Prospettive assistenziali, n. 160, ottobre - dicembre 2007
OSSERVAZIONI E VALUTAZIONI SULLA
CASA DELLA SALUTE
MAURO PERINO*
Premessa
Nelle “Linee del
programma di Governo per la promozione ed equità della salute dei cittadini”
che il Ministro della salute On. Livia Turco ha
presentato alla Commissione affari sociali della Camera dei Deputati in data 27
giugno 2006, veniva enunciato l’obiettivo strategico
di realizzare «un nuovo progetto di
medicina del territorio attraverso la promozione della Casa della salute», una «struttura polivalente e funzionale in
grado di erogare materialmente l’insieme delle cure primarie e di garantire la
continuità assistenziale con l’ospedale e le attività di prevenzione» (1).
Il tema della Casa
della salute come «luogo di
ricomposizione delle cure primarie e della continuità assistenziale»
è stato successivamente ripreso ed approfondito in occasione di uno specifico
incontro nazionale – che si è tenuto a Roma il 22 marzo 2007 – nell’ambito del
quale si è svolto «un confronto tra il
Ministero, le Regioni, gli operatori sanitari, le forze sociali e le
associazioni dei cittadini, chiamati a svolgere un ruolo di attori nel processo
di potenziamento del sistema di cure primarie di cui
Secondo il Ministro,
infatti,
A tal fine – come viene
ricordato nel sito del Ministero – la legge finanziaria
Che cosa è
Per realizzare
L’articolazione dei servizi della Casa della salute
Tra i servizi sanitari offerti vengono in primo luogo
indicati: il «punto di soccorso mobile
118», dotato di personale medico a bordo presente 24 ore su 24,
opportunamente collocato «alla porta
della Casa della salute», e le «attività
di prelievo», con risposte a domicilio entro 24/48 ore, che dovranno
trovare un idoneo spazio funzionale. L’edificio dovrà inoltre offrire la possibilità
di organizzare le «attività di donazione
del sangue con l’impegno e la partecipazione delle associazioni del
volontariato».
Il testo dell’intervento del Ministro prosegue con
l’elenco degli ulteriori servizi sanitari che
Infine alla Casa è richiesto di dotarsi di «tecnologie diagnostiche semplici
(radiografie, ecografie, mammografie, spirometrie, prove da sforzo, ecodoppler)» che verranno
utilizzate «dai medici di famiglia e
dagli specialisti, o da tecnici di radiologia e da radiologi che fanno
riferimento alla struttura con orari programmati».
All’elencazione dei servizi afferenti all’area sanitaria,
fa seguito la descrizione di quelli che – secondo il Ministro – si collocano
nell’area dei servizi socio-sanitari e «che
possono essere variamente rappresentati in funzione delle esigenze di
programmazione e dei diversi bisogni dalla comunità di riferimento». Tra
questi si ritrovano: i servizi per le tossicodipendenze (Sert)
«dotati di spazi autonomi ma coordinati
con i servizi di cure primarie, i servizi sociali e le attività di auto aiuto»; i servizi di salute mentale «in coordinamento con le altre strutture di
assistenza diurna per disabili e malati di mente»; i centri diurni che «svolgono attività di supporto assistenziale
per persone non autosufficienti che di giorno non possono restare in famiglia»
e che rappresentano «un anello
fondamentale della rete territoriale di assistenza socio-sanitaria ad elevata
integrazione sanitaria»; i servizi di recupero e riabilitazione funzionale,
chiamati ad operare «tanto per chi sia
eventualmente ricoverato (per esempio in una residenza sanitaria assistenziale
o in un hospice) che per le utenze esterne (il
domicilio, casa di riposo)». Nella Casa, infatti, «può essere inserita» una residenza sanitaria assistenziale
«dotata normalmente di un modulo di 20
posti letto». In tal modo viene ad essa garantito «un rapporto stretto con il complesso dei
servizi sanitari e sociali collocati all’interno della Casa della salute o sul
territorio di riferimento».
Quanto all’assistenza domiciliare integrata (Adi), essa «dispone di una propria sede e di mezzi di trasporto. Le
attività sono in gran parte proiettate al domicilio,
salvo le fasi di programmazione, di coordinamento delle attività, di
approfondimento dei casi che sono svolte nella Casa della salute». L’équipe, «composta dal
medico di famiglia competente per il caso, da infermieri, da assistenti
sociali, da operatori socio-sanitari, da specialisti», interviene «secondo le necessità rilevate dall’Unità di
valutazione multidimensionale» che «definisce le procedure di
effettiva presa in carico del paziente portatore di patologie complesse,
con particolare riferimento a quelle cronico-degenerative».
Infine, nella Casa della salute viene previsto – oltre
al consultorio familiare e ambulatorio andrologico –
uno «spazio strategico» ove «trovano collocazione le proiezioni
funzionali del dipartimento di prevenzione per attività di sanità pubblica»
che devono operare attraverso programmi partecipati di intervento sui fattori
di rischio, coinvolgendo, tra l’altro, «i
medici di medicina generale per valorizzarne la mole ingente di informazioni
epidemiologiche e utilizzarne al meglio il loro rapporto quotidiano con i
cittadini».
A completare il quadro dei servizi offerti dalla Casa,
interviene l’area dei servizi sociali, nella quale trovano posto gli «uffici per il servizio sociale (…) per
colloqui, accoglienza, per il pronto intervento sociale, da attivare anche con
l’apporto delle associazioni del volontariato»; le «attività amministrative (…) per il supporto delle attività sanitarie e
sociali svolte nella Casa della salute, in modo da semplificare i percorsi assistenziali dei cittadini e “liberare” gli operatori, in
particolare i medici di famiglia, dalle incombenze burocratiche che ne limitano
e complicano l’esercizio della professione» e le «tecnologie informatiche» (teleconsulto,
telediagnosi clinica, teleassistenza
e telemonitoraggio).
Il distretto e
Per cogliere l’opportunità rappresentata dalla Casa della
salute occorre procedere – secondo il Ministro – nella costruzione del sistema
delle cure primarie individuando nel distretto «il punto di incontro tra domanda di salute
dei cittadini ed offerta di cure, benessere e nuova socialità; il luogo della
programmazione integrata delle attività sanitarie e assistenziali;
l’area-sistema ricomprendente in un modello a rete
presidi e servizi, ora dispersi, finalizzati a dare risposte territoriali ai
problemi di salute e di cura dei cittadini, compresi quelli per la tutela materno-infantile, della salute mentale, delle dipendenze,
delle disabilità; lo spazio privilegiato per la presa in carico del cittadino e
per l’integrazione tra le attività sanitarie e quelle di tipo sociale, con la
definizione del percorso assistenziale individuale per le persone portatrici di
bisogni complessi (…) e/o in condizioni di non autosufficienza (…); il luogo
della partecipazione del cittadino competente (…) alla definizione degli
obiettivi di salute e alla valutazione dei risultati ottenuti; il luogo nel
quale promuovere la prevenzione intesa come evento orizzontale, che interessa
tutta la vita del cittadino (…)».
In tal modo vi sarebbero i presupposti per «cominciare a costruire il secondo pilastro
della sanità pubblica, da affiancare all’ospedale», basandosi «sulla capacità di assicurare risposte, in
tempi brevi e certi, ai bisogni dei cittadini» con particolare attenzione
per «la continuità assistenziale»
– 24 ore al giorno e sette giorni su sette – nonché «il potenziamento delle forme associative dei medici di medicina
generale e degli altri professionisti sanitari» – ripensando, nella
direzione del lavoro in rete sul territorio, anche il ruolo degli specialisti
ambulatoriali – «la valorizzazione del
ruolo delle farmacie» – rilanciandole «quale
presidio insostituibile del Servizio sanitario nazionale» – «l’istituzione del punto unico di accesso
del cittadino» – con la creazione di uno sportello unico per le prestazioni
sociali e sanitarie che rappresenti «una
sorta di centrale operativa per la presa in carico socio-sanitaria» – «l’istituzione del dipartimento delle cure
primarie» in ogni singola Azienda sanitaria che «nell’ottica (…) di una forte integrazione tra le attività sanitarie e
assistenziali (…) acquista un significato del tutto particolare, pratico e
simbolico al tempo stesso». Solo attraverso un dipartimento unico è infatti possibile realizzare – secondo l’On. Turco – «un “governo” effettivo del complesso delle
attività di assistenza primaria, i cui momenti fondamentali passano attraverso
la predisposizione di piani di intervento specifici per le diverse aree
assistenziali e la gestione unitaria delle risorse umane e professionali».
Tutto ciò al fine di perseguire: «centralità del cittadino, promozione della
presa in carico, in particolare delle fragilità, integrazione socio-sanitaria»
con la convinzione che «l’ambizione di
assicurare risposte ai nuovi bisogni di salute, a partire da questi punti
fermi, non ha tanto a che vedere (…) con le alchimie e gli equilibri degli
assetti istituzionali, pur importantissimi, ma appartiene alla esperienza di
governo concreta, tocca le progettualità e la voglia
e la determinazione di investirci e spenderle, rischiando».
Criticità della
sanità territoriale e Casa della salute
La proposta di sperimentazione della Casa della salute –
così come è stata formulata dal Ministro nell’ambito
dell’incontro nazionale citato in premessa – non è accompagnata da una (pur
breve) analisi delle storture del sistema sanitario alle quali il nuovo modello
organizzativo dovrebbe poter porre rimedio. Per conoscere l’impianto critico
che l’ha originata è perciò necessario risalire ad un opuscolo del Sindacato
pensionati della Cgil nel quale – tra l’altro – viene rivendicata la “primogenitura” sulla proposta (4).
Nel documento vengono indicate
le criticità della sanità territoriale, in primo luogo con riferimento al
cittadino che quando «si ammala o ha
necessità di aiuto sociale comincia il suo peregrinare da un ufficio all’altro,
da un ambulatorio all’altro, da un presidio all’altro alla ricerca di una
esauriente risposta al suo problema. La burocrazia lo aspetta al varco e lo
immette in un labirinto di regolamenti e di prescrizioni farraginose da
osservare che fanno perdere tempo, a volte giornate di lavoro, e spesso
indeboliscono la fiducia del cittadino nell’efficienza delle istituzioni». Tutto
ciò a causa del fatto che «l’organizzazione del sistema sanitario e sociale è stata pensata e
realizzata un pezzo dopo l’altro, senza un progetto unitario, senza connessione
tra presidi e servizi e, soprattutto, senza considerare il cittadino con la
complessità dei suoi bisogni e senza porsi il problema della “presa in carico”
della domanda per organizzare la risposta». La soluzione – da organizzare
nell’ambito della Casa della salute – è rappresentata, secondo il Sindacato,
dall’attivazione dello «sportello unico»
che è «il primo dei livelli essenziali di assistenza sanitaria e sociale da garantire a tutti, in
tutto il territorio nazionale».
Una seconda criticità è quella nella quale si dibattono «gli stessi operatori sociali e sanitari»
che «vivono l’impotenza della loro
professione, perché separati tra loro, perché lontani
dalle strutture di specialità, perché senza collegamenti con quella politica
che deve mettere a disposizione le strutture di cui abbisognano i cittadini».
In particolare «è proprio il medico di
famiglia, così essenziale per una qualità delle cure primarie, che registra una
preoccupante impotenza sia per giungere correttamente a
una buona diagnosi di causa sia per inserire il paziente in un efficace
percorso assistenziale». Dunque, secondo il
Sindacato, «non ci si può meravigliare se
la professione medica perde il senso della sua stessa missione. Al contrario,
valorizzare le professioni, inquadrare il rapporto duale medico-paziente in un
progetto di sanità pubblica, integrare i servizi e le attività, responsabilizzare e innovare le cure primarie è necessario e
possibile realizzando, tutte le volte che ciò sia possibile, sedi uniche di
lavoro nelle quali prende consistenza quel lavoro di gruppo che pure è previsto
e richiesto dalla legge nazionale n.229/1999 e dalla
convenzione nazionale per la medicina generale».
Infine occorre considerare che «al danno che subiscono i cittadini, alle frustrazioni che fiaccano gli
operatori si aggiungono le perdite nette delle istituzioni, delle Regioni,
delle Aziende sanitarie e degli Enti locali, per la dispersione delle risorse
finanziarie e per la perdita di credibilità e di
fiducia da parte dei cittadini». Risorse finanziarie – quelle destinate alla sanità territoriale – «scarse, molto al di sotto del necessario (…) ma anche quelle poche (…)
non danno frutti in termine di salute e di buone cure e la domanda si rivolge
inevitabilmente in ospedale, quella giusta e quella impropria. (…) Con il risultato che, alla lunga, un sistema sanitario
centrato tutto o quasi sull’ospedale è insostenibile umanamente ed
economicamente». Per porre rimedio a quest’ultima
criticità occorre – secondo il documento sindacale – invertire il processo
attuale ed evitare il ricovero improprio, sapendo che ciò significa «portare le competenze specialistiche nel
territorio a supporto della medicina generale (…). Ma lo spreco non avrebbe
fine, anzi aumenterebbe come in un pozzo di San Patrizio, se il territorio
ricevesse nuove risorse finanziarie e professionali e non fosse ben
organizzato, se i rapporti tra servizi e operatori non fossero disciplinati da
regole e da modelli che prevedono interdipendenza, valutazione dell’efficacia,
partecipazione, governo clinico e responsabilizzazione».
Decentramento e Casa della salute
Un altro elemento, che resta in ombra nell’intervento
dell’On. Livia Turco, è una valutazione sullo stato
del quadro normativo che regola il sistema sanitario. Eppure – nel documento
contenente le linee programmatiche presentato lo scorso anno alla Commissione
affari sociali della Camera dei Deputati – lo stesso Ministro si interrogava su «come
mai, pur previsto nel decreto 229/1999, il distretto non è diventato ciò che doveva
diventare».
Anche in questo caso è possibile fare
riferimento al documento sindacale, nel quale si afferma che «
Vi è però un problema: queste
leggi «hanno fatto tutto quello che le
leggi quadro potevano e dovevano fare, stabilendo finanche i criteri per il
dimensionamento degli ambiti: non meno di 60 mila abitanti, salvo eccezioni
determinate dalla conformazione dei territori, dalla densità della popolazione,
dagli accessi alla rete dei servizi. Più di questo non
potevano decidere, perché nell’ordinamento costituzionale italiano è previsto uno spazio legislativo delle Regioni che deve
essere rispettato ed è affermata l’autonoma iniziativa degli Enti locali che
deve essere valorizzata». In sostanza dall’orizzonte delle leggi quadro è rimasta fuori – secondo il
Sindacato – «la grande
questione del decentramento del sistema sanitario e sociale» ed inoltre «bisogna riconoscere che a sette anni di
distanza quello spazio legislativo regionale non è stato coperto e quell’iniziativa degli Enti locali è stata assai lacunosa».
Occorre pertanto porre rimedio alla «antica e persistente distrazione delle istituzioni italiane sui
problemi della qualità della gestione, sui modelli operativi che prevedono
l’impiego razionale delle risorse finanziarie, umane e tecnologiche e il
raggiungimento del gradimento dei cittadini in rapporto ai loro bisogni di
salute e di benessere sociale», prendendo atto che «il distretto disegnato dalle leggi quadro ha dimensioni cospicue sia
per ampiezza del territorio che per consistenza della
popolazione e non può essere considerato in nessun modo come un’area
indifferenziata, un contenitore che ognuno riempie con scelte discrezionali o
che, all’italiana, tutti lasciano alla casualità degli eventi». La
soluzione va dunque ricercata nella creazione delle «aree elementari nelle quali si incontra il
sistema della domanda con il sistema dell’offerta (…) aree (subdistrettuali
e subzonali) che possono oscillare da un minimo di 5
mila a un massimo di 30 mila abitanti, secondo la densità della popolazione e
la morfologia del territorio». Le «aree
elementari e il governo unico del Welfare locale»
rappresentano infatti – secondo quanto affermato dal
documento sindacale – «l’abc del Welfare e senza di essi
tutto è sospeso in aria, tutto è dispersivo e precario».
Vecchie e nuove
soluzioni al problema degli ambiti territoriali
Le «aree elementari» nelle quali andrebbe collocata la «sede fisica» rappresentata dalla Casa
della salute ricordano molto da vicino quei «distretti sanitari di base» – intesi
come «strutture tecnico-funzionali per
l’erogazione dei servizi di primo livello e di pronto intervento» – per i
quali l’articolo 10 della legge 833/1978 – molto opportunamente – non stabiliva
alcun vincolo di dimensionamento lasciando alle Regioni il compito di stabilire
i criteri in base ai quali i Comuni, singoli o associati, o le Comunità montane
avrebbero poi provveduto ad articolarli (5).
Dunque l’idea di collocare «un insieme di attività
organizzate in aree specifiche di intervento profondamente integrate tra loro»
nell’ambito di un distretto che non si configurasse «come un’area indifferenziata, un contenitore che ognuno riempie con
scelte discrezionali» non rappresenta una novità assoluta (6). Le Regioni
ed i Comuni, per le rispettive competenze, hanno infatti
potuto perseguire il dimensionamento ottimale del distretto almeno sino all’approvazione
del decreto legislativo 229/1999 (7), con il quale venne fissato l’attuale
limite di almeno sessantamila abitanti. Ed anche successivamente
– come osserva il Sindacato pensionati – è rimasta la possibilità di
considerare le «eccezioni determinate
dalla conformazione dei territori, dalla densità della popolazione, dagli
accessi alla rete dei servizi».
Ma anche il riconoscimento
dell’esigenza di concentrare «la gran
parte dell’offerta extra-ospedaliera del Servizio sanitario nazionale» in
sedi territoriali facilmente individuabili dalla popolazione risale agli anni
nei quali venne elaborata e poi approvata la legge di
riforma. Il ruolo della struttura tecnico-funzionale del distretto delineato
dalla legge 833/1978 era infatti quello di svolgere le
attività di primo livello e di pronto intervento che, per le loro
caratteristiche e modalità operative, costituiscono il primo approccio del
cittadino con il Servizio sanitario. Venivano fatte
rientrare in questa definizione le attività di competenza del medico di base,
del pediatra, dei medici scolastici; quelle ostetrico-ginecologiche;
l’educazione sanitaria; l’assistenza farmaceutica, la profilassi e la vigilanza
ambientale e quella veterinaria. Sin dal primo momento era inoltre apparso
chiaro che la semplice presenza di operatori – già
collocati a livello di base nella fase precedente la riforma (8) – non
rappresentava una condizione sufficiente per la costituzione della struttura
tecnico operativa del distretto. La normativa di riferimento delineava
perciò un sistema organico di professionalità diverse, da costruire attraverso
l’applicazione di due principi fondamentali: la residenzialità
degli operatori nel distretto e la operatività coordinata delle diverse figure
professionali, da realizzare attraverso l’adozione di una metodologia – quella
del lavoro di gruppo – considerata strumento indispensabile per garantire le
necessarie interrelazioni tra gli operatori addetti all’assistenza medica in
senso lato e gli altri con specifica professionalità in materia di igiene
ambientale, di veterinaria, di assistenza sociale, ecc.
Infine in quell’epoca
erano decisamente più chiari, rispetto ad oggi, i
presupposti normativi per affrontare la questione – più volte posta dal
Ministro – della «integrazione tra le
attività sanitarie e quelle di tipo sociale» e per la quale vennero
trovate, allora, soluzioni diversificate sul piano nazionale. Le Regioni più
attente istituirono – in forza dell’articolo 25, comma 3, del decreto del
Presidente della Repubblica 616/1977 (9) e degli articoli 11 e 15 della legge
833/1978 – le Unità socio-sanitarie locali alle quali i Comuni delegarono
l’esercizio delle loro funzioni in materia socio-assistenziale realizzando
un’integrazione sia istituzionale che organizzativa. Questo
consentì – nelle Regioni del Nord ed in alcune del Centro – di attivare, pur
con modalità diverse, i distretti socio-sanitari di base. Mentre nelle restanti
Regioni, si mantenne una netta separazione fra i servizi sociali e quelli
sanitari ed il distretto di base rimase, in genere,
sulla carta (10).
Dall’esame dell’esperienza
condotta a partire dall’approvazione della legge di
riforma sanitaria si evince in ogni caso chiaramente che «la grande questione del decentramento del sistema sanitario e sociale»
non andrebbe semplicisticamente ricondotta alla necessità di creare delle «aree elementari» ma, molto più
opportunamente, al dimensionamento che i distretti, in quanto tali, devono
assumere per un efficace esercizio delle funzioni ad essi attribuite (11). Andrebbero
inoltre individuate e colpite le responsabilità che hanno dato luogo ad una
generalizzata (e persistente) violazione – da parte delle Aziende sanitarie –
delle norme che prevedono che al distretto siano attribuite risorse definite in
rapporto agli obiettivi di salute della popolazione di riferimento e che lo
stesso sia dotato di autonomia tecnico gestionale ed
economico finanziaria, con contabilità separata all’interno del bilancio
dell’Unità sanitaria locale.
Posto che l’esperienza di
costruzione di un distretto caratterizzato dalla «capacità di assicurare risposte, in tempi brevi e certi, ai bisogni
dei cittadini» ed in grado di rappresentare «il secondo pilastro della sanità pubblica, da affiancare all’ospedale»
risale ad un’epoca ben precedente all’approvazione delle «due leggi gemelle della sanità e del sociale» citate nel documento
sindacale, sarebbe necessario domandarsi se le ragioni che hanno determinato il
fallimento degli originari distretti socio-sanitari di base – diffuso
malgoverno del sistema, progressiva riduzione delle risorse finanziarie e di
personale destinate alla sanità territoriale, prevalere di spinte
corporative nell’ambito dei servizi, ecc. – non siano ancora oggi presenti e,
purtroppo, determinanti.
Occorre infatti
che si traggano i necessari insegnamenti dal percorso che si è compiuto,
analizzando e rimuovendo le cause che hanno determinato un arretramento nei
sistemi di tutela della salute e della sicurezza sociale. Solamente a partire da questi presupposti – ed in particolare dal rispetto
delle leggi che tutelano la cittadinanza e dalla revisione di quelle che ne
ledono i diritti (12) – sarà possibile perseguire efficacemente l’obiettivo del
«potenziamento del sistema di cure
primarie di cui
Con l’approvazione del decreto
legislativo 229/1999 il distretto ha ritrovato – almeno potenzialmente – una
configurazione di centro di riferimento sanitario e socio-sanitario per
l’incontro tra le istanze espresse dalla comunità
locale ed il complesso delle risposte che il servizio sanitario è in grado di
fornire. Ma è proprio la constatazione della inadempienza
generalizzata nell’applicazione delle disposizioni di tale decreto che dovrebbe
suggerire di porre maggiore attenzione proprio agli «equilibri degli assetti istituzionali». La realizzazione di
distretti in grado di assolvere alle funzioni descritte
dal Ministro, richiede infatti che vengano tutelati i poteri dei Comuni –
rappresentanti delle istanze espresse dalle comunità locali – nei confronti dei
Direttori generali delle Aziende sanitarie che, già in vigenza dell’attuale
normativa, avrebbero l’obbligo di approvare i programmi relativi alle attività
socio-sanitarie distrettuali previa intesa con i “Comitati dei Sindaci”.
Infine giova ricordare che, in
coerenza con tale impostazione, si muove anche l’articolo 19 della legge
328/2000 (13) che demanda al Piano di zona, di norma adottato attraverso un
accordo di programma, l’individuazione – da parte dei Comuni associati d’intesa
con le Aziende sanitarie locali per gli interventi sociali e socio-sanitari –
delle «modalità organizzative dei servizi
e delle risorse finanziarie, strutturali e professionali»; nonché delle «modalità
per garantire, a livello territoriale, l’integrazione tra servizi e prestazioni
e la concertazione inter istituzionale». È pur
vero che – come afferma il Ministro – per «promuovere
il benessere delle persone» occorre «anche
e soprattutto partecipazione (…) capacità di costruire comunità. E questo non lo si fa solo con le leggi». Ma è altrettanto vero che
se proprio le leggi poste a tutela dei cittadini e dei loro diretti
rappresentanti vengono impunemente ignorate, allora è
forte la sensazione che del concetto di partecipazione si faccia un uso
meramente retorico.
Per evitare che
L’integrazione tra
le attività sanitarie e quelle sociali
Nell’intervento del Ministro
della salute e nel documento sindacale viene
ripetutamente sottolineata l’esigenza di realizzare, nell’ambito della Casa
della salute, una stabile integrazione tra le attività sanitarie e quelle
sociali. Viene in sostanza ribadita l’opinione – che
ha generato numerose e forti aspettative nella popolazione, nelle
organizzazioni di base e fra gli operatori già negli anni ’80 – che, con
l’integrazione socio-sanitaria, si possano automaticamente risolvere le più
importanti questioni aperte.
Sulla base di tale diffusa considerazione si è
giustificata la creazione, nell’ambito del sistema sanitario, di una “area dei
servizi socio-sanitari” alla quale l’On. Turco – nel suo intervento – fa afferire i servizi per le tossicodipendenze; i servizi di
salute mentale; i centri diurni (che, facendo di ogni erba un fascio, vengono
impropriamente destinati a fornire «assistenza diurna per disabili e malati di
mente» oltre che a «persone non
autosufficienti che di giorno non possono restare in famiglia»); i servizi
di recupero e riabilitazione funzionale; le residenze sanitarie assistenziali;
l’assistenza domiciliare integrata; i servizi consultoriali;
le unità di valutazione multidimensionale.
Ma ciò che la vigente normativa
socio-sanitaria non affronta efficacemente è il riconoscimento effettivo dei
diritti degli utenti «nonostante che,
alla luce delle esperienze concrete, sia superata da moltissimi anni la
concezione secondo cui il miglioramento delle condizioni di vita si ottiene
solamente o principalmente mediante una diversa organizzazione delle
prestazioni, l’incremento della professionalità degli operatori o con altri
strumenti tecnici. Sul piano delle dichiarazioni verbali, politici,
amministratori e operatori non perdono occasione per affermare che il cittadino
deve essere sempre posto al centro dei servizi socio-sanitari; quando però si
tratta di concretizzare questa affermazione, allora i
diritti degli utenti non vengono inseriti nelle leggi nazionali e regionali,
nelle delibere comunali o consortili, nei provvedimenti delle Asl» (14).
I concetti di unitarietà
e globalità degli interventi, superamento delle prassi settoriali, integrazione
delle competenze e dei servizi, maggiore attenzione ai soggetti deboli, non
possono che essere condivisi. Ma occorre che essi vengano
tradotti in contenuti concreti e, quando sono riferiti a condizioni che
esprimono bisogni esistenziali fondamentali, determinino diritti esigibili da
parte dei cittadini.
Oggi il diritto all’eguaglianza
nell’accesso alle prestazioni sanitarie ed alla continuità delle cure viene pesantemente leso dal processo di emarginazione delle
persone più deboli che si è avviato all’interno del sistema sanitario
utilizzando, strumentalmente, il concetto di “integrazione socio-sanitaria”. Con
il “decreto Sirchia” (15) che definisce i livelli
essenziali di assistenza sanitaria (confermato con
forza di legge dall’articolo 54 della finanziaria 2003) si è infatti
regolamentata una prassi secondo la quale mentre durante il periodo acuto le
cure devono essere fornite dai servizi e dalle strutture sanitarie, nel corso
della fase cronica le prestazioni devono essere erogate dal Servizio sanitario
per quanto concerne gli interventi sanitari e “sanitari a rilievo sociale” e
dai Comuni per quanto riguarda le attività “sociali a rilievo sanitario” e
socio-assistenziali. Accade così che alle persone colpite da patologie
invalidanti e da non autosufficienza viene di fatto
negato il diritto, sancito dalle leggi vigenti, ad essere curate senza limiti
di durata direttamente dal Servizio sanitario. Con il conseguente dilagare
delle dimissioni – molto spesso selvagge poiché non viene
garantita la prosecuzione delle cure a domicilio o presso strutture sanitarie o
presso Rsa (Residenze sanitarie assistenziali) – di questi soggetti da ospedali
e case di cura private convenzionate.
Si è così applicato il cosiddetto
“universalismo selettivo” non al complesso del sistema sanitario pubblico (che
la prima legge di riforma voleva fondato su un
universalismo senza aggettivi) ma esclusivamente alle fasce di utenza più
deboli, alle quali viene inoltre negato – per quanto attiene al tema della
contribuzione al costo delle prestazioni (16) – un rapporto diretto e lineare
con il sistema sanitario. Il decreto, infatti, non prevede che siano
direttamente le Aziende sanitarie ad intrattenere i rapporti economici con
l’utenza dei servizi socio-sanitari, né che esse si facciano carico di
applicare criteri reddituali omogenei in base ai
quali chiamare il cittadino a compartecipare alla spesa. Ancora una volta sono
i servizi socio-assistenziali a dover integrare, in tutto o in parte, la spesa
che il cittadino non è in grado di sostenere, sulla base dei criteri definiti
dai Comuni.
In tal modo si palesa una
disparità di trattamento tra le persone malate. I “malati acuti” vengono
“inclusi” pienamente nel sistema sanitario – anche quando sono chiamati a
pagare un ticket (i limiti di reddito per le esenzioni sono
infatti fissati con apposita normativa regionale, applicata dalle
Aziende sanitarie) – i “malati cronici” subiscono invece una oggettiva
limitazione del diritto a beneficiare di un eguale trattamento a parità di
bisogni espressi e di condizioni economiche (visto che i criteri di
integrazione della spesa variano su base comunale). Tutto ciò accade non per
una carenza di “integrazione” tra comparti ma, molto
più prosaicamente, per l’annoso problema delle risorse. E, come più volte rilevato da questa rivista, «per ridurre la spesa
sanitaria c’è un sistema molto semplice e purtroppo collaudatissimo:
esso consiste nel dirottare gli utenti più deboli nel settore assistenziale. D’altra
parte sono questi utenti (soprattutto anziani cronici non autosufficienti,
malati mentali, lungodegenti) che comportano rilevanti spese»
(17).
La tutela del diritto alla salute
(ed all’assistenza sociale) impone invece di agire sulla dislocazione delle
risorse che, per il livello essenziale di ogni
intervento costituzionalmente previsto, deve essere necessariamente vincolata. Per
queste ragioni «occorre (…) distribuire le risorse con giustizia, evitare gli sprechi,
pianificare gli interventi, non farsi carico di
attività che competono agli altri settori sociali» (18). Con riferimento al
tema dell’integrazione socio-sanitaria è dunque necessario ribadire
quanto siano negative «le proposte» –
come quella declinata nell’ambito del progetto di sperimentazione della Casa
della salute – «fondate sulla presunta
necessità di porre sullo stesso piano le competenze della sanità e del settore
socio-assistenziale per quanto concerne la programmazione e la gestione degli
interventi» (19).
La sovrapposizione istituzionale
ed operativa e la artificiale individuazione di
situazioni (prestazioni sanitarie a rilievo sociale, prestazioni sociali e
rilievo sanitario, prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione
sanitaria, le fasi intensive, estensive e lungoassistenziali,
ecc.) da parte delle caotiche disposizioni relative all’area socio-sanitaria
costituiscono, per gli ultradiciottenni colpiti da malattie invalidanti e da
non autosufficienza, un ostacolo all’accesso ai servizi, all’ottenimento delle
prestazioni e, più in generale, alla conoscenza di quali sono i diritti che
possono essere rivendicati.
Vi è dunque l’esigenza di
eliminare «i nefasti effetti delle
reciproche interferenze fra Asl e Comuni (…)
assegnando al servizio sanitario nazionale piena competenza in materia
sanitaria, come peraltro prevede la legge n. 833/1978, ed ai Comuni la totale
giurisdizione in merito alle attività socio-assistenziali. Di conseguenza, a
ciascuno dei suddetti enti potrebbe essere attribuita la totalità dei
finanziamenti relativi ai servizi di propria
competenza, evitando l’attuale stortura per cui dette erogazioni sono assegnate
per le stesse attività in parte alle Asl ed in parte
ai Comuni. Ad esempio, se ai Comuni venisse erogato
dalla Regione uno stanziamento complessivo riguardante le comunità alloggio (o
i centri diurni) per i soggetti con handicap intellettivo, si eviterebbe che i
Comuni stessi siano costretti ad intavolare trattative spesso lunghe e
defatiganti con le Asl per ottenere il versamento
della cosiddetta quota sanitaria. Si eliminerebbero, inoltre, le odierne
inevitabili e ingiustificate differenze da zona a zona dell’ammontare delle
quote sanitarie e so-ciali» (20).
In ogni caso, è utile ricordare
che le prestazioni afferenti all’area dell’integrazione socio-sanitaria che
Le cure medico-infermieristiche
domiciliari (l’attività del medico di medicina generale, degli specialisti,
degli infermieri e dei riabilitatori,
l’ospedalizzazione a domicilio e l’assistenza domiciliare integrata) devono
dunque venire erogate secondo le norme vigenti in
materia sanitaria. Solamente se del caso – e cioè
quando ne è stato accertata l’esigenza – tali prestazioni dovranno essere
integrate dagli interventi socio-assistenziali. Sarebbe inoltre opportuno che –
per favorire il massimo sviluppo delle cure domiciliari – fra le prestazioni
sanitarie venissero inseriti interventi di natura
economica (rimborso forfettario delle spese vive) a favore dei congiunti e
delle terze persone che volontariamente accettano di svolgere una parte dei
compiti attribuiti dalle vigenti leggi alla sanità.
Infine va ribadito
che i servizi socio-assistenziali sono chiamati ad operare per la tutela di un
diritto costituzionale – quello all’assistenza sociale – che ha caratteristiche
molto diverse dal complesso dei diritti che afferiscono
alla “sicurezza sociale”. A differenza dei diritti alla salute, all’istruzione
e ai trasporti che devono essere obbligatoriamente rivolti a tutta la
cittadinanza, il diritto all’assistenza deve avere un carattere selettivo. Va
dunque definito in modo puntuale il rapporto che deve intercorrere tra diritti
esigibili dai più deboli ed opportunità da offrire
alla cittadinanza in generale. Operando una corretta selezione delle risorse da
allocare: agli interventi ed ai servizi destinati alle persone che necessitano di assistenza sociale vanno assegnate le risorse
(finanziarie, umane e strumentali) necessarie. Al resto dei potenziali fruitori è destinato “il di più” nel caso siano disponibili
risorse aggiuntive.
In sintesi è necessario chiarire
che i servizi socio-assistenziali rappresentano un
“sotto insieme” del complesso dei servizi preposti ad assicurare l’effettività
dei diritti afferenti al sistema di sicurezza sociale (ed in particolare al
sistema sanitario). Si tratta dunque di servizi che hanno una specificità che
deve essere preservata, pena la lesione dei diritti dei più deboli perpetrata
attraverso la strumentalizzazione di concetti importanti quali – ad esempio –
la prevenzione del bisogno assistenziale, la non
discriminazione, la connessione tra condizione sociale e stato di salute. Purtroppo
nella proposta del Ministro si ripropone
un’impostazione che confonde l’area delle attività socio-sanitarie – che, come
si è detto, devono in ogni caso essere garantite direttamente dal sistema
sanitario – con l’area dei servizi sociali che viene genericamente chiamata –
attraverso «gli uffici per il servizio
sociale» – ad effettuare «colloqui,
accoglienza (…), pronto intervento sociale anche con l’apporto delle
associazioni del volontariato», al di fuori da ogni reale possibilità di
controllo da parte dei Comuni, titolari delle funzioni che questi servizi sono
chiamati ad esercitare.
L’aggregazione dei
professionisti della sanità territoriale
Secondo il Ministero della salute
(21) «l’aggregazione
funzionale e possibilmente fisica delle linee di attività delle cure primarie:
segretariato sociale e presa in carico del paziente (“disease
management”), lavoro in team degli operatori (medici di medicina generale,
specialisti ambulatoriali a rapporto convenzionale e professionisti
socio-sanitari e amministrativi a rapporto di dipendenza), diagnostica
strumentale e di laboratorio anche in urgenza, integrazione tra attività
sociali e sanitarie, gestione delle urgenze, organizzazione di forme evolute di
assistenza domiciliare integrata, ospedale di comunità, telemedicina»
rappresenta la «strada maestra» per
garantire la continuità assistenziale da parte dei servizi di base 24 ore su
24.
Tuttavia, se è prerogativa dello
Stato la definizione di tale principio generale, la disciplina di dettaglio per
la sperimentazione della Casa della salute spetta invece agli enti territoriali
(in forza delle competenze ad essi attribuite dal
Titolo V della Costituzione). Ed in particolare è affidata alle Regioni «l’aggregazione dei
medici di medicina generale (assistenza primaria, continuità assistenziale ed
emergenza territoriale), dei pediatri di libera scelta e degli specialisti in
Unità di cure primarie, una articolazione territoriale coerente sia per i
distretti che per gli ambiti sociali, la programmazione, l’organizzazione
unitaria dei servizi, il coordinamento tra i Programmi delle attività
territoriali e i Piani di zona per realizzare l’integrazione socio-sanitaria»
(22).
È dunque necessario che vengano affrontate – a livello regionale – alcune questioni
nodali: «Il primo aspetto implica che le
convenienze delle categorie professionali siano declinate nell’interesse
generale (…). Occorre inoltre chiarire il posizionamento
delle cure primarie nell’assetto organizzativo delle Asl
(ad esempio
Se si vuole migliorare la
risposta delle cure primarie, «la questione non è tanto il modello in sé, ovvero il
“contenitore dei servizi”, quanto decidere quali contenuti assistenziali
integrare, dove e come» (24). Ben sapendo che occorre rimuovere gli
ostacoli all’integrazione dei professionisti
(adeguando responsabilità assistenziali, contratti di
lavoro, sedi territoriali, standard di servizio, sostenibilità economica, ecc.)
e superare le resistenze – anche forti – che si manifestano all’interno della
categoria medica (25).
Vi è infine il problema dei
“poteri di gestione socio-sanitaria” che, per parte medica, viene
così espresso: «Il decreto legislativo
229/1999 (terza riforma sanitaria) all’articolo 3 septies
promuove l’integrazione socio-sanitaria tra le attività delle Asl e dei Comuni e riconosce le denominate “prestazioni
sociali a rilevanza sanitaria” a favore di soggetti fragili fornite da
personale non sanitario a cura dei Comuni, già responsabili dell’assistenza
sociale ai sensi della legge n. 328/2000 (…). L’accordo collettivo nazionale (Acn) 23 marzo 2005 (…) all’articolo 55 attribuisce al
medico di famiglia il compito di attivare e concordare gli interventi
socio-assistenziali necessari ai suoi pazienti e all’allegato H, articolo 5,
delega al medico di famiglia la responsabilità del coordinamento dell’assistenza domiciliare integrata con responsabilità
unica e complessiva del paziente. Va però rilevato che all’assegnazione di
questa precisa responsabilità non corrisponde affatto
l’attribuzione di un potere per assolverla. Il medico non ha l’autorità per
ordinare l’intervento in tempi utili dei diversi operatori socio-sanitari
nell’assistenza del proprio paziente, salvo la possibilità di limitarsi a
richiamare, se esiste, il piano assistenziale
individuale concordato a livello di unità di valutazione distrettuale. Non
avendo un potere gerarchico, il medico non può essere responsabile di inadempienze altrui, come ben spiega l’articolo 27 della
Costituzione e l’articolo 110 del codice penale e così il coordinamento
dell’articolo 5 dell’allegato H oggi appare irrealistico» (26).
Posto che «le prestazioni sanitarie comprese nei livelli essenziali di assistenza» – e tra queste la «assistenza programmata a domicilio (Adi e Adp)» (27) prevista nell’allegato
Considerazioni conclusive
Ribadito che non è il contenitore (
Più in generale occorre rimarcare
che per realizzare una effettiva ricomposizione delle
cure primarie e della continuità terapeutica è necessario ed urgente che il
Ministero della salute adotti i provvedimenti necessari alla concreta
attuazione del diritto alle cure sanitarie e socio-sanitarie dei giovani, degli
adulti e degli anziani colpiti da patologie invalidanti e da non
autosufficienza, delle persone affette dal morbo di Alzheimer e dei soggetti
con altre forme di demenza senile, assicurando loro, senza alcuna interruzione,
la continuità delle indispensabili prestazioni, comprese quelle contro il
dolore. A tal fine è indispensabile che si dia piena e sollecita attuazione –
attraverso i necessari interventi in sede legislativa – ai validi indirizzi
contenuti nel documento della Commissione nazionale per la definizione e
l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza
“Nuova caratterizzazione dell’assistenza territoriale domiciliare e degli
interventi ospedalieri a domicilio” (28).
Sempre con riferimento alle tematiche relative ai servizi che verrebbero collocati nella
Casa della salute, andrebbe data attuazione al decreto del Presidente della
Repubblica concernente il Progetto obiettivo della salute mentale, garantendo i
necessari finanziamenti in modo da assicurare l’effettiva presa in carico delle
persone colpite da disturbi psichiatrici con la predisposizione dei piani
personalizzati di intervento e l’istituzione dei servizi di prevenzione e cura,
dei centri diurni, dei gruppi appartamento, nonché delle comunità alloggio
terapeutiche e residenziali.
Inoltre – per quanto attiene ad
una reale tutela della salute del cittadino – è necessaria l’approvazione di
norme dirette a far sì che questi possa designare una
persona che lo rappresenti, ove insorgano infermità che ne determinino
l’impossibilità a provvedere a se stesso, fino a quando l’autorità giudiziaria
procede alla nomina del tutore o dell’amministratore di sostegno (29).
Sarebbe infine auspicabile
l’assegnazione alle Province, alle quali dovrebbero essere sottratte tutte le
funzioni gestionali nel campo dell’assistenza sociale,
dei compiti di vigilanza in materia socio-sanitaria (ad esempio accreditamento
delle case di cura e delle strutture di ricovero), allo scopo di evitare ogni
commistione tra le funzioni di gestione (assegnate alle Asl
e ai Comuni) e quelle di controllo.
* Direttore del Cisap,
Consorzio dei servizi alla persona dei Comuni di Collegno
e Grugliasco (Torino).
(1) Del documento, intitolato “Un ‘New Deal’ della salute”, si è trattato nell’articolo di Mauro Perino, “Considerazioni sulle linee programmatiche
enunciate dal Ministro della salute”, Prospettive
assistenziali, n. 156, 2006.
(2) I materiali relativi all’incontro nazionale
dedicato alla Casa della salute sono reperibili sul sito
www.ministerosalute.it.
(3) Le citazioni non diversamente annotate sono
tratte dall’intervento del Ministro della salute On. Livia
Turco, “
(4) «La proposta della Casa della
salute appare per la prima volta in pubblico nel
(5) L’articolo 14 della legge 23 dicembre 1978, n.
833 “Istituzione del Servizio sanitario nazionale”, si limitava infatti a
stabilire che «l’ambito territoriale di
attività di ciascuna unità sanitaria locale è delimitato in base a gruppi di
popolazione di regola compresi tra 50.000 e 200.000 mila abitanti, tenuto conto
delle caratteristiche geomorfologiche e
socio-economiche della zona. Nel caso di aree a
popolazione particolarmente concentrata o sparsa e anche al fine di consentire
la coincidenza con un territorio comunale adeguato, sono consentiti limiti più
elevati o, in casi particolari, più ristretti».
(6) Cfr. Mariangela Chiolero, Renata Fenoglio, Franco
Mondino, Maurizio Motta, “Servizi socio-sanitari di
base: il distretto”, Prospettive assistenziali, n. 92, 1990.
(7) Decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229
“Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale a norma
dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n.
(8) L’organizzazione sanitaria italiana conosceva da
tempo una circoscrizione di base – la condotta – che però non era unica per
tutti i servizi ma settoriale, medica, ostetrica, veterinaria, dove la settorialità si ritrovava non solo nelle diverse figure di
operatori ma anche nella diversa dimensione delle aree territoriali di
riferimento. Il distretto previsto dalla legge di 833/1978 ha invece valenza
unitaria ed univoca per l’organizzazione del servizio sanitario e deve essere
costituito in tutte le unità sanitarie locali seppure con dimensioni
demografiche diverse. Cfr. Angeletti, Atti del convegno su “Ussl: realtà e prospettive con particolare riferimento alle
problematiche del distretto di base”, Regione
Piemonte, Assessorato sanità e assistenza, 1980.
(9) Decreto del Presidente della Repubblica 24
luglio 1977, n. 616 “Attuazione della delega di cui all’articolo 1 della legge
22 luglio 1975,n.
(10) Cfr. Emanuele Ranci Ortigosa, “Integrazione dei servizi sociali e sanitari”, Ministero
dell’interno - Direzione generale dei servizi civili, Roma, 1985 e, dello
stesso autore, “Il rapporto tra servizi sociali e sanitari”, in Cristiano Gori, La riforma dei
servizi sociali in Italia, Carocci, Roma, 2004.
(11) È da segnalare – a tale proposito – che
(12) Ed in primo luogo dalla “riforma della riforma
sanitaria” – attuata con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502
“Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della
legge 23 ottobre 1992, n.
(13) Legge 8 novembre 2000, n. 328 “Legge quadro per
la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”.
(14) Editoriale “Le inaccettabili iniziative
concernenti gli adulti non autosufficienti colpiti da patologie invalidanti e
le disastrose conseguenze dell’integrazione socio-sanitaria: occorre ripartire
dalle esigenze e dai diritti”, Prospettive
assistenziali, n. 139, 2002.
(15) Decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri 29 novembre 2001 “Definizione dei livelli essenziali di assistenza”. Il
provvedimento riprende integralmente, citandolo puntualmente tra le fonti
normative di riferimento, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
14 febbraio 2001 “Atto di indirizzo e coordinamento in
materia di prestazioni socio-sanitarie” conosciuto come “Decreto Veronesi”.
(16) Il “decreto Sirchia”
prevede la partecipazione dell’utente alla spesa per le prestazioni afferenti
all’area dell’integrazione sanitaria. Mentre ai cittadini affetti da patologie acute si assicurano le prestazioni (anche quelle molto
onerose) a titolo gratuito (fatti salvi eventuali ticket), alle persone malate
in carico all’assistenza domiciliare integrata; agli adulti e agli anziani non
autosufficienti a causa di patologie croniche; ai disabili gravi e a quelli
“privi del sostegno familiare”; ai malati mentali viene richiesto di
contribuire alle spese sostenute dal sistema sanitario secondo le percentuali
fissate dal decreto stesso.
(17) Cfr. Mauro Perino, “Livelli essenziali di assistenza:
riduzione della spesa sanitaria e nuova emarginazione”, Prospettive assistenziali, n. 137, 2002.
(18) Giuseppe D’Angelo, “Livelli essenziali di
assistenza sociale e diritti esigibili”, Ibidem,
n. 153, 2006.
(19) Cfr. l’articolo “Osservazioni e proposte in merito
all’integrazione socio-sanitaria”, Ibidem,
n. 153, 2006.
(20) Editoriale.
Op. cit.
(21) Roberto Polillo,
esperto del Ministero della salute per il progetto Casa della salute, “La
strada maestra è quella dell’aggregazione funzionale”, Il Sole 24 ore Sanità, 10-16 luglio 2007.
(22) Ibidem.
(23) Paolo Tedeschi, Sda - Cergas Bocconi, “Risorse, serve un progetto chiaro”, Ibidem, 10-16 luglio 2007.
(24) Ibidem.
(25) Secondo Mauro Martini, Presidente del Sindacato
medico Snami, «dobbiamo
restare medici di famiglia, nella famiglia. Conoscere nomi e storie dei
pazienti. Difendere il rapporto di fiducia che ci lega ai
nostri assistiti (…). Rifiutiamo il progetto di riorganizzazione
del territorio ventilato dalla parte pubblica. Non condividiamo né le Unità di
medicina generale né le Case della salute. Per noi la strada è un’altra (…).
Bisognerebbe estendere alle 24 ore il servizio di continuità assistenziale,
rispettando le peculiarità di ciascuno. Il medico di famiglia resterebbe colui che ha in carico il paziente nella sua totalità. Il
nuovo “medico di assistenza territoriale”, evoluzione
della guardia medica, potrebbe invece occuparsi delle mini urgenze e dei codici
bianchi. Si conseguirebbe comunque l’obiettivo di
aumentare la copertura del territorio e di ridurre l’accesso al pronto soccorso,
senza però snaturare il rapporto fiduciario tra medico di famiglia e paziente e
senza distruggere la presenza capillare dei nostri studi. (…). Se releghiamo i
medici di famiglia in una struttura non sono più
liberi professionisti, diventano uguali alla dipendenza (...). Non crediamo
alla necessità di “rifondazione” della medicina generale, che è una delle più
amate articolazioni del Servizio sanitario nazionale».
(26) Mauro Marin, “Mmg ammortizzatore sociale”, Il Sole 24 ore Sanità, 3-9 luglio 2007.
(27) Adi (Assistenza
domiciliare integrata); Adp (Assistenza domiciliare
programmata).
(28) La Commissione nazionale Lea – istituita dal
Ministero della salute – ha approfondito, attraverso un apposito sottogruppo,
l’analisi delle attività assistenziali svolte in regime domiciliare,
residenziale, semiresidenziale e di ospedalizzazione domiciliare con il mandato
di «caratterizzare i diversi percorsi di
cura definiti, per ciascun regime di erogazione, in base alla natura del
bisogno e del livello di intensità dell’assistenza, attraverso l’individuazione
delle prestazioni o dei “pacchetti prestazionali”
appropriati, delle diverse figure professionali coinvolte, della presumibile
durata dell’intervento (…). Il prodotto del lavoro dovrà consentire di
specificare il contenuto dei relativi livelli di assistenza
in termini prestazionali e di fornire elementi utili
per la definizione di standard (qualitativi e quantitativi) e per la
formulazione di ipotesi sulla remunerazione dell’attività». Oltre al
documento citato, la Commissione ha prodotto un secondo importante testo, nel
quale vengono definiti i contenuti
tecnico-professionali delle “Prestazioni residenziali e semiresidenziali”
relative ad anziani non autosufficienti; persone disabili giovani ed adulte;
persone con patologie psichiatriche; persone con patologie terminali. Entrambi
i documenti – che meritano di essere specificamente esaminati – sono reperibili
sul sito web del Ministero della salute. Quello relativo alle “Prestazioni residenziali e semiresidenziali”
è stato integralmente riportato nel n. 159 di Prospettive assistenziali.
(29) Si veda il disegno di legge n. 1050 “Modifiche
al codice civile in materia di tutela temporanea della salute dei soggetti
impossibilitati a provvedervi personalmente” presentato al Senato il 29
settembre 2006 dai Senatori Cesare Salvi e Antonino Caruso. Cfr. il n. 156, 2006 di Prospettive assistenziali.
www.fondazionepromozionesociale.it