Prospettive assistenziali, 161/2008
LA SCONCERTANTE
APPLICAZIONE DELLA LEGGE 1580/1931 CONCERNENTE LE
CONTRIBUZIONI ECONOMICHE A CARICO DEI PARENTI DEGLI ANZIANI MALATI CRONICI NON
AUTOSUFFICIENTI
Recentemente sono state
pronunciate tre sentenze in cui, essendo stata assunta come riferimento la legge
1580/1931 “Nuove norme per la rivalsa delle spese di spedalità e manicomiali”,
viene stabilito che i Comuni possono pretendere dai parenti degli assistiti
ultrasessantacinquenni, ricoverati presso le Rsa (Residenze sanitarie
assistenziali) e strutture analoghe, contributi economici qualora i ricoverati
non siano in grado di corrispondere l’intera quota alberghiera (1).
nei tre
provvedimenti in esame mai si fa cenno alla legge 328/2000 (2) il cui articolo
25 stabilisce che «al fine dell’accesso ai
servizi disciplinati dalla presente legge, la verifica della condizione
economica del richiedente è effettuata secondo le disposizioni previste dal
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, come modificato dal decreto
legislativo 31 marzo 2000, n. 130» (3).
Non avendo considerato che
la norma di cui sopra abroga le disposizioni della legge 1580/1931, nelle tre
sentenze viene erroneamente stabilito che è tuttora valida la richiesta di
contributi economici ai congiunti degli anziani assistiti.
Capovolto il testo della
legge 1580/1931
La sentenza del Tribunale
di Milano n. 1609 datata 6 marzo 2007, si basa sulle disposizioni contenute
nella prima parte dell’articolo 1 della legge 1580/1931. Al riguardo il giudice
Renata Peregallo ha scritto nella sopra citata sentenza che il testo sarebbe il
seguente: «Allo scopo di ottenere dai
ricoverati che si trovino in condizioni di povertà, e in caso di loro morte
dagli eredi legittimi e testamentari, la rivalsa delle spese di spedalità o
manicomiali, le amministrazioni degli ospedali, dei Comuni o dei manicomi
pubblici, sulla base degli accertamenti eseguiti, comunicano, mediante lettera
raccomandata spedita per posta con ricevuta di ritorno, ai singoli obbligati
l’ammontare delle somme da rimborsare, i motivi per cui viene chiesto il
rimborso e le modalità di pagamento».
In realtà l’articolo 1
della legge 1580/1931 prevede esattamente il contrario di quel che ha indicato
il giudice, in quanto sancisce che la rivalsa delle spese di spedalità o
manicomiali è esperibile esclusivamente nei confronti dei ricoverati che
«NON
si trovino in condizioni di povertà».
Dunque, ammesso e non
concesso che la legge 1580/1931 sia ancora in vigore, mentre il giudice di
Milano sostiene erroneamente che il signor R. D. G. deve versare al Comune di
Garbagnate la parte della retta non corrisposta dal fratello A. D. G., in realtà
al congiunto poteva essere chiesto di provvedere al pagamento della degenza
solamente se veniva accertato che il ricoverato
«NON» si trovava in condizioni di povertà (4).
Pertanto il giudice, se
riteneva ancora applicabile la legge 1580/1931, doveva in primo luogo accertare
quali erano le condizioni economiche del degente.
Tuttavia, poiché la
richiesta di contribuzione riguardava il periodo giugno-dicembre 2001, la legge
1580/1931 non è più applicabile in quanto nel frattempo sono entrati in vigore
sia il sopra riportato articolo 25 della legge 328/2000, sia i decreti
legislativi 109/1998 e 130/2000, in base ai quali (si veda il comma 2 ter
dell’articolo 3 del testo unificato dei suddetti decreti legislativi) per le
contribuzioni relative alle prestazioni socio-assistenziali fornite agli
ultrasessantacinquenni non autosufficienti e ai soggetti con handicap in
situazione di gravità deve essere presa in considerazione esclusivamente la
situazione economica del diretto interessato, senza alcun onere a carico dei
parenti, compresi quelli conviventi (5).
Ignorando le leggi sopra
indicate e citando a sproposito (6) la sentenza della Corte di Cassazione n.
3629/2004, il giudice di Milano scrive che
«la disciplina contenuta nell’articolo 1 della legge 1580/1931 non può essere
ritenuta inoperante a seguito della soppressione dei manicomi e dell’istituzione
del Servizio sanitario nazionale che garantisce l’assistenza ospedaliera senza
l’imposizione di oneri (i c.d. tickets) ulteriori rispetto al prelievo fiscale»,
senza nemmeno tener conto che nella stessa sentenza 3629/2004 la Corte di
Cassazione rinvia l’esame della questione al Tribunale competente
«al fine di verificare la sussistenza del
presupposto della situazione di indigenza cui l’articolo 1, terzo comma, che la
legge n. 1580/1931 subordina l’azione di rivalsa» (7).
Altre due sentenze
ignorano le leggi in vigore
Nonostante si riferiscano a
degenze successive all’entrata in vigore della legge 328/2000 e dei decreti
legislativi 109/1998 e 130/2000, anche le sentenze pronunciate dal Tribunale di
Trento (n. 764/07 del 29 giugno 2007) e da quello di Parma (n. 974/07 del 6
luglio 2007) pongono contributi a carico dei parenti di ricoverati
ultrasessantacinquenni, poiché si fondano erroneamente sulla vigenza della
legge 1580/1931 e sul richiamo alle sentenze della Corte di Cassazione, in
particolare la n. 481/1998 e la già citata n. 3629/2004 (8). È quindi sperabile
che gli interessati ricorrano contro i due provvedimenti pronunciati sulla base
di una legge non più in vigore.
Un autorevole parere
Nell’articolo “Ancora sul
pagamento delle rette di ricovero a carico dei parenti:
errare humanum est, perseverare diabolicum” (Prospettive assistenziali, n. 138, 2002), Massimo Dogliotti,
magistrato della Corte di Cassazione e docente di diritto civile all’Università
di Genova, dopo aver rilevato che la Corte di Cassazione
«ha riportato inopinatamente in vita dopo un lungo letargo» la legge
3 dicembre 1931, n. 1580 “Nuove norme per la rivalsa delle spese di spedalità e
manicomiali” in quanto detta legge «sembrava implicitamente abrogata a seguito della legge 180/1978
(chiusura dei manicomi) e la legge 833/1978 (riforma della sanità)», ha
precisato che essa doveva essere considerata abrogata in quanto
«si ispirava ad una logica ospedaliera e manicomiale, totalmente differente
rispetto alle attuali caratteristiche del sistema sanitario nazionale».
Inoltre ha asserito quanto
segue: «In ogni caso, seppur non si
considerasse non abrogata già
anteriormente, è da ritenere che la legge n.
1580 sarebbe stata abrogata dal decreto legislativo
n. 109/1998, secondo il
principio generale per cui la legge posteriore abroga quella anteriore; infatti
la rivalsa non potrebbe certo riguardare le prestazioni strettamente cliniche e
sanitarie, ma solo quelle cosiddette “alberghiere” di permanenza e soggiorno
nella struttura. Ma queste si inquadrerebbero sostanzialmente in quelle
assistenziali di cui alla legge n. 328/2000 e rientrerebbero nella previsione
del decreto legislativo 109/1998», come modificato dal decreto legislativo
130/2000.
Non applicabilità della
legge 1580/1931 nei confronti delle persone in condizioni di povertà
Come è stato rilevato in precedenza, la legge
1580/1931 prevedeva l’azione di rivalsa esclusivamente nei confronti dei
ricoverati che «NON si trovino in condizioni di povertà».
Nonostante l’estrema
importanza di detta delimitazione dell’azione di rivalsa, è assai preoccupante
che la Corte di Cassazione ne abbia tenuto conto solamente nella sentenza n.
3629/2004 e non in quelle precedenti, ponendo in tal modo oneri economici
ingiustificati (e forse anche rilevanti) ai congiunti dei ricoverati che
«NON» si trovavano in condizioni di povertà.
Circa l’individuazione
delle condizioni economiche del soggetto ricoverato, nella circolare applicativa
emanata dal Ministero dell’interno in data 29 gennaio 1932, prot. 25200-I (9)
viene precisato che «il criterio per
determinare il concetto di povertà agli effetti della ripetibilità o meno delle
spese di spedalità, deve essere quello di povertà relativa nel senso che tale
stato sia sufficiente ad escludere il rimborso delle spese».
Dunque, secondo la legge
1580/1931 dovevano essere considerate povere le persone che non avevano i mezzi
economici sufficienti per il pagamento dell’intera retta, interpretazione che è
del tutto diversa rispetto a quella espressa nelle prime sentenze emanate dalla
Corte di Cassazione.
Questa interpretazione è
suffragata anche dalle indicazioni contenute nella richiamata circolare del 29
gennaio 1932 in cui, tenuta anche presente una relazione dell’Ufficio centrale
del Senato, viene puntualizzato che il criterio da assumere per determinare il
concetto di povertà deve essere «quello
finora seguito dalla costante giurisprudenza nei rapporti del ricovero
manicomiale. Esso inoltre è in perfetta corrispondenza ai criteri informativi
del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2841, in base a cui, com’è noto, povero
deve essere considerato non soltanto chi manchi assolutamente di tutto, e cioè
l’indigente o il necessitoso, ma anche chi non abbia in misura sufficiente
quanto gli occorre per poter sussistere convenientemente, seconda la sua
condizione individuale e sociale, e debba procacciarsi il necessario con
industria e fatica, pur non avendo bisogno di ricorrere all’altrui compassione».
secondo detta
circolare ne consegue che «ammesso
l’accennato concetto della povertà relativa, l’azione per la rivalsa deve, nel
silenzio dell’articolo, ritenersi esperibile tanto se la condizione di povertà
non esisteva al momento del ricovero, quanto se sia venuta a mancare durante la
degenza o anche dopo che questa abbia avuto termine», chiarendo che
«è ovvio che l’azione non è esperibile
quando la condizione di povertà, pur non esistendo al momento del ricovero, sia
successivamente sopravvenuta, e, comunque, sussista, nel tempo in cui
s’intenderebbe di esperimentare l’azione».
In conclusione pare di
poter affermare che la legge 1580/1931 non consentiva l’azione di rivalsa nei
confronti delle persone ricoverate in ospedale o in manicomio qualora esse, pur
essendo state in grado di provvedere autonomamente alle loro esigenze prima del
ricovero, non avevano i mezzi economici sufficienti per la corresponsione
dell’intera retta di degenza. In questi casi, come è già stato ricordato, le
spese di spedalità erano interamente a carico dei Comuni.
Obblighi degli eredi e
dei parenti tenuti agli alimenti
La legge 1580/1931
stabiliva che, per i ricoverati che «NON
si trovino in condizioni di povertà», la rivalsa delle spese di
spedalità o manicomiali doveva essere indirizzata agli eredi legittimi e
testamentari. In sostanza, essi erano tenuti a versare gli importi che il
ricoverato, essendo in possesso di sufficienti risorse economiche, avrebbe
dovuto corrispondere per la sua degenza.
Per quanto riguarda i parenti tenuti agli alimenti, la
legge 1580/1931 precisava che la rivalsa «PUò»
essere esercitata: non poneva quindi alcun obbligo alle amministrazioni
degli ospedali, ai comuni e ai manicomi pubblici.
stabiliva inoltre
che detti parenti dovevano essere «per
legge tenuti agli alimenti durante il periodo di ricovero» oltre che
«in condizione di sostenere, in tutto o in
parte, l’onere delle degenze».
A questo riguardo occorre
ricordare, com’è ormai ampiamente riconosciuto, che, essendo la richiesta degli
alimenti una libera facoltà del soggetto bisognoso, gli enti pubblici o privati
non possono in nessun caso sostituirsi all’interessato (10).
Ne deriva che, nei casi in
cui i soggetti ricoverati «NON» si trovavano in
condizioni di povertà (se poveri la degenza era gratuita) e non avevano
presentato ai propri parenti tenuti agli alimenti la richiesta di cui agli
articoli 433 e seguenti del codice civile, le rivalse non potevano essere
indirizzate ai suddetti parenti, ma solamente agli stessi ricoverati o, per
quelli deceduti, esclusivamente ai loro eredi legittimi e testamentari.
D’altra parte i ricoverati,
sulla base delle considerazioni svolte in precedenza, se avevano i mezzi per
vivere ma non le risorse economiche per pagare la degenza, non avevano alcuna
necessità di chiedere gli alimenti in quanto gli oneri relativi al ricovero
erano a carico dei Comuni.
I soggetti tenuti a
corrispondere gli oneri di degenza
Nella sentenza della Corte
di Cassazione n. 481/1998 (11) viene asserito che la legge 1580/1931
«anche dopo l’entrata in vigore della
legge 833/1978 presenta – pur nel quadro affatto peculiare delle vigenti norme
sul Servizio sanitario nazionale – un indubbio margine di applicabilità proprio
alla ipotesi – alla quale non fa ostacolo la sussistenza di una “degenza”
geriatrica anziché di un ricovero per terapie – di un servizio
socio-assistenziale che reso a domanda, con anticipazione degli oneri da parte
del Comune, e con il diritto dell’ente di agire direttamente nei riguardi del
ricoverato (sulla base della convenzione stipulata e nei limiti statuiti in
attuazione delle norme regionali) e/o, in via di “rivalsa”, nei riguardi di
coloro che sarebbero stati obbligati
alla prestazione alimentare durante il periodo di degenza».
Al riguardo va rilevato che
nella legge 1580/1931 non vi erano cenni di sorta in merito agli oneri di natura
assistenziale o alberghiera, in quanto si faceva esclusivamente riferimento alle
«spese di spedalità o manicomiali»
(articolo 1, comma 1), alle «spese di
spedalità» (articolo 1, comma 2) e alla
«rivalsa della spedalità» (articolo 3,
comma 3): la natura delle prestazioni previste dalla legge 1580/1931 era sempre
e solo sanitaria e mai socio-assistenziale o socio-sanitaria.
Pertanto, nei casi in cui
il ricoverato o i suoi eredi o i congiunti erano tenuti al pagamento delle spese
di spedalità ai sensi della legge 1580/1931, il relativo importo era calcolato
dall’Amministrazione dell’ospedale o dal Comune sull’ammontare complessivo dei
costi sostenuti, senza alcuna ripartizione, allora non prevista, fra quota
sanitaria e quota alberghiera.
Dunque, restano
incomprensibili i motivi in base ai quali la Corte di Cassazione ha stabilito
nella citata sentenza n. 481/1998 che la legge 1580/1931 presenta
«un indubbio margine di applicabilità» in merito alle prestazioni
socio-assistenziali, poiché esse – come è stato evidenziato in precedenza – non
erano contemplate nelle leggi allora in vigore.
La determinazione
dell’importo degli oneri di degenza
Poiché, con l’entrata in
vigore della Costituzione, viene sancito (articolo 23) che
«nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non
in base alle leggi», non si comprende in base a quale disposizione la Corte
di Cassazione abbia riconosciuto ai Comuni, in assenza di una normativa
approvata dal Parlamento, la possibilità di stabilire l’importo della rivalsa
delle spese di spedalità riferito alla quota alberghiera.
Da notare che, com’è ovvio,
i Comuni, le Province, incluse quelle autonome di Bolzano e Trento, e le
Regioni, comprese quelle a statuto speciale, non hanno alcuna competenza nei
confronti dei parenti degli assistiti conviventi o non conviventi.
Dunque, anche in relazione
al sopra citato articolo 23 della Costituzione, le Regioni, le Province ed i
Comuni dal 1° gennaio 1948, e cioè da quando è entrata in vigore la stessa
Costituzione, nulla potevano e possono imporre ai congiunti degli assistiti.
Come già osservato in
precedenza, la normativa in materia attualmente in vigore è costituita
dall’articolo 25 della legge 328/2000 e dai decreti legislativi 109/1998 e
130/2000 in base ai quali nessun onere economico può essere richiesto ai
parenti, compresi quelli conviventi degli assistiti ultrasessantacinquenni non
autosufficienti e dei soggetti con handicap in situazione di gravità.
Gli anziani non
autosufficienti
sono persone malate
contrasta
con la realtà dei fatti l’affermazione della Corte di Cassazione secondo cui la
degenza “geriatrica” (così definita nella citata sentenza n. 481/1998) sarebbe
un «servizio socio-assistenziale» e non un
«ricovero per terapie» (12).
È invece vero che la
degenza degli anziani cronici non autosufficienti è determinata dalla presenza
di malattie invalidanti o di loro esiti, d’altra parte di entità così grave da
causare spesso sofferenze anche rilevanti.
Pertanto, il ricovero
presso le Rsa e le analoghe strutture non solo non è un
«servizio socio-assistenziale» come scrive la Corte di Cassazione,
ma è essenzialmente sanitario in quanto rivolto alla cura medico-infermieristica
delle patologie, agli interventi diretti ad evitare per quanto possibile gli
aggravamenti e alle prestazioni dirette alla eliminazione o riduzione del dolore
(13).
Peraltro non si tratta
nemmeno di un servizio «reso a domanda»
rientrando a pieno titolo fra i diritti esigibili delle persone malate come
stabiliscono l’articolo 54 della legge 289/2002, nonché la normativa precedente
a partire dalla legge 692/1955.
D’altra parte occorre tener
presente che, come risulta dalla sentenza n. 10150/1996, la Corte di Cassazione
«procedendo alla ricognizione sistematica
della disciplina legislativa» ha accertato che
«l’articolo 30 della legge 730/1983 ha disciplinato anche le attività di
tipo socio-assistenziale (…) e l’attività di rilievo sanitario connessa con
quella socio-assistenziale», nonché
«l’individuazione dei ricoveri in struttura protetta, comunque denominata,
rientranti nel concetto di attività socio-assistenziale di rilievo sanitario».
È pertanto sorprendente che
nella sentenza 481/1998 vengano attribuite alla legge 1580/1931 definizioni che
per la prima volta nella nostra normativa vengono introdotte in linea di
principio con la legge 730/1983 (legge finanziaria 1984) mentre le percentuali
della quota sanitaria e di quella alberghiera sono state stabilite solamente
mediante il sopra citato articolo 54 della legge 289/2002 (legge finanziaria
2003) che ha dato valore di legge alle disposizioni del decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri 29 novembre 2001 sui livelli essenziali di assistenza
sanitaria. Da notare che in detto decreto è precisato che
«per le singole tipologie erogative di carattere socio-sanitario (…) la
componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente
distinguibili».
Non si comprende, anche
sotto questo aspetto, come la Corte di Cassazione, nelle sentenze in cui ha
richiamato la legge 1580/1931, abbia potuto considerare valida l’individuazione
quantitativa della quota alberghiera calcolata dai Comuni in assenza di una
legge dello Stato, come previsto dall’articolo 23 della Costituzione, per quanto
concerne attività che «non risultano
operativamente distinguibili» rispetto alle prestazioni sanitarie.
Le procedure previste
dalla legge 1580/1931
Nella già nominata
circolare del 9 gennaio 1932 del Ministero dell’interno viene ricordato che
«per ovvie considerazioni è, però,
opportuno che le Amministrazioni dei Comuni (cui gli ospedali […] sono tenuti a
notificare l’eventuale ricovero) avvertano, a loro volta, appena sia possibile,
i congiunti dei ricoverati, e ciò anche allo scopo di metterli in grado di
provvedere, eventualmente, in altro modo all’assistenza dei loro congiunti»,
aggiungendo la seguente raccomandazione:
«Si richiama su questo punto la particolare attenzione delle LL. EE., con
preghiera di curare che a tale adempimento sia provveduto da parte delle
amministrazioni dei Comuni».
Occorre altresì considerare
che il secondo comma dell’articolo 3 della legge 1580/1931 stabiliva che qualora
la notifica relativa alla rivalsa «non
venga eseguita nel termine di cinque anni dalla effettiva cessazione del
ricovero, le amministrazioni degli ospedali, dei Comuni e dei manicomi pubblici
non potranno più avvalersi della procedura privilegiata stabilita con la
presente legge».
Ciò premesso, è singolare
che nelle sentenze pronunciate in merito alla legge 1580/1931, la Corte di
Cassazione non abbia mai considerato se i sopra citati adempimenti erano stati o
meno rispettati.
La Corte di Cassazione
fornisce due interpretazioni molto diverse
È significativo osservare
che la Corte di Cassazione ha modificato il proprio orientamento in merito
all’applicabilità della legge 1580/1931.
Infatti, mentre nelle
citate sentenze 481/1998 e 3822/2001 aveva sancito che i parenti erano tenuti
senz’altro al pagamento delle somme richieste dai Comuni, essendosi i giudici
accorti che la rivalsa era esperibile esclusivamente nei casi dei ricoverati che
«NON
si trovino in condizioni di povertà», nella sentenza 3629/2004 ha
previsto il rinvio al Tribunale del capoluogo ligure l’esame della richiesta di
pagamento avanzata dall’Asl 3 di Genova nei riguardi del signor B. C.
«al fine di verificare la sussistenza del
presupposto della situazione di indigenza cui l’articolo 1, comma terzo della
legge 1580/1931 subordina l’azione di rivalsa» (14) senza però nulla dire in
merito all’osservanza o meno delle procedure stabilite dalla suddetta legge.
Conclusioni
Sulla base delle
considerazioni svolte in precedenza sembra di poter affermare che le sentenze
della Corte di Cassazione sull’applicabilità della legge 1580/1931,
«inopinatamente» riportata in vita, si sono ispirate ad
argomentazioni più ideologiche che giuridiche, per cui
l’«indubbio margine di applicabilità» contemplato dalla sentenza
481/1998 è stato probabilmente individuato in base al pregiudizio secondo cui se
i parenti non pagano, essi si orientano verso l’abbandono dei loro congiunti,
dimenticando che si tratta di persone colpite da patologie invalidanti e quindi
necessitanti in primo luogo di cure sanitarie che le leggi vigenti stabiliscono
essere gratuite (15).
Detta logica, purtroppo
cavalcata da moltissime Regioni e da numerosi Comuni e fatta propria anche dai
Ministeri della sanità e della solidarietà sociale, è quella che ha determinato
la caduta in povertà di centinaia di migliaia di famiglie (16) ed ha lasciato
(si vedano le liste di attesa per le cure domiciliari, semiresidenziali e
residenziali) centinaia di migliaia di anziani malati cronici non
autosufficienti privi delle necessarie prestazioni previste dalle leggi vigenti
a carico del Servizio sanitario nazionale.
(1) Sono stati preannunciati appelli contro le tre sentenze.
(2) Le richieste riguardano periodi di ricovero successivi all’entrata in vigore
della legge 328/2000 perché disposti dopo il 1° gennaio 2001.
(3) Com’è noto tutte le prestazioni socio-assistenziali, comprese quelle
definite “alberghiere”, sono disciplinate dalla legge 328/2000.
(4) Occorre tener presente che nel 1931 le cure sanitarie erano fornite
gratuitamente ai malati in condizione di povertà.
(5) Si ricorda che il 6° comma dell’articolo 2 del testo unificato dei decreti
legislativi 109/1998 e 130/2000 vieta agli enti pubblici di sostituirsi al
soggetto bisognoso nella richiesta
ai congiunti degli alimenti di cui agli articoli 433 e seguenti del Codice
civile.
(6) A sproposito, in quanto la sentenza n. 3629/2004 si riferisce ad una
richiesta di contributi per una degenza relativa al 1995 e cioè prima
dell’entrata in vigore della legge 328/2000.
(7) Come si vedrà in seguito l’azione di rivalsa non è subordinata alla
condizione di «indigenza» del
ricoverato, ma a quella della sua povertà relativa.
(8) Si ricorda nuovamente che, pur essendo successive all’entrata in vigore
della legge 328/2000 e dei decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, tutte le
sentenze finora emanate dalla Corte di Cassazione si riferiscono a rivalse
richieste per degenze anteriori al 1° gennaio 2001.
(9) Cfr. Giuliano Mazzoni e Riccardo Catelani,
Codice della legislazione assistenziale, Istituto Poligrafico delle
Stato, Roma, 1958.
(10) Il primo comma dell’articolo 438 del Codice civile si esprime nei seguenti
termini: «Gli alimenti possono essere
richiesti
solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di
provvedere al proprio mantenimento».
(11) Si tratta della prima sentenza emanata dalla Corte di Cassazione in merito
all’applicabilità della legge 1580/1931.
(12) Se si trattasse, come in effetti è, di
«ricovero per terapie», verrebbero meno le argomentazioni della
sentenza della Cassazione n. 481/1998 e di quelle successive.
(13) A conferma della valenza eminentemente sanitaria delle prestazioni rivolte
agli anziani non autosufficienti, si ricorda che in Piemonte vi sono Rsa,
residenze sanitarie assistenziali, gestite direttamente da Asl.
(14) Si veda quanto precisato in precedenza circa la
condizione di indigenza.
(15) Resta accettabile la richiesta di contribuzioni al malato, da calcolare
sulla base delle sue personali risorse economiche.
(16) Si ricorda nuovamente che nel documento “Legge quadro per la realizzazione
del sistema integrato di interventi e servizi sociali” predisposto nell’ottobre
2000 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ufficio del Ministro per la
solidarietà sociale viene affermato che
«nel corso del 1999, due milioni di famiglie italiane sono scese sotto la soglia
della povertà a fronte del carico di spese sostenute per la “cura” di un
componente affetto da una malattia cronica».