Prospettive assistenziali, n. 160, ottobre - dicembre 2007

 

 

OSSERVAZIONI E VALUTAZIONI SULLA CASA DELLA SALUTE

MAURO PERINO*

 

 

Premessa

Nelle “Linee del programma di Governo per la promozione ed equità della salute dei cittadini” che il Ministro della salute On. Livia Turco ha presentato alla Commissione affari sociali della Camera dei Deputati in data 27 giugno 2006, veniva enunciato l’obiettivo strategico di realizzare «un nuovo progetto di medicina del territorio attraverso la promozione della Casa della salute», una «struttura polivalente e funzionale in grado di erogare materialmente l’insieme delle cure primarie e di garantire la continuità assistenziale con l’ospedale e le attività di prevenzione» (1).

Il tema della Casa della salute come «luogo di ricomposizione delle cure primarie e della continuità assistenziale» è stato successivamente ripreso ed approfondito in occasione di uno specifico incontro nazionale – che si è tenuto a Roma il 22 marzo 2007 – nell’ambito del quale si è svolto «un confronto tra il Ministero, le Regioni, gli operatori sanitari, le forze sociali e le associazioni dei cittadini, chiamati a svolgere un ruolo di attori nel processo di potenziamento del sistema di cure primarie di cui la Casa della salute è parte di rilievo» (2).

Secondo il Ministro, infatti, la Casa della salute non è semplicemente «un modello di riorganizzazione della medicina territoriale. È un’idea, un’opportunità, la proposta di una sperimentazione da condividere in un contesto di ascolto e valorizzazione delle tante esperienze territoriali. Non è qualcosa che abbiamo inventato a tavolino al Ministero, ma un’idea che cresce, che abbiamo raccolto e che sarà utile perché si tradurrà in esperienze concrete. Essa scaturisce da un bisogno forte dei cittadini che dobbiamo saper raccogliere oggi e non domani: quello della continuità della assistenza, di una medicina vicina ai cittadini, accessibile e fruibile» (3).

A tal fine – come viene ricordato nel sito del Ministero – la legge finanziaria 2007 ha già stanziato 10 milioni di euro per sostenere la sperimentazione della «nuova struttura di assistenza extra-ospedaliera: la Casa della salute. Essa nasce per unire in un unico centro le prestazioni attualmente fornite dai medici di famiglia, dai pediatri, dagli specialisti ambulatoriali, dalla guardia medica e dall’insieme dei servizi socio-sanitari per le tossicodipendenze, la salute mentale, l’assistenza domiciliare, la prevenzione, i consultori, le invalidità civili e così via». In tal modo si creano – secondo il Ministro – «le condizioni per cominciare a costruire il secondo pilastro della sanità pubblica, a partire dalla necessità di disporre sul territorio di una struttura la cui immagine, agli occhi del cittadino, sia in grado di reggere il confronto con l’ospedale e diventare progressivamente un riferimento credibile».

 

Che cosa è la Casa della salute

La Casa della salute è «una sede fisica» collocata «nell’ambito delle aree elementari del distretto (per un bacino corrispondente a circa 5-10.000 persone)» nella quale vengono svolte «un insieme di attività organizzate in aree specifiche di intervento profondamente integrate tra loro, in cui: si realizza la presa in carico del cittadino per tutte le attività socio-sanitarie che lo riguardano; si persegue la prevenzione orizzontale e per tutta la vita; si attiva un’assistenza domiciliare delle cure a forte integrazione multidisciplinare». È inoltre «un centro attivo e dinamico della comunità locale per la salute e il benessere, in grado di raccogliere la domanda dei cittadini e di organizzare la risposta nelle forme e nei luoghi più appropriati».

Per realizzare la Casa della salute «si potrebbero utilizzare» – secondo il Ministro – «strutture sanitarie o amministrative dismesse, per esempio a seguito della riconversione di piccoli ospedali o presidi da ristrutturare, ma anche edifici messi a disposizione dai Comuni, ambienti acquisiti dal mercato edilizio, sedi specificamente progettate ed edificate». In ogni caso, all’interno della Casa dovrebbe trovare posto «la gran parte dell’offerta extra-ospedaliera del Servizio sanitario nazionale» ed in particolare gli interventi afferenti: all’area dei servizi di informazione e prenotazione di visite, esami e altre prestazioni di cura (centro unico prenotazioni), di segretariato sociale e del coordinamento con le farmacie; all’area dei servizi sanitari; all’area dei servizi socio-sanitari; all’area dei servizi sociali.

 

L’articolazione dei servizi della Casa della salute

Tra i servizi sanitari offerti vengono in primo luogo indicati: il «punto di soccorso mobile 118», dotato di personale medico a bordo presente 24 ore su 24, opportunamente collocato «alla porta della Casa della salute», e le «attività di prelievo», con risposte a domicilio entro 24/48 ore, che dovranno trovare un idoneo spazio funzionale. L’edificio dovrà inoltre offrire la possibilità di organizzare le «attività di donazione del sangue con l’impegno e la partecipazione delle associazioni del volontariato».

La Casa dovrà poi ospitare un «ambulatorio di prime cure e per le piccole urgenze» sempre disponibile nelle ore diurne e un «ambulatorio dei medici di medicina generale» per tutti i medici ed i pediatri di libera scelta «che desiderano trovare nella Casa della salute lo spazio per i loro studi medici». Il Ministro precisa infatti che non è obbligatorio che tutti i medici di famiglia ed i pediatri di libera scelta dell’area territoriale di riferimento si trasferiscano nella struttura. A coloro che si renderanno disponibili la Casa offrirà però «ambulatori propri con sale di attesa, spazi per attività collegiali, servizi di segreteria, disponibilità di tecnologie diagnostiche e informatiche (telemedicina e teleconsulto), servizi d’informazione direttamente collegati con il Centro unificato di prenotazione (sportello), archivio informatizzato delle cartelle cliniche, ecc.». In ogni caso, la Casa della salute «costituisce la sede del coordinamento per le attività comuni di tutti i medici di medicina generale, sia che operino esclusivamente all’interno sia che mantengano il proprio studio al di fuori della nuova struttura».

Il testo dell’intervento del Ministro prosegue con l’elenco degli ulteriori servizi sanitari che la Casa dovrebbe offrire: «continuità assistenziale» (sette giorni su sette, 24 ore al giorno) da realizzarsi con il contributo delle «diverse figure professionali coinvolte (medici e infermieri in primis) attraverso forme di coordinamento oggi ancora difficili da realizzare e praticamente assenti»; «ambulatorio infermieristico»; «degenze territoriali (ospedale di comunità)», con alcuni posti letto destinati a «pazienti per stati patologici che difficilmente possono essere curati al domicilio, ma che non richiedono neppure un ricovero ospedaliero» (con infermieri presenti 24 ore su 24, con operatori socio-sanitari e con i medici di famiglia e gli specialisti che «secondo il bisogno» garantiscono la tutela medica); «attività specialistiche», svolte in ambulatori con aree e orari adeguati alle esigenze del bacino di utenza servito («utilizzando tanto gli specialisti convenzionati che quelli dipendenti dalla struttura ospedaliera»).

Infine alla Casa è richiesto di dotarsi di «tecnologie diagnostiche semplici (radiografie, ecografie, mammografie, spirometrie, prove da sforzo, ecodoppler che verranno utilizzate «dai medici di famiglia e dagli specialisti, o da tecnici di radiologia e da radiologi che fanno riferimento alla struttura con orari programmati».

All’elencazione dei servizi afferenti all’area sanitaria, fa seguito la descrizione di quelli che – secondo il Ministro – si collocano nell’area dei servizi socio-sanitari e «che possono essere variamente rappresentati in funzione delle esigenze di programmazione e dei diversi bisogni dalla comunità di riferimento». Tra questi si ritrovano: i servizi per le tossicodipendenze (Sert) «dotati di spazi autonomi ma coordinati con i servizi di cure primarie, i servizi sociali e le attività di auto aiuto»; i servizi di salute mentale «in coordinamento con le altre strutture di assistenza diurna per disabili e malati di mente»; i centri diurni che «svolgono attività di supporto assistenziale per persone non autosufficienti che di giorno non possono restare in famiglia» e che rappresentano «un anello fondamentale della rete territoriale di assistenza socio-sanitaria ad elevata integrazione sanitaria»; i servizi di recupero e riabilitazione funzionale, chiamati ad operare «tanto per chi sia eventualmente ricoverato (per esempio in una residenza sanitaria assistenziale o in un hospice) che per le utenze esterne (il domicilio, casa di riposo)». Nella Casa, infatti, «può essere inserita» una residenza sanitaria assistenziale «dotata normalmente di un modulo di 20 posti letto». In tal modo viene ad essa garantito «un rapporto stretto con il complesso dei servizi sanitari e sociali collocati all’interno della Casa della salute o sul territorio di riferimento».

Quanto all’assistenza domiciliare integrata (Adi), essa «dispone di una propria sede e di mezzi di trasporto. Le attività sono in gran parte proiettate al domicilio, salvo le fasi di programmazione, di coordinamento delle attività, di approfondimento dei casi che sono svolte nella Casa della salute». L’équipe, «composta dal medico di famiglia competente per il caso, da infermieri, da assistenti sociali, da operatori socio-sanitari, da specialisti», interviene «secondo le necessità rilevate dall’Unità di valutazione multidimensionale» che «definisce le procedure di effettiva presa in carico del paziente portatore di patologie complesse, con particolare riferimento a quelle cronico-degenerative». Infine, nella Casa della salute viene previsto – oltre al consultorio familiare e ambulatorio andrologico – uno «spazio strategico» ove «trovano collocazione le proiezioni funzionali del dipartimento di prevenzione per attività di sanità pubblica» che devono operare attraverso programmi partecipati di intervento sui fattori di rischio, coinvolgendo, tra l’altro, «i medici di medicina generale per valorizzarne la mole ingente di informazioni epidemiologiche e utilizzarne al meglio il loro rapporto quotidiano con i cittadini».

A completare il quadro dei servizi offerti dalla Casa, interviene l’area dei servizi sociali, nella quale trovano posto gli «uffici per il servizio sociale (…) per colloqui, accoglienza, per il pronto intervento sociale, da attivare anche con l’apporto delle associazioni del volontariato»; le «attività amministrative (…) per il supporto delle attività sanitarie e sociali svolte nella Casa della salute, in modo da semplificare i percorsi assistenziali dei cittadini e “liberare” gli operatori, in particolare i medici di famiglia, dalle incombenze burocratiche che ne limitano e complicano l’esercizio della professione» e le «tecnologie informatiche» (teleconsulto, telediagnosi clinica, teleassistenza e telemonitoraggio).

 

Il distretto e la Casa della salute

Per cogliere l’opportunità rappresentata dalla Casa della salute occorre procedere – secondo il Ministro – nella costruzione del sistema delle cure primarie individuando nel distretto «il punto di incontro tra domanda di salute dei cittadini ed offerta di cure, benessere e nuova socialità; il luogo della programmazione integrata delle attività sanitarie e assistenziali; l’area-sistema ricomprendente in un modello a rete presidi e servizi, ora dispersi, finalizzati a dare risposte territoriali ai problemi di salute e di cura dei cittadini, compresi quelli per la tutela materno-infantile, della salute mentale, delle dipendenze, delle disabilità; lo spazio privilegiato per la presa in carico del cittadino e per l’integrazione tra le attività sanitarie e quelle di tipo sociale, con la definizione del percorso assistenziale individuale per le persone portatrici di bisogni complessi (…) e/o in condizioni di non autosufficienza (…); il luogo della partecipazione del cittadino competente (…) alla definizione degli obiettivi di salute e alla valutazione dei risultati ottenuti; il luogo nel quale promuovere la prevenzione intesa come evento orizzontale, che interessa tutta la vita del cittadino (…)».

In tal modo vi sarebbero i presupposti per «cominciare a costruire il secondo pilastro della sanità pubblica, da affiancare all’ospedale», basandosi «sulla capacità di assicurare risposte, in tempi brevi e certi, ai bisogni dei cittadini» con particolare attenzione per «la continuità assistenziale» – 24 ore al giorno e sette giorni su sette – nonché «il potenziamento delle forme associative dei medici di medicina generale e degli altri professionisti sanitari» – ripensando, nella direzione del lavoro in rete sul territorio, anche il ruolo degli specialisti ambulatoriali – «la valorizzazione del ruolo delle farmacie» – rilanciandole «quale presidio insostituibile del Servizio sanitario nazionale»«l’istituzione del punto unico di accesso del cittadino» – con la creazione di uno sportello unico per le prestazioni sociali e sanitarie che rappresenti «una sorta di centrale operativa per la presa in carico socio-sanitaria»«l’istituzione del dipartimento delle cure primarie» in ogni singola Azienda sanitaria che «nell’ottica (…) di una forte integrazione tra le attività sanitarie e assistenziali (…) acquista un significato del tutto particolare, pratico e simbolico al tempo stesso». Solo attraverso un dipartimento unico è infatti possibile realizzare – secondo l’On. Turco – «un “governo” effettivo del complesso delle attività di assistenza primaria, i cui momenti fondamentali passano attraverso la predisposizione di piani di intervento specifici per le diverse aree assistenziali e la gestione unitaria delle risorse umane e professionali».

Tutto ciò al fine di perseguire: «centralità del cittadino, promozione della presa in carico, in particolare delle fragilità, integrazione socio-sanitaria» con la convinzione che «l’ambizione di assicurare risposte ai nuovi bisogni di salute, a partire da questi punti fermi, non ha tanto a che vedere (…) con le alchimie e gli equilibri degli assetti istituzionali, pur importantissimi, ma appartiene alla esperienza di governo concreta, tocca le progettualità e la voglia e la determinazione di investirci e spenderle, rischiando».

 

Criticità della sanità territoriale e Casa della salute

La proposta di sperimentazione della Casa della salute – così come è stata formulata dal Ministro nell’ambito dell’incontro nazionale citato in premessa – non è accompagnata da una (pur breve) analisi delle storture del sistema sanitario alle quali il nuovo modello organizzativo dovrebbe poter porre rimedio. Per conoscere l’impianto critico che l’ha originata è perciò necessario risalire ad un opuscolo del Sindacato pensionati della Cgil nel quale – tra l’altro – viene rivendicata la “primogenitura” sulla proposta (4).

Nel documento vengono indicate le criticità della sanità territoriale, in primo luogo con riferimento al cittadino che quando «si ammala o ha necessità di aiuto sociale comincia il suo peregrinare da un ufficio all’altro, da un ambulatorio all’altro, da un presidio all’altro alla ricerca di una esauriente risposta al suo problema. La burocrazia lo aspetta al varco e lo immette in un labirinto di regolamenti e di prescrizioni farraginose da osservare che fanno perdere tempo, a volte giornate di lavoro, e spesso indeboliscono la fiducia del cittadino nell’efficienza delle istituzioni». Tutto ciò a causa del fatto che «l’organizzazione del sistema sanitario e sociale è stata pensata e realizzata un pezzo dopo l’altro, senza un progetto unitario, senza connessione tra presidi e servizi e, soprattutto, senza considerare il cittadino con la complessità dei suoi bisogni e senza porsi il problema della “presa in carico” della domanda per organizzare la risposta». La soluzione – da organizzare nell’ambito della Casa della salute – è rappresentata, secondo il Sindacato, dall’attivazione dello «sportello unico» che è «il primo dei livelli essenziali di assistenza sanitaria e sociale da garantire a tutti, in tutto il territorio nazionale».

Una seconda criticità è quella nella quale si dibattono «gli stessi operatori sociali e sanitari» che «vivono l’impotenza della loro professione, perché separati tra loro, perché lontani dalle strutture di specialità, perché senza collegamenti con quella politica che deve mettere a disposizione le strutture di cui abbisognano i cittadini». In particolare «è proprio il medico di famiglia, così essenziale per una qualità delle cure primarie, che registra una preoccupante impotenza sia per giungere correttamente a una buona diagnosi di causa sia per inserire il paziente in un efficace percorso assistenziale». Dunque, secondo il Sindacato, «non ci si può meravigliare se la professione medica perde il senso della sua stessa missione. Al contrario, valorizzare le professioni, inquadrare il rapporto duale medico-paziente in un progetto di sanità pubblica, integrare i servizi e le attività, responsabilizzare e innovare le cure primarie è necessario e possibile realizzando, tutte le volte che ciò sia possibile, sedi uniche di lavoro nelle quali prende consistenza quel lavoro di gruppo che pure è previsto e richiesto dalla legge nazionale n.229/1999 e dalla convenzione nazionale per la medicina generale».

Infine occorre considerare che «al danno che subiscono i cittadini, alle frustrazioni che fiaccano gli operatori si aggiungono le perdite nette delle istituzioni, delle Regioni, delle Aziende sanitarie e degli Enti locali, per la dispersione delle risorse finanziarie e per la perdita di credibilità e di fiducia da parte dei cittadini». Risorse finanziarie – quelle destinate alla sanità territoriale – «scarse, molto al di sotto del necessario (…) ma anche quelle poche (…) non danno frutti in termine di salute e di buone cure e la domanda si rivolge inevitabilmente in ospedale, quella giusta e quella impropria. (…) Con il risultato che, alla lunga, un sistema sanitario centrato tutto o quasi sull’ospedale è insostenibile umanamente ed economicamente». Per porre rimedio a quest’ultima criticità occorre – secondo il documento sindacale – invertire il processo attuale ed evitare il ricovero improprio, sapendo che ciò significa «portare le competenze specialistiche nel territorio a supporto della medicina generale (…). Ma lo spreco non avrebbe fine, anzi aumenterebbe come in un pozzo di San Patrizio, se il territorio ricevesse nuove risorse finanziarie e professionali e non fosse ben organizzato, se i rapporti tra servizi e operatori non fossero disciplinati da regole e da modelli che prevedono interdipendenza, valutazione dell’efficacia, partecipazione, governo clinico e responsabilizzazione».

 

Decentramento e Casa della salute

Un altro elemento, che resta in ombra nell’intervento dell’On. Livia Turco, è una valutazione sullo stato del quadro normativo che regola il sistema sanitario. Eppure – nel documento contenente le linee programmatiche presentato lo scorso anno alla Commissione affari sociali della Camera dei Deputati – lo stesso Ministro si interrogava su «come mai, pur previsto nel decreto 229/1999, il distretto non è diventato ciò che doveva diventare».

Anche in questo caso è possibile fare riferimento al documento sindacale, nel quale si afferma che «la Casa della salute sta nel distretto, o meglio nella sua articolazione subdistrettuale. Ma non in un distretto purchessia. L’inversione di tendenza nella sanità pubblica, necessaria per rispondere al mutato quadro epidemiologico, per dare risposte efficaci alla domanda di salute e di cura dei cittadini e per riportare i costi del Servizio sanitario nazionale a un corretto rapporto tra costi e benefici implica e richiede un sistema regolato fondato su alcuni pilastri strutturali permanenti che devono avere cittadinanza in ogni distretto socio-sanitario». Per realizzare tale obiettivo «Ministri, Assessori regionali e Sindaci che vogliono realizzare una sanità pubblica misurata sui bisogni dei loro cittadini hanno dalla loro parte le leggi, in particolare la “229” e la “328”. (…) Sono infatti le due leggi gemelle della sanità e del sociale che richiedono un governo unico nel distretto sanitario e sociale per tutti i cittadini, che prevedono l’approvazione dei piani territoriali della sanità e delle politiche sociali, la rete integrata dei servizi e dei presidi, il lavoro di gruppo o dipartimentale che dir si voglia, la responsabilizzazione degli amministratori e degli operatori».

Vi è però un problema: queste leggi «hanno fatto tutto quello che le leggi quadro potevano e dovevano fare, stabilendo finanche i criteri per il dimensionamento degli ambiti: non meno di 60 mila abitanti, salvo eccezioni determinate dalla conformazione dei territori, dalla densità della popolazione, dagli accessi alla rete dei servizi. Più di questo non potevano decidere, perché nell’ordinamento costituzionale italiano è previsto uno spazio legislativo delle Regioni che deve essere rispettato ed è affermata l’autonoma iniziativa degli Enti locali che deve essere valorizzata». In sostanza dall’orizzonte delle leggi quadro è rimasta fuori – secondo il Sindacato – «la grande questione del decentramento del sistema sanitario e sociale» ed inoltre «bisogna riconoscere che a sette anni di distanza quello spazio legislativo regionale non è stato coperto e quell’iniziativa degli Enti locali è stata assai lacunosa».

Occorre pertanto porre rimedio alla «antica e persistente distrazione delle istituzioni italiane sui problemi della qualità della gestione, sui modelli operativi che prevedono l’impiego razionale delle risorse finanziarie, umane e tecnologiche e il raggiungimento del gradimento dei cittadini in rapporto ai loro bisogni di salute e di benessere sociale», prendendo atto che «il distretto disegnato dalle leggi quadro ha dimensioni cospicue sia per ampiezza del territorio che per consistenza della popolazione e non può essere considerato in nessun modo come un’area indifferenziata, un contenitore che ognuno riempie con scelte discrezionali o che, all’italiana, tutti lasciano alla casualità degli eventi». La soluzione va dunque ricercata nella creazione delle «aree elementari nelle quali si incontra il sistema della domanda con il sistema dell’offerta (…) aree (subdistrettuali e subzonali) che possono oscillare da un minimo di 5 mila a un massimo di 30 mila abitanti, secondo la densità della popolazione e la morfologia del territorio». Le «aree elementari e il governo unico del Welfare locale» rappresentano infatti – secondo quanto affermato dal documento sindacale – «l’abc del Welfare e senza di essi tutto è sospeso in aria, tutto è dispersivo e precario».

 

Vecchie e nuove soluzioni al problema degli ambiti territoriali

Le «aree elementari» nelle quali andrebbe collocata la «sede fisica» rappresentata dalla Casa della salute ricordano molto da vicino quei «distretti sanitari di base» – intesi come «strutture tecnico-funzionali per l’erogazione dei servizi di primo livello e di pronto intervento» – per i quali l’articolo 10 della legge 833/1978 – molto opportunamente – non stabiliva alcun vincolo di dimensionamento lasciando alle Regioni il compito di stabilire i criteri in base ai quali i Comuni, singoli o associati, o le Comunità montane avrebbero poi provveduto ad articolarli (5).

Dunque l’idea di collocare «un insieme di attività organizzate in aree specifiche di intervento profondamente integrate tra loro» nell’ambito di un distretto che non si configurasse «come un’area indifferenziata, un contenitore che ognuno riempie con scelte discrezionali» non rappresenta una novità assoluta (6). Le Regioni ed i Comuni, per le rispettive competenze, hanno infatti potuto perseguire il dimensionamento ottimale del distretto almeno sino all’approvazione del decreto legislativo 229/1999 (7), con il quale venne fissato l’attuale limite di almeno sessantamila abitanti. Ed anche successivamente – come osserva il Sindacato pensionati – è rimasta la possibilità di considerare le «eccezioni determinate dalla conformazione dei territori, dalla densità della popolazione, dagli accessi alla rete dei servizi».

Ma anche il riconoscimento dell’esigenza di concentrare «la gran parte dell’offerta extra-ospedaliera del Servizio sanitario nazionale» in sedi territoriali facilmente individuabili dalla popolazione risale agli anni nei quali venne elaborata e poi approvata la legge di riforma. Il ruolo della struttura tecnico-funzionale del distretto delineato dalla legge 833/1978 era infatti quello di svolgere le attività di primo livello e di pronto intervento che, per le loro caratteristiche e modalità operative, costituiscono il primo approccio del cittadino con il Servizio sanitario. Venivano fatte rientrare in questa definizione le attività di competenza del medico di base, del pediatra, dei medici scolastici; quelle ostetrico-ginecologiche; l’educazione sanitaria; l’assistenza farmaceutica, la profilassi e la vigilanza ambientale e quella veterinaria. Sin dal primo momento era inoltre apparso chiaro che la semplice presenza di operatori – già collocati a livello di base nella fase precedente la riforma (8) – non rappresentava una condizione sufficiente per la costituzione della struttura tecnico operativa del distretto. La normativa di riferimento delineava perciò un sistema organico di professionalità diverse, da costruire attraverso l’applicazione di due principi fondamentali: la residenzialità degli operatori nel distretto e la operatività coordinata delle diverse figure professionali, da realizzare attraverso l’adozione di una metodologia – quella del lavoro di gruppo – considerata strumento indispensabile per garantire le necessarie interrelazioni tra gli operatori addetti all’assistenza medica in senso lato e gli altri con specifica professionalità in materia di igiene ambientale, di veterinaria, di assistenza sociale, ecc.

Infine in quell’epoca erano decisamente più chiari, rispetto ad oggi, i presupposti normativi per affrontare la questione – più volte posta dal Ministro – della «integrazione tra le attività sanitarie e quelle di tipo sociale» e per la quale vennero trovate, allora, soluzioni diversificate sul piano nazionale. Le Regioni più attente istituirono – in forza dell’articolo 25, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 616/1977 (9) e degli articoli 11 e 15 della legge 833/1978 – le Unità socio-sanitarie locali alle quali i Comuni delegarono l’esercizio delle loro funzioni in materia socio-assistenziale realizzando un’integrazione sia istituzionale che organizzativa. Questo consentì – nelle Regioni del Nord ed in alcune del Centro – di attivare, pur con modalità diverse, i distretti socio-sanitari di base. Mentre nelle restanti Regioni, si mantenne una netta separazione fra i servizi sociali e quelli sanitari ed il distretto di base rimase, in genere, sulla carta (10).

Dall’esame dell’esperienza condotta a partire dall’approvazione della legge di riforma sanitaria si evince in ogni caso chiaramente che «la grande questione del decentramento del sistema sanitario e sociale» non andrebbe semplicisticamente ricondotta alla necessità di creare delle «aree elementari» ma, molto più opportunamente, al dimensionamento che i distretti, in quanto tali, devono assumere per un efficace esercizio delle funzioni ad essi attribuite (11). Andrebbero inoltre individuate e colpite le responsabilità che hanno dato luogo ad una generalizzata (e persistente) violazione – da parte delle Aziende sanitarie – delle norme che prevedono che al distretto siano attribuite risorse definite in rapporto agli obiettivi di salute della popolazione di riferimento e che lo stesso sia dotato di autonomia tecnico gestionale ed economico finanziaria, con contabilità separata all’interno del bilancio dell’Unità sanitaria locale.

Posto che l’esperienza di costruzione di un distretto caratterizzato dalla «capacità di assicurare risposte, in tempi brevi e certi, ai bisogni dei cittadini» ed in grado di rappresentare «il secondo pilastro della sanità pubblica, da affiancare all’ospedale» risale ad un’epoca ben precedente all’approvazione delle «due leggi gemelle della sanità e del sociale» citate nel documento sindacale, sarebbe necessario domandarsi se le ragioni che hanno determinato il fallimento degli originari distretti socio-sanitari di base – diffuso malgoverno del sistema, progressiva riduzione delle risorse finanziarie e di personale destinate alla sanità territoriale, prevalere di spinte corporative nell’ambito dei servizi, ecc. – non siano ancora oggi presenti e, purtroppo, determinanti.

Occorre infatti che si traggano i necessari insegnamenti dal percorso che si è compiuto, analizzando e rimuovendo le cause che hanno determinato un arretramento nei sistemi di tutela della salute e della sicurezza sociale. Solamente a partire da questi presupposti – ed in particolare dal rispetto delle leggi che tutelano la cittadinanza e dalla revisione di quelle che ne ledono i diritti (12) – sarà possibile perseguire efficacemente l’obiettivo del «potenziamento del sistema di cure primarie di cui la Casa della salute è parte di rilievo». Del resto è lo stesso Sindacato che giunge (finalmente) ad affermare che «forse dovrebbero essere definite le sanzioni per chi quei diritti non li garantisce».

Con l’approvazione del decreto legislativo 229/1999 il distretto ha ritrovato – almeno potenzialmente – una configurazione di centro di riferimento sanitario e socio-sanitario per l’incontro tra le istanze espresse dalla comunità locale ed il complesso delle risposte che il servizio sanitario è in grado di fornire. Ma è proprio la constatazione della inadempienza generalizzata nell’applicazione delle disposizioni di tale decreto che dovrebbe suggerire di porre maggiore attenzione proprio agli «equilibri degli assetti istituzionali». La realizzazione di distretti in grado di assolvere alle funzioni descritte dal Ministro, richiede infatti che vengano tutelati i poteri dei Comuni – rappresentanti delle istanze espresse dalle comunità locali – nei confronti dei Direttori generali delle Aziende sanitarie che, già in vigenza dell’attuale normativa, avrebbero l’obbligo di approvare i programmi relativi alle attività socio-sanitarie distrettuali previa intesa con i “Comitati dei Sindaci”.

Infine giova ricordare che, in coerenza con tale impostazione, si muove anche l’articolo 19 della legge 328/2000 (13) che demanda al Piano di zona, di norma adottato attraverso un accordo di programma, l’individuazione – da parte dei Comuni associati d’intesa con le Aziende sanitarie locali per gli interventi sociali e socio-sanitari – delle «modalità organizzative dei servizi e delle risorse finanziarie, strutturali e professionali»; nonché delle «modalità per garantire, a livello territoriale, l’integrazione tra servizi e prestazioni e la concertazione inter istituzionale». È pur vero che – come afferma il Ministro – per «promuovere il benessere delle persone» occorre «anche e soprattutto partecipazione (…) capacità di costruire comunità. E questo non lo si fa solo con le leggi». Ma è altrettanto vero che se proprio le leggi poste a tutela dei cittadini e dei loro diretti rappresentanti vengono impunemente ignorate, allora è forte la sensazione che del concetto di partecipazione si faccia un uso meramente retorico.

Per evitare che la Casa della salute si configuri come un semplice contenitore, occorre dunque fare chiarezza sulle competenze istituzionali nell’erogazione delle prestazioni di livello essenziale, mettendo i Comuni nelle condizioni di tutelare il diritto alla salute della cittadinanza rappresentata. Si tratta inoltre di contrastare l’impostazione “culturale” – ormai dilagante – secondo la quale è prerogativa del Servizio sanitario assicurare la cura della malattia nelle sue fasi acute, mentre la cronicità, in tutte le sue manifestazioni, viene espulsa, in violazione delle norme vigenti, dalla pienezza del diritto alla salute. Occorre che la sanità sia tenuta – in sintesi – ad assumere direttamente tutte le valenze umane, relazionali e sociali nell’ambito delle attività di prevenzione, cura e riabilitazione che il sistema sanitario è chiamato a svolgere a beneficio di tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti dei servizi.

 

L’integrazione tra le attività sanitarie e quelle sociali

Nell’intervento del Ministro della salute e nel documento sindacale viene ripetutamente sottolineata l’esigenza di realizzare, nell’ambito della Casa della salute, una stabile integrazione tra le attività sanitarie e quelle sociali. Viene in sostanza ribadita l’opinione – che ha generato numerose e forti aspettative nella popolazione, nelle organizzazioni di base e fra gli operatori già negli anni ’80 – che, con l’integrazione socio-sanitaria, si possano automaticamente risolvere le più importanti questioni aperte.

Sulla base di tale diffusa considerazione si è giustificata la creazione, nell’ambito del sistema sanitario, di una “area dei servizi socio-sanitari” alla quale l’On. Turco – nel suo intervento – fa afferire i servizi per le tossicodipendenze; i servizi di salute mentale; i centri diurni (che, facendo di ogni erba un fascio, vengono impropriamente destinati a fornire «assistenza diurna per disabili e malati di mente» oltre che a «persone non autosufficienti che di giorno non possono restare in famiglia»); i servizi di recupero e riabilitazione funzionale; le residenze sanitarie assistenziali; l’assistenza domiciliare integrata; i servizi consultoriali; le unità di valutazione multidimensionale.

Ma ciò che la vigente normativa socio-sanitaria non affronta efficacemente è il riconoscimento effettivo dei diritti degli utenti «nonostante che, alla luce delle esperienze concrete, sia superata da moltissimi anni la concezione secondo cui il miglioramento delle condizioni di vita si ottiene solamente o principalmente mediante una diversa organizzazione delle prestazioni, l’incremento della professionalità degli operatori o con altri strumenti tecnici. Sul piano delle dichiarazioni verbali, politici, amministratori e operatori non perdono occasione per affermare che il cittadino deve essere sempre posto al centro dei servizi socio-sanitari; quando però si tratta di concretizzare questa affermazione, allora i diritti degli utenti non vengono inseriti nelle leggi nazionali e regionali, nelle delibere comunali o consortili, nei provvedimenti delle Asl» (14).

I concetti di unitarietà e globalità degli interventi, superamento delle prassi settoriali, integrazione delle competenze e dei servizi, maggiore attenzione ai soggetti deboli, non possono che essere condivisi. Ma occorre che essi vengano tradotti in contenuti concreti e, quando sono riferiti a condizioni che esprimono bisogni esistenziali fondamentali, determinino diritti esigibili da parte dei cittadini.

Oggi il diritto all’eguaglianza nell’accesso alle prestazioni sanitarie ed alla continuità delle cure viene pesantemente leso dal processo di emarginazione delle persone più deboli che si è avviato all’interno del sistema sanitario utilizzando, strumentalmente, il concetto di “integrazione socio-sanitaria”. Con il “decreto Sirchia” (15) che definisce i livelli essenziali di assistenza sanitaria (confermato con forza di legge dall’articolo 54 della finanziaria 2003) si è infatti regolamentata una prassi secondo la quale mentre durante il periodo acuto le cure devono essere fornite dai servizi e dalle strutture sanitarie, nel corso della fase cronica le prestazioni devono essere erogate dal Servizio sanitario per quanto concerne gli interventi sanitari e “sanitari a rilievo sociale” e dai Comuni per quanto riguarda le attività “sociali a rilievo sanitario” e socio-assistenziali. Accade così che alle persone colpite da patologie invalidanti e da non autosufficienza viene di fatto negato il diritto, sancito dalle leggi vigenti, ad essere curate senza limiti di durata direttamente dal Servizio sanitario. Con il conseguente dilagare delle dimissioni – molto spesso selvagge poiché non viene garantita la prosecuzione delle cure a domicilio o presso strutture sanitarie o presso Rsa (Residenze sanitarie assistenziali) – di questi soggetti da ospedali e case di cura private convenzionate.

Si è così applicato il cosiddetto “universalismo selettivo” non al complesso del sistema sanitario pubblico (che la prima legge di riforma voleva fondato su un universalismo senza aggettivi) ma esclusivamente alle fasce di utenza più deboli, alle quali viene inoltre negato – per quanto attiene al tema della contribuzione al costo delle prestazioni (16) – un rapporto diretto e lineare con il sistema sanitario. Il decreto, infatti, non prevede che siano direttamente le Aziende sanitarie ad intrattenere i rapporti economici con l’utenza dei servizi socio-sanitari, né che esse si facciano carico di applicare criteri reddituali omogenei in base ai quali chiamare il cittadino a compartecipare alla spesa. Ancora una volta sono i servizi socio-assistenziali a dover integrare, in tutto o in parte, la spesa che il cittadino non è in grado di sostenere, sulla base dei criteri definiti dai Comuni.

In tal modo si palesa una disparità di trattamento tra le persone malate. I “malati acuti” vengono “inclusi” pienamente nel sistema sanitario – anche quando sono chiamati a pagare un ticket (i limiti di reddito per le esenzioni sono infatti fissati con apposita normativa regionale, applicata dalle Aziende sanitarie) – i “malati cronici” subiscono invece una oggettiva limitazione del diritto a beneficiare di un eguale trattamento a parità di bisogni espressi e di condizioni economiche (visto che i criteri di integrazione della spesa variano su base comunale). Tutto ciò accade non per una carenza di “integrazione” tra comparti ma, molto più prosaicamente, per l’annoso problema delle risorse. E, come più volte rilevato da questa rivista, «per ridurre la spesa sanitaria c’è un sistema molto semplice e purtroppo collaudatissimo: esso consiste nel dirottare gli utenti più deboli nel settore assistenziale. D’altra parte sono questi utenti (soprattutto anziani cronici non autosufficienti, malati mentali, lungodegenti) che comportano rilevanti spese» (17).

La tutela del diritto alla salute (ed all’assistenza sociale) impone invece di agire sulla dislocazione delle risorse che, per il livello essenziale di ogni intervento costituzionalmente previsto, deve essere necessariamente vincolata. Per queste ragioni «occorre (…) distribuire le risorse con giustizia, evitare gli sprechi, pianificare gli interventi, non farsi carico di attività che competono agli altri settori sociali» (18). Con riferimento al tema dell’integrazione socio-sanitaria è dunque necessario ribadire quanto siano negative «le proposte» – come quella declinata nell’ambito del progetto di sperimentazione della Casa della salute – «fondate sulla presunta necessità di porre sullo stesso piano le competenze della sanità e del settore socio-assistenziale per quanto concerne la programmazione e la gestione degli interventi» (19).

La sovrapposizione istituzionale ed operativa e la artificiale individuazione di situazioni (prestazioni sanitarie a rilievo sociale, prestazioni sociali e rilievo sanitario, prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria, le fasi intensive, estensive e lungoassistenziali, ecc.) da parte delle caotiche disposizioni relative all’area socio-sanitaria costituiscono, per gli ultradiciottenni colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza, un ostacolo all’accesso ai servizi, all’ottenimento delle prestazioni e, più in generale, alla conoscenza di quali sono i diritti che possono essere rivendicati.

Vi è dunque l’esigenza di eliminare «i nefasti effetti delle reciproche interferenze fra Asl e Comuni (…) assegnando al servizio sanitario nazionale piena competenza in materia sanitaria, come peraltro prevede la legge n. 833/1978, ed ai Comuni la totale giurisdizione in merito alle attività socio-assistenziali. Di conseguenza, a ciascuno dei suddetti enti potrebbe essere attribuita la totalità dei finanziamenti relativi ai servizi di propria competenza, evitando l’attuale stortura per cui dette erogazioni sono assegnate per le stesse attività in parte alle Asl ed in parte ai Comuni. Ad esempio, se ai Comuni venisse erogato dalla Regione uno stanziamento complessivo riguardante le comunità alloggio (o i centri diurni) per i soggetti con handicap intellettivo, si eviterebbe che i Comuni stessi siano costretti ad intavolare trattative spesso lunghe e defatiganti con le Asl per ottenere il versamento della cosiddetta quota sanitaria. Si eliminerebbero, inoltre, le odierne inevitabili e ingiustificate differenze da zona a zona dell’ammontare delle quote sanitarie e so-ciali» (20).

In ogni caso, è utile ricordare che le prestazioni afferenti all’area dell’integrazione socio-sanitaria che la Casa della salute è chiamata ad erogare rientrano, a tutti gli effetti, tra i livelli essenziali di assistenza che il sistema sanitario è tenuto ad assicurare. Pertanto tali prestazioni devono essere fornite con i criteri e le modalità operative del Servizio sanitario. Evitando cioè che prevalgano le regole del settore socio-assistenziale (limitazione delle prestazioni ai soggetti in condizioni di disagio socio-economico, ridotti orari di apertura degli uffici preposti all’accesso ai servizi, tempi lunghi occorrenti per l’accertamento del diritto agli interventi, ecc.) come si verificherebbe se le prestazioni socio-sanitarie dovessero essere sempre concordate tra i due settori.

Le cure medico-infermieristiche domiciliari (l’attività del medico di medicina generale, degli specialisti, degli infermieri e dei riabilitatori, l’ospedalizzazione a domicilio e l’assistenza domiciliare integrata) devono dunque venire erogate secondo le norme vigenti in materia sanitaria. Solamente se del caso – e cioè quando ne è stato accertata l’esigenza – tali prestazioni dovranno essere integrate dagli interventi socio-assistenziali. Sarebbe inoltre opportuno che – per favorire il massimo sviluppo delle cure domiciliari – fra le prestazioni sanitarie venissero inseriti interventi di natura economica (rimborso forfettario delle spese vive) a favore dei congiunti e delle terze persone che volontariamente accettano di svolgere una parte dei compiti attribuiti dalle vigenti leggi alla sanità.

Infine va ribadito che i servizi socio-assistenziali sono chiamati ad operare per la tutela di un diritto costituzionale – quello all’assistenza sociale – che ha caratteristiche molto diverse dal complesso dei diritti che afferiscono alla “sicurezza sociale”. A differenza dei diritti alla salute, all’istruzione e ai trasporti che devono essere obbligatoriamente rivolti a tutta la cittadinanza, il diritto all’assistenza deve avere un carattere selettivo. Va dunque definito in modo puntuale il rapporto che deve intercorrere tra diritti esigibili dai più deboli ed opportunità da offrire alla cittadinanza in generale. Operando una corretta selezione delle risorse da allocare: agli interventi ed ai servizi destinati alle persone che necessitano di assistenza sociale vanno assegnate le risorse (finanziarie, umane e strumentali) necessarie. Al resto dei potenziali fruitori è destinato “il di più” nel caso siano disponibili risorse aggiuntive.

In sintesi è necessario chiarire che i servizi socio-assistenziali rappresentano un “sotto insieme” del complesso dei servizi preposti ad assicurare l’effettività dei diritti afferenti al sistema di sicurezza sociale (ed in particolare al sistema sanitario). Si tratta dunque di servizi che hanno una specificità che deve essere preservata, pena la lesione dei diritti dei più deboli perpetrata attraverso la strumentalizzazione di concetti importanti quali – ad esempio – la prevenzione del bisogno assistenziale, la non discriminazione, la connessione tra condizione sociale e stato di salute. Purtroppo nella proposta del Ministro si ripropone un’impostazione che confonde l’area delle attività socio-sanitarie – che, come si è detto, devono in ogni caso essere garantite direttamente dal sistema sanitario – con l’area dei servizi sociali che viene genericamente chiamata – attraverso «gli uffici per il servizio sociale» – ad effettuare «colloqui, accoglienza (…), pronto intervento sociale anche con l’apporto delle associazioni del volontariato», al di fuori da ogni reale possibilità di controllo da parte dei Comuni, titolari delle funzioni che questi servizi sono chiamati ad esercitare.

 

L’aggregazione dei professionisti della sanità territoriale

Secondo il Ministero della salute (21) «l’aggregazione funzionale e possibilmente fisica delle linee di attività delle cure primarie: segretariato sociale e presa in carico del paziente (“disease management”), lavoro in team degli operatori (medici di medicina generale, specialisti ambulatoriali a rapporto convenzionale e professionisti socio-sanitari e amministrativi a rapporto di dipendenza), diagnostica strumentale e di laboratorio anche in urgenza, integrazione tra attività sociali e sanitarie, gestione delle urgenze, organizzazione di forme evolute di assistenza domiciliare integrata, ospedale di comunità, telemedicina» rappresenta la «strada maestra» per garantire la continuità assistenziale da parte dei servizi di base 24 ore su 24.

Tuttavia, se è prerogativa dello Stato la definizione di tale principio generale, la disciplina di dettaglio per la sperimentazione della Casa della salute spetta invece agli enti territoriali (in forza delle competenze ad essi attribuite dal Titolo V della Costituzione). Ed in particolare è affidata alle Regioni «l’aggregazione dei medici di medicina generale (assistenza primaria, continuità assistenziale ed emergenza territoriale), dei pediatri di libera scelta e degli specialisti in Unità di cure primarie, una articolazione territoriale coerente sia per i distretti che per gli ambiti sociali, la programmazione, l’organizzazione unitaria dei servizi, il coordinamento tra i Programmi delle attività territoriali e i Piani di zona per realizzare l’integrazione socio-sanitaria» (22).

È dunque necessario che vengano affrontate – a livello regionale – alcune questioni nodali: «Il primo aspetto implica che le convenienze delle categorie professionali siano declinate nell’interesse generale (…). Occorre inoltre chiarire il posizionamento delle cure primarie nell’assetto organizzativo delle Asl (ad esempio la Casa della salute si rapporta al dipartimento di cure primarie e al distretto come centro di responsabilità o fornitore delle prestazioni?); nonché “i poteri e doveri” di alcuni nuovi profili (es. coordinatore di unità di medicina generale). Il secondo punto richiede consapevolezza dello scenario di partenza: il 60% dei medici di famiglia e il 45% dei pediatri ha un’età superiore a 50 anni, così come a fronte di una programmazione sanitaria non sempre coerente tra ospedale e territorio non è scontata l’attivazione di processi assistenziali trasversali» (23).

Se si vuole migliorare la risposta delle cure primarie, «la questione non è tanto il modello in sé, ovvero il “contenitore dei servizi”, quanto decidere quali contenuti assistenziali integrare, dove e come» (24). Ben sapendo che occorre rimuovere gli ostacoli al­l’integrazione dei professionisti (adeguando responsabilità assistenziali, contratti di lavoro, sedi territoriali, standard di servizio, sostenibilità economica, ecc.) e superare le resistenze – anche forti – che si manifestano all’interno della categoria medica (25).

Vi è infine il problema dei “poteri di gestione socio-sanitaria” che, per parte medica, viene così espresso: «Il decreto legislativo 229/1999 (terza riforma sanitaria) all’articolo 3 septies promuove l’integrazione socio-sanitaria tra le attività delle Asl e dei Comuni e riconosce le denominate “prestazioni sociali a rilevanza sanitaria” a favore di soggetti fragili fornite da personale non sanitario a cura dei Comuni, già responsabili dell’assistenza sociale ai sensi della legge n. 328/2000 (…). L’accordo collettivo nazionale (Acn) 23 marzo 2005 (…) all’articolo 55 attribuisce al medico di famiglia il compito di attivare e concordare gli interventi socio-assistenziali necessari ai suoi pazienti e all’allegato H, articolo 5, delega al medico di famiglia la responsabilità del coordinamento dell’assistenza domiciliare integrata con responsabilità unica e complessiva del paziente. Va però rilevato che all’assegnazione di questa precisa responsabilità non corrisponde affatto l’attribuzione di un potere per assolverla. Il medico non ha l’autorità per ordinare l’intervento in tempi utili dei diversi operatori socio-sanitari nell’assistenza del proprio paziente, salvo la possibilità di limitarsi a richiamare, se esiste, il piano assistenziale individuale concordato a livello di unità di valutazione distrettuale. Non avendo un potere gerarchico, il medico non può essere responsabile di inadempienze altrui, come ben spiega l’articolo 27 della Costituzione e l’articolo 110 del codice penale e così il coordinamento dell’articolo 5 dell’allegato H oggi appare irrealistico» (26).

Posto che «le prestazioni sanitarie comprese nei livelli essenziali di assistenza» – e tra queste la «assistenza programmata a domicilio (Adi e Adp (27) prevista nell’allegato 1.C Area dell’integrazione socio-sanitaria del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 novembre 2001 – «sono garantite dal Servizio sanitario nazionale a titolo gratuito o con la partecipazione alla spesa, nelle forme e secondo le modalità previste dalla legislazione vigente» (articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 502/1992) e che – di conseguenza – spetta alle Aziende sanitarie (e non ai Comuni) attivare le prestazioni (impropriamente definite socio-assistenziali e delle quali si fanno solitamente carico i familiari) «di aiuto infermieristico e assistenza tutelare alla persona», va comunque dato atto che si pone effettivamente un problema di «potere gerarchico» sui servizi della Casa della salute. Un problema (che rimanda non solo agli assetti organizzativi delle Aziende sanitarie, ma anche ai rapporti istituzionali con i Comuni) al quale né l’intervento del Ministro, né il documento del Sindacato pensionati, forniscono risposte.

 

Considerazioni conclusive

Ribadito che non è il contenitore (la Casa della Salute) che determina, di per sé, la qualità del contenuto (i servizi delle cure primarie e della continuità assistenziale) merita osservare, in conclusione, che desta notevole perplessità l’idea che la «continuità assistenziale» (sette giorni su sette, 24 ore al giorno) debba essere offerta – in questa fase di sperimentazione – confidando nel contributo delle «diverse figure professionali coinvolte (medici e infermieri in primis) attraverso forme di coordinamento oggi ancora difficili da realizzare e praticamente assenti». A fronte di tale affermazione occorrerebbe forse una maggior prudenza nel prevedere che – nella Casa della salute – possano essere effettuate «degenze territoriali (ospedale di comunità)», con alcuni posti letto destinati a non meglio definiti «pazienti per stati patologici che difficilmente possono essere curati al domicilio, ma che non richiedono neppure un ricovero ospedaliero». Ed analoga prudenza andrebbe adottata nei confronti della previsione di inserire nella Casa della salute una residenza sanitaria assistenziale «dotata normalmente di un modulo di 20 posti letto» che avrebbe sì «un rapporto stretto con il complesso dei servizi sanitari e sociali collocati all’interno della Casa della salute o sul territorio di riferimento», ma che probabilmente non potrebbe garantire, in un corretto rapporto tra costi e benefici, adeguati standard qualitativi.

Più in generale occorre rimarcare che per realizzare una effettiva ricomposizione delle cure primarie e della continuità terapeutica è necessario ed urgente che il Ministero della salute adotti i provvedimenti necessari alla concreta attuazione del diritto alle cure sanitarie e socio-sanitarie dei giovani, degli adulti e degli anziani colpiti da patologie invalidanti e da non autosufficienza, delle persone affette dal morbo di Alzheimer e dei soggetti con altre forme di demenza senile, assicurando loro, senza alcuna interruzione, la continuità delle indispensabili prestazioni, comprese quelle contro il dolore. A tal fine è indispensabile che si dia piena e sollecita attuazione – attraverso i necessari interventi in sede legislativa – ai validi indirizzi contenuti nel documento della Commissione nazionale per la definizione e l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza “Nuova caratterizzazione dell’assistenza territoriale domiciliare e degli interventi ospedalieri a domicilio” (28).

Sempre con riferimento alle tematiche relative ai servizi che verrebbero collocati nella Casa della salute, andrebbe data attuazione al decreto del Presidente della Repubblica concernente il Progetto obiettivo della salute mentale, garantendo i necessari finanziamenti in modo da assicurare l’effettiva presa in carico delle persone colpite da disturbi psichiatrici con la predisposizione dei piani personalizzati di intervento e l’istituzione dei servizi di prevenzione e cura, dei centri diurni, dei gruppi appartamento, nonché delle comunità alloggio terapeutiche e residenziali.

Inoltre – per quanto attiene ad una reale tutela della salute del cittadino – è necessaria l’approvazione di norme dirette a far sì che questi possa designare una persona che lo rappresenti, ove insorgano infermità che ne determinino l’impossibilità a provvedere a se stesso, fino a quando l’autorità giudiziaria procede alla nomina del tutore o dell’amministratore di sostegno (29).

Sarebbe infine auspicabile l’assegnazione alle Province, alle quali dovrebbero essere sottratte tutte le funzioni gestionali nel campo dell’assistenza sociale, dei compiti di vigilanza in materia socio-sanitaria (ad esempio accreditamento delle case di cura e delle strutture di ricovero), allo scopo di evitare ogni commistione tra le funzioni di gestione (assegnate alle Asl e ai Comuni) e quelle di controllo.

 

 

* Direttore del Cisap, Consorzio dei servizi alla persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino).

(1) Del documento, intitolato “Un ‘New Deal’ della salute”, si è trattato nell’articolo di Mauro Perino, “Considerazioni sulle linee programmatiche enunciate dal Ministro della salute”, Prospettive assistenziali, n. 156, 2006.

(2) I materiali relativi all’incontro nazionale dedicato alla Casa della salute sono reperibili sul sito www.ministerosalute.it.

(3) Le citazioni non diversamente annotate sono tratte dall’intervento del Ministro della salute On. Livia Turco, “La Casa della salute, luogo di ricomposizione delle cure primarie e della continuità assistenziale”, Ibidem.

(4) «La proposta della Casa della salute appare per la prima volta in pubblico nel 2004, in un convegno nazionale promosso dallo Spi Cgil dal titolo “Le cure primarie, la Casa della salute”, i cui contenuti sono raccolti nel n. 6 dei Quaderni del socio-sanitario, edito dalla Cgil. Successivamente lo Spi-Cgil nazionale ha stabilito con l’Università La Sapienza di Roma – facoltà di architettura, dipartimento Itaca – una convenzione per realizzare, in collaborazione, uno studio di fattibilità della Casa della salute. Lo studio è stato presentato pubblicamente nel luglio 2006 in una conferenza stampa cui ha partecipato il Ministro della salute On. Livia Turco». Cfr. Bruno Benigni, “La Casa della salute”, Spi-Cgil, 2007 dal quale sono tratte anche tutte le citazioni, non diversamente annotate, riportate successivamente.

(5) L’articolo 14 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 “Istituzione del Servizio sanitario nazionale”, si limitava infatti a stabilire che «l’ambito territoriale di attività di ciascuna unità sanitaria locale è delimitato in base a gruppi di popolazione di regola compresi tra 50.000 e 200.000 mila abitanti, tenuto conto delle caratteristiche geomorfologiche e socio-economiche della zona. Nel caso di aree a popolazione particolarmente concentrata o sparsa e anche al fine di consentire la coincidenza con un territorio comunale adeguato, sono consentiti limiti più elevati o, in casi particolari, più ristretti».

(6) Cfr. Mariangela Chiolero, Renata Fenoglio, Franco Mondino, Maurizio Motta, “Servizi socio-sanitari di base: il distretto”, Prospettive assistenziali, n. 92, 1990.

(7) Decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 “Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419”.

(8) L’organizzazione sanitaria italiana conosceva da tempo una circoscrizione di base – la condotta – che però non era unica per tutti i servizi ma settoriale, medica, ostetrica, veterinaria, dove la settorialità si ritrovava non solo nelle diverse figure di operatori ma anche nella diversa dimensione delle aree territoriali di riferimento. Il distretto previsto dalla legge di 833/1978 ha invece valenza unitaria ed univoca per l’organizzazione del servizio sanitario e deve essere costituito in tutte le unità sanitarie locali seppure con dimensioni demografiche diverse. Cfr. Angeletti, Atti del convegno su “Ussl: realtà e prospettive con particolare riferimento alle problematiche del distretto di base”, Regione Piemonte, Assessorato sanità e assistenza, 1980.

(9) Decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 “Attuazione della delega di cui all’articolo 1 della legge 22 luglio 1975,n. 382”.

(10) Cfr. Emanuele Ranci Ortigosa, “Integrazione dei servizi sociali e sanitari”,  Ministero dell’interno - Direzione generale dei servizi civili, Roma, 1985 e, dello stesso autore, “Il rapporto tra servizi sociali e sanitari”, in Cristiano Gori, La riforma dei servizi sociali in Italia, Carocci, Roma, 2004.

(11) È da segnalare – a tale proposito – che la Regione Piemonte, con la recente legge 6 agosto 2007, n. 18 “Norme per la programmazione socio-sanitaria e il riassetto del servizio sanitario regionale”, ha stabilito che «i distretti, comprendenti ciascuno una popolazione non inferiore a 70.000 abitanti, costituiscono l’articolazione territoriale delle Asl e l’ambito ottimale per l’integrazione delle attività socio-sanitarie» (articolo 19).

(12) Ed in primo luogo dalla “riforma della riforma sanitaria” – attuata con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421” e  con il decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517 “Modificazioni al decreto legislativo. 30 dicembre 1992, n. 502, recante riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421” – con la quale vengono di fatto affossati i distretti e, con l’aziendalizzazione delle Unità sanitarie locali – viene sottratto ai Comuni ogni significativo potere in ordine all’amministrazione del sistema sanitario locale.

(13) Legge 8 novembre 2000, n. 328 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”.

(14) Editoriale “Le inaccettabili iniziative concernenti gli adulti non autosufficienti colpiti da patologie invalidanti e le disastrose conseguenze dell’integrazione socio-sanitaria: occorre ripartire dalle esigenze e dai diritti”, Prospettive assistenziali, n. 139, 2002.

(15) Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 novembre 2001 “Definizione dei livelli essenziali di assistenza”. Il provvedimento riprende integralmente, citandolo puntualmente tra le fonti normative di riferimento, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001 “Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie” conosciuto come “Decreto Veronesi”.

(16) Il “decreto Sirchia” prevede la partecipazione dell’utente alla spesa per le prestazioni afferenti all’area dell’integrazione sanitaria. Mentre ai cittadini affetti da patologie acute si assicurano le prestazioni (anche quelle molto onerose) a titolo gratuito (fatti salvi eventuali ticket), alle persone malate in carico all’assistenza domiciliare integrata; agli adulti e agli anziani non autosufficienti a causa di patologie croniche; ai disabili gravi e a quelli “privi del sostegno familiare”; ai malati mentali viene richiesto di contribuire alle spese sostenute dal sistema sanitario secondo le percentuali fissate dal decreto stesso.

(17) Cfr. Mauro Perino, “Livelli essenziali di assistenza: riduzione della spesa sanitaria e nuova emarginazione”, Prospettive assistenziali, n. 137, 2002.

(18) Giuseppe D’Angelo, “Livelli essenziali di assistenza sociale e diritti esigibili”, Ibidem, n. 153, 2006.

(19) Cfr. l’articolo “Osservazioni e proposte in merito all’integrazione socio-sanitaria”, Ibidem, n. 153, 2006.

(20) Editoriale. Op. cit.

(21) Roberto Polillo, esperto del Ministero della salute per il progetto Casa della salute, “La strada maestra è quella dell’aggregazione funzionale”, Il Sole 24 ore Sanità, 10-16 luglio 2007.

(22) Ibidem.

(23) Paolo Tedeschi, Sda - Cergas Bocconi, “Risorse, serve un progetto chiaro”, Ibidem, 10-16 luglio 2007.

(24) Ibidem.

(25) Secondo Mauro Martini, Presidente del Sindacato medico Snami, «dobbiamo restare medici di famiglia, nella famiglia. Conoscere nomi e storie dei pazienti. Difendere il rapporto di fiducia che ci lega ai nostri assistiti (…). Rifiutiamo il progetto di riorganizzazione del territorio ventilato dalla parte pubblica. Non condividiamo né le Unità di medicina generale né le Case della salute. Per noi la strada è un’altra (…). Bisognerebbe estendere alle 24 ore il servizio di continuità assistenziale, rispettando le peculiarità di ciascuno. Il medico di famiglia resterebbe colui che ha in carico il paziente nella sua totalità. Il nuovo “medico di assistenza territoriale”, evoluzione della guardia medica, potrebbe invece occuparsi delle mini urgenze e dei codici bianchi. Si conseguirebbe comunque l’obiettivo di aumentare la copertura del territorio e di ridurre l’accesso al pronto soccorso, senza però snaturare il rapporto fiduciario tra medico di famiglia e paziente e senza distruggere la presenza capillare dei nostri studi. (…). Se releghiamo i medici di famiglia in una struttura non sono più liberi professionisti, diventano uguali alla dipendenza (...). Non crediamo alla necessità di “rifondazione” della medicina generale, che è una delle più amate articolazioni del Servizio sanitario nazionale».

(26) Mauro Marin, “Mmg ammortizzatore sociale”, Il Sole 24 ore Sanità, 3-9 luglio 2007.

(27) Adi (Assistenza domiciliare integrata); Adp (Assistenza domiciliare programmata).

(28) La Commissione nazionale Lea – istituita dal Ministero della salute – ha approfondito, attraverso un apposito sottogruppo, l’analisi delle attività assistenziali svolte in regime domiciliare, residenziale, semiresidenziale e di ospedalizzazione domiciliare con il mandato di «caratterizzare i diversi percorsi di cura definiti, per ciascun regime di erogazione, in base alla natura del bisogno e del livello di intensità dell’assistenza, attraverso l’individuazione delle prestazioni o dei “pacchetti prestazionali” appropriati, delle diverse figure professionali coinvolte, della presumibile durata dell’intervento (…). Il prodotto del lavoro dovrà consentire di specificare il contenuto dei relativi livelli di assistenza in termini prestazionali e di fornire elementi utili per la definizione di standard (qualitativi e quantitativi) e per la formulazione di ipotesi sulla remunerazione dell’attività». Oltre al documento citato, la Commissione ha prodotto un secondo importante testo, nel quale vengono definiti i contenuti tecnico-professionali delle “Presta­zioni residenziali e semiresidenziali” relative ad anziani non autosufficienti; persone disabili giovani ed adulte; persone con patologie psichiatriche; persone con patologie terminali. Entrambi i documenti – che meritano di essere specificamente esaminati – sono reperibili sul sito web del Ministero della salute. Quello relativo alle “Prestazioni residenziali e semiresidenziali” è stato integralmente riportato nel n. 159 di Prospettive assistenziali.

(29) Si veda il disegno di legge n. 1050 “Modifiche al codice civile in materia di tutela temporanea della salute dei soggetti impossibilitati a provvedervi personalmente” presentato al Senato il 29 settembre 2006 dai Senatori Cesare Salvi e Antonino Caruso. Cfr. il n. 156, 2006 di Prospettive assistenziali.

 

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