di là dell’assurda presenza degli asili nido
tra i presidi assistenziali, per quanto riguarda la previsione di posti letto
la norma si limita a riportare la dizione «piccolo
gruppo di minori» per la comunità familiare e quella di pronta accoglienza,
e di «gruppo di minori» per la
comunità educativa e alloggio. Nulla è precisato in merito al divieto di
accorpare detti presidi. Pertanto i vecchi e superati istituti potranno
continuare ad esistere purché si organizzino con una suddivisione interna in
gruppi.
Analoghe considerazioni possono
essere in sostanza fatte per le tipologie di presidi
previste per i soggetti con handicap, anche se in questo caso non è prevista
nemmeno la dizione “piccolo gruppo”.
La legge
regionale ligure, invece, all’articolo 44 prevede la classificazione delle strutture
residenziali e semiresidenziali a carattere sociale e sociosanitario. Nulla
dice in merito alla capienza, rimandando «la
classificazione per le diverse funzioni, i requisiti strutturali, organizzativi
e di personale delle strutture» ad «apposito regolamento
approvato dalla Giunta regionale ai sensi dell’articolo 50 dello Statuto»
(articolo 44 comma 4).
Anche la legge regionale del Friuli Venezia Giulia non stabilisce nulla di specifico
in merito alla capienza delle strutture residenziali. Solo per i minori, all’articolo 44 (Politiche per l’infanzia e
l’adolescenza) riporta al comma 2 lettera f) quanto segue: «
La legge regionale della
Basilicata rinvia la definizione degli standards
quantitativi e qualitativi dei servizi e degli interventi al “Piano regionale
della salute e dei servizi alla persona”.
Conclusioni
Nonostante
Si conferma pertanto una tendenza
che, dalla norma capostipite, la legge 328/2000, ha visto una serie di
filiazioni regionali che, ad esclusione di quella del
Piemonte, sono state approvate con lo stesso stampo e pertanto inefficaci per
gli utenti, nonché dannose per la loro impostazione universalistica e volta
all’integrazione dei servizi (17).
In buona sostanza le leggi
regionali in oggetto rappresentano un’altra testimonianza delle carenze della legge 328/2000 che non ha previsto nessuna
norma a tutela effettiva dei diritti delle fasce più indifese, a dispetto non
solo di un nostro personale convincimento ma – ricordiamo – dell’articolo 38,
primo comma, della Costituzione.
Mauro Perino
ci ricorda che «elemento di grande novità è rappresentato dal nuovo testo dell’art. 117
della Costituzione che parifica la potestà legislativa statale e quella
regionale – non più sovraordinate l’una all’altra ma
distinte tra loro solamente per i diversi ambiti di competenza – assoggettando
entrambi i soggetti al rispetto della Costituzione, dell’ordinamento
comunitario e degli obblighi internazionali (…). In buona sostanza sono le
Regioni e i legislatori regionali a essere titolari
della competenza generale prima assegnata alla legge statale» (18).
Pertanto, le leggi regionali in
oggetto avrebbero potuto scostarsi dall’impianto della legge
328/2000 nel rispetto del dettato costituzionale di cui all’articolo 38
citato, garantendo il diritto soggettivo e fornendo i mezzi necessari per
rendere esigibile e adeguata l’assistenza per i soggetti impossibilitati a
vivere con i propri mezzi.
Ricorda altresì Livio Pepino che «in attesa che lo Stato
– avvalendosi della competenza legislativa esclusiva – determini livelli
essenziali delle prestazioni, da garantire su tutto il territorio nazionale,
più definiti e cogenti di quelli genericamente elencati all’articolo 22 della
legge 328/2000, è auspicabile che il legislatore regionale svolga i propri
compiti nel pieno rispetto del dettato dell’articolo 38 della Costituzione. Alle
Regioni si richiede in sostanza di assicurare – nel proprio ambito territoriale
– il diritto soggettivo “al mantenimento e all’assistenza sociale” di “ogni
cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”
ricordando che “un diritto subordinato alle risorse è semplicemente un non
diritto” ed inoltre che “il diritto soggettivo si differenzia dal semplice
interesse o dalla semplice aspettativa per il fatto di
essere esigibile, cioè per l’esistenza nell’ordinamento di mezzi che ne
garantiscano l’attuazione”» (19).
Rispetto al
desolante panorama normativo citato, ricordiamo nuovamente che una positiva eccezione è costituita dalla legge regionale
piemontese n. 1 del 2004 (20) che, pur presentando molteplici carenze, contiene
alcune norme cogenti a favore delle fasce più deboli, unitamente ad obblighi
precisi in capo agli enti gestori dei servizi assistenziali e socio-sanitari
(21).
Se associassimo le
leggi regionali in oggetto al colore politico delle maggioranze di cui sono
espressione, se dovessimo considerare cioè le
ideologie che tradizionalmente caratterizzano gli orientamenti partitici
espressione delle leggi in parola, ci dovremmo aspettare per esempio dalla
Regione Puglia con il suo presidente, on. Vendola, appartenente ad un partito schierato a sinistra,
una legge con un preciso impianto volto a tutelare effettivamente le fasce più
disagiate della popolazione.
Per contro, se guardassimo invece
alla composizione della maggioranza politica che nel 2004 varò la legge
regionale del Piemonte, una Giunta di centro-destra, dovremmo aspettarci –
secondo le premesse citate – una norma quantomeno poco attenta
ad istituire interventi garantiti per le fasce più deboli. E
invece la realtà appare smentire suddette supposizioni e ci mostra che è
avvenuto in sostanza l’esatto contrario.
Regioni governate da maggioranze
politiche di centro-sinistra, se non di sinistra, hanno legiferato in materia di assistenza recependo la legge 328/2000 senza riconoscere
reali diritti. E per certi versi hanno anche prodotto una stesura normativa
poco chiara, che promette ma non mantiene, truffaldina
insomma, in quanto da una prima lettura si possono trarre in inganno i
cittadini meno attenti in fatto di materie giuridiche, enfatizzando garanzie di
diritti – solo in via di principio – ma nella sostanza inesistenti.
Se la lettura della realtà
attuale dunque ci mostra che non appare di fatto scontato che un certo colore
politico sia più attento rispetto ad un altro alle fasce disagiate della
popolazione, l’esperienza ci insegna invece che
laddove vi sono gruppi di cittadini che operano a difesa di legittimi interessi
e diritti si riesce in genere a incidere anche in materia legislativa. Pertanto
appare fondamentale l’esistenza di organizzazioni di
pressione che persistano nella causa di tutela dei diritti delle fasce più
deboli, utilizzando in particolare il metodo del “volontariato dei diritti”
(descritto nel volume di Giuseppe D’Angelo, Anna Maria
Gallo e Francesco Santanera, Il volontariato dei diritti - Quarant’anni di
esperienze nei settori della sanità e dell’assistenza, Utet
Libreria). Laddove operano tali organizzazioni (a Torino costituiscono un
esempio le associazioni aderenti al Csa) si riesce ad
ottenere – sia pure con enormi fatiche e con tempi
lunghi – un riconoscimento vero dei diritti a favore delle fasce più deboli,
indipendentemente dall’orientamento politico di chi governa (22).
(1) Legge 8 novembre 2000, n. 328 “Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali” pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 265 del 13
novembre 2000, supplemento ordinario (cfr. Prospettive assistenziali,
n. 130, 2000).
(2) Friuli Venezia Giulia. Legge regionale 31 marzo
2006, n. 6, Bollettino ufficiale
regionale n. 14 del
5 aprile 2006.
(3) Regione Liguria. Legge regionale 24 maggio 2006
n. 12 “Promozione del sistema integrato di servizi
sociali e sociosanitari”, Bollettino
ufficiale regionale n. 8 del 31 maggio 2006.
(4) Regione
Puglia. Legge regionale 10 luglio 2006, n. 19 “Disciplina del
sistema integrato dei servizi sociali per la dignità e il benessere delle donne
e degli uomini in Puglia” Bollettino
ufficiale regionale, n. 87 del 12 luglio 2006.
(5) Regione Basilicata. Legge
regionale 14 febbraio 2007, n. 4 “Rete regionale integrata dei servizi di
cittadinanza sociale”, Bollettino
ufficiale regionale, n. 10
del 17 febbraio 2007.
(6) La legge 6/2006 del Friuli Venezia Giulia consta di 67
articoli divisi in quattro titoli: finalità
e principi; Sistema integrato di interventi e servizi sociali; Aree di
intervento del sistema integrato, politiche sociosanitarie, programmi speciali
di sostegno al reddito; Norme finali, transitorie e finanziarie.
Sono 66
gli articoli della
legge 12/2006 della Regione Liguria, divisi in otto titoli: Norme generali; Il
sistema integrato degli interventi sociali e sociosanitari; Atti di
programmazione e accesso ai servizi integrati; Politiche sociali integrate;
Interventi a favore della non autosufficienza; Sistema di regolazione della
rete dei servizi sociali; Disposizioni finanziarie per l’attuazione del sistema
integrato degli interventi sociali e sociosanitari; Disposizioni finali e
transitorie.
La legge regionale pugliese è composta di ben 70 articoli
suddivisi in sei titoli: Il sistema integrato dei servizi sociali; La famiglia
nel sistema integrato dei servizi; Carattere universalistico delle politiche
sociali; Tipologie, standard, autorizzazione e accreditamento; Accesso e
partecipazione degli utenti; Norme finali.
(7) Il comma 2 dell’articolo 128 del decreto
legislativo 31 marzo 1998, così recita: «Ai
sensi del presente decreto legislativo, per “servizi sociali” si intendono tutte le attività relative alla predisposizione
ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche
destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che
la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle
assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle
assicurate in sede di amministrazione della giustizia».
(8) Per un significativo esempio si legga sul numero
156, 2006 di Prospettive assistenziali,
il notiziario dell’Unione per la tutela degli insufficienti mentali, titolato:
“Possiamo accettare di sentirci dire ‘non ci sono risorse…’?”.
(9) Si tenga presente che i menzionati articoli 154
e 155 del regio decreto 773/1931 contenevano le stesse norme approvate più di
110 anni fa con il regio decreto 6535 del 1889!
(10) Cfr. l’editoriale “Secondo
(11)
Articolo 47 (Istituzione del fondo regionale a favore della non
autosufficienza): «1. Per realizzare le
misure sociosanitarie a favore delle persone non autosufficienti,
2. Il fondo per la non autosufficienza finanzia prioritariamente le
prestazioni sanitarie e sociosanitarie inserite nei livelli essenziali di assistenza (Lea) di cui all’allegato
3. Costituiscono fonti di finanziamento del fondo per la non
autosufficienza:
a) le risorse del fondo sanitario gia destinate alle attività
sociosanitarie di tipo domiciliare e residenziale di cui al
comma 2 e le risorse derivate dagli obiettivi del Piano sanitario
nazionale finalizzate alla non autosufficienza;
b) una quota delle risorse del fondo regionale per
le politiche sociali, trasferito dallo Stato ai sensi della legge 328/2000, da
destinare alla non
autosufficienza;
c) entrate regionali anche provenienti dalla fiscalità;
d) altre risorse provenienti da Fondazioni o donazioni.
4. Concorrono a definire l’ammontare complessivo del fondo per la non
autosufficienza anche i finanziamenti che i Comuni dedicano agli interventi di
sostegno alla persona e alla famiglia e all’aiuto domestico familiare o altre
prestazioni a favore dei non autosufficienti erogate
in base alla presente legge, alla legge 328/2000 e al decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001.
5. Il fondo per la non autosufficienza viene
ripartito annualmente alle Asl e ai Comitati dei
Sindaci di distretto sociosanitario per le attività individuate dai Piani di
distretto sociosanitario, con particolare riferimento alle azioni definite ai
commi 2 e 4 e secondo le indicazioni del Piano sociale integrato regionale.
6.
a) accessibilità e uniformità di benefici a parità di bisogno;
b) riqualificazione e riequilibrio dell’offerta assistenziale
per rispondere alla domanda territoriale con continuità e senza alimentare le
liste di attesa;
c) equità nel concorso alla
spesa, laddove richiesto.
7. Il fondo
per la non autosufficienza erogato dalla Regione, per le parti ricomprese nei bilanci ordinari dei Comuni e delle Asl, ha destinazione vincolata alle attività indicate
all’articolo 46 e al presente articolo».
(12) Art. 41 (fondo per l’autonomia possibile e per
l’assistenza a lungo termine): «1.
2. Tramite il fondo si provvede
al finanziamento di prestazioni e servizi destinati ai soggetti di cui al comma
1, con priorità per gli interventi diretti al sostegno della domiciliarità.
3. Il fondo è formato con
risorse regionali e nazionali, nonché con risorse
provenienti dalla fiscalità generale ed eventuali risorse di altri soggetti
pubblici e privati. Alla ripartizione tra gli enti gestori del servizio sociale
dei Comuni si provvede secondo criteri stabiliti con provvedimento della Giunta
regionale.
4. Le modalità di gestione del
fondo, nonché la tipologia dei servizi e degli
interventi di cui al comma 2 sono disciplinate con atto della Giunta regionale,
da adottarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della
presente legge, previo parere della Conferenza permanente per la programmazione
sanitaria, sociale e sociosanitaria regionale e della competente Commissione
consiliare, che si esprimono entro trenta giorni dal ricevimento della
richiesta. Decorso inutilmente tale termine, si prescinde dal parere».
(13) Si tenga presente che già attualmente per le
prestazioni sanitarie domiciliari o residenziali per le persone malate croniche
non autosufficienti vi sono liste di attesa della durata di due-tre
anni.
(14) Cfr. l’editoriale del numero 156, 2006 di Prospettive assistenziali, “Fuorvianti le valutazioni e le proposte
contenute nel volume La riforma
dell’assistenza ai non autosufficienti”.
(15) Cfr. l’editoriale “Chiediamo l’aiuto delle organizzazioni sociali
per l’eliminazione dell’assurda discriminazione fra l’assistenza ai bambini
nati nel o fuori dal matrimonio e per migliorare il sostegno alle gestanti e
madri in difficoltà”, Prospettive
assistenziali, n. 147, 2004.
(16) Si veda l’articolo “Approvata dalla Regione
Piemonte una valida legge per il sostegno alle gestanti e madri in condizioni
di disagio”, Prospettive assistenziali,
n. 154, 2006.
(17) Ricordiamo che la legge 328/2000 è stata più
volte commentata – e tutte le volte negativamente – su Prospettive assistenziali. Cfr. “La riforma dell’assistenza all’esame della Camera dei
Deputati: una proposta di legge gravemente immorale”, n. 127, 1999; “Il testo
di legge sui servizi sociali calpesta le esigenze dei più deboli ed ignora la
prevenzione dell’emarginazione”, n. 128, 1999; “Cinico no della Camera dei
Deputati e del Governo al riconoscimento del diritto esigibile alle prestazioni
di assistenza sociale indispensabili per le persone
più deboli”, n. 129, 2000; “Scandalosamente iniquo il testo di legge sui
servizi sociali approvato dalla Camera dei Deputai: tolti ai più deboli diritti
e risorse. Un appello ai Senatori, al Governo e al
volontariato”, n. 130, 2000; “Abbondano le notizie false sul testo di legge
dell’assistenza e dei servizi sociali”, n. 131, 2000; “La legge 328/2000 sui
servizi sociali è iniqua e truffaldina”, n. 132, 2000. Inoltre, si veda
il volume di M. G. Breda, D. Micucci, F.
Santanera, La
riforma dell’assistenza e dei servizi sociali - Analisi della legge 328/2000 e
proposte attuative, Utet Libreria, Torino,
2001.
(18) Cfr. “La legge della
Regione Emilia Romagna sugli interventi e servizi sociali: nessun diritto,
ancora beneficenza”, Prospettive assistenziali, n. 145, 2004.
(19) Cfr. Livio Pepino,
“La salute: fortuna o diritto?”, Animazione
sociale, n. 12, 2001.
(20) La legge regionale 1/2004 “Norme per la realizzazione del sistema
regionale integrato di interventi e servizi sociali e riordino della
legislazione di riferimento”, è entrata in vigore in data 30 gennaio 2004.
(21) Per un commento approfondito della legge
regionale 1/2004 si veda Prospettive
assistenziali, n. 147, 2004.
(22) Cfr. anche l’editoriale di questo
numero “Prospettive assistenziali
compie 40 anni: dai risultati raggiunti dal volontariato dei diritti un forte
incitamento a continuare nella tutela dei soggetti deboli”.
www.fondazionepromozionesociale.it