Prospettive assistenziali, n. 162, aprile-giugno 2008
CONSIDERAZIONI SULLA DISUGUAGLIANZA ECONOMICA E SULLA POVERTÀ IN ITALIA
MAURO PERINO *
Premessa
In Italia la disuguaglianza economica e la povertà sono
molto diffuse ed il protrarsi di questa situazione – in assenza di politiche
atte ad affrontarle – è causa di un forte malessere sociale e di una visione
pessimistica del futuro. Nelle considerazioni generali che introducono il
“Rapporto annuale 2007 sulla situazione del Paese” – presentato dal Censis nel mese di dicembre del 2007 – la realtà sociale italiana viene descritta come una «poltiglia di massa (…) impastata di pulsioni, emozioni, esperienze e,
di conseguenza, particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro,
quindi ripiegata su se stessa. Una realtà sociale che inclina
pericolosamente verso una progressiva esperienza del peggio».
Il rapporto Censis dedica uno
specifico paragrafo all’analisi di quelli che vengono
definiti i «limiti del sociale». Se
un tempo la coesione sociale era assicurata dal
possesso, reale o percepito, di alcuni elementi di status (dal “mestiere” alla
professione, all’identificazione in dati modelli di vita) grazie ai quali si
entrava a far parte di una stessa area sociale (dalla classe connotata
ideologicamente, al ceto sociologicamente inteso) –
ed era una coesione fondata su elementi di solidarietà collettiva – attualmente
«il segno dell’articolazione sociale è
sempre meno visibile, mentre prevale un’immagine più sgranata di una coesione
meccanica, basata sulle appartenenze che si formano intorno alla soddisfazione
di bisogni, reali o percepiti, di tipo individuale».
Ma, secondo il Censis, i limiti
del sociale sono anche e soprattutto antropologici. «Si tratta di un’epoca nuova in cui il disorientamento, lo stress da
perdita di ruolo, nel lavoro come in famiglia, produce un’aggressività di tipo
diverso, una litigiosità, una iperreattività
patologica che diventa microcomportamento, modalità
espressiva quotidiana». Crescono così le violenze in famiglia perché lei –
o, molto più spesso, lui – “non poteva sopportare”, “non era riuscito ad
accettare” una separazione o anche solo uno sgarbo. «Violenze che, contrariamente a quanto si ritiene, non sono sempre
estemporanee, dettate da un impulso immediato e incontrollato. Sono anzi il
frutto di una lenta elaborazione, come testimoniano gli operatori dei servizi
sociali, di una conflittualità interiore che affonda
le radici lontano e che è strettamente connessa al cambiamento nel tempo dei
ruoli familiari e sociali dei membri nel nucleo di appartenenza».
Nonostante ciò, dall’indagine del Censis
emerge che il 69% degli italiani ritiene ancora che, in caso di bisogno, si può
contare sull’aiuto degli altri, mentre sull’idea che la cooperazione tra
persone sia un portato della natura umana sono
d’accordo oltre il 75% degli italiani. «Trova
così conferma l’esistenza di una intensa relazionalità orizzontale nel nostro Paese, mentre è molto
meno intensa la partecipazione dei cittadini ai problemi della comunità, visto
che è il 17,9% dei cittadini che dichiara di organizzarsi, spesso o molto
spesso, con gli altri per risolvere un problema comune. Negli ultimi anni si
sono invece moltiplicati i movimenti di cittadini centrati sull’autotutela della propria sicurezza».
In questo contesto si è
consolidata una percezione del nesso tra insicurezza e immigrati che è fatta
propria dal 50% dei cittadini, mentre la media europea dei 25 Paesi è pari al
42%. Solo il 35% degli italiani ritiene che gli altri gruppi etnici
arricchiscano la vita culturale del nostro Paese (54% è il dato medio europeo).
A diffondere la sfiducia nel diverso contribuisce la percezione di
vulnerabilità socioeconomica: «il 21% dei
cittadini italiani dichiara di sentirsi fuori della società, messo ai margini,
dato che risulta molto più elevato della media
europea, mentre il 36% ritiene di essere direttamente a rischio di cadere in
povertà nel corso della sua vita ed il 55% che chiunque è a rischio nella
propria vita di cadere in povertà».
Anche secondo il “Rapporto Italia
La situazione economica della famiglie
Del resto – come rileva il Censis
– gli italiani, negli ultimi anni, hanno visto i redditi reali familiari
crescere in misura ridotta (+ 0,5% tasso annuo di crescita nel periodo
2000-2004) e non si aspettano consistenti aumenti per il futuro visto che, per
il reddito disponibile, le variazioni percentuali attese
per il prossimo biennio sono di poco superiori all’1%.
Inoltre – secondo l’indagine Eurispes
– «la situazione economica delle famiglie
italiane appare decisamente peggiorata: infatti il
32,1% degli italiani registra lievi segnali di peggioramento economico del
proprio nucleo familiare (rispetto al 25,7% del 2007) e il 13,7% percepisce un
peggioramento economico di più marcata entità (rispetto all’11% del 2007). In
diminuzione il numero di quanti definiscono invariata
la situazione economica della propria famiglia (41,4% rispetto al 56% del
2007). Stringono la cinghia, allungando la lista delle rinunce, soprattutto al
Sud a nelle Isole: rispettivamente il 37,4% ed il
36,2% dei nuclei familiari hanno subito un lieve peggioramento delle proprie
condizioni familiari. Tuttavia, rispetto alle altre aree geografiche, risultano più numerosi nelle Isole (12,1%) gli intervistati
che hanno percepito piccoli miglioramenti. Il netto peggioramento è stato
avvertito in modo particolare dalle famiglie residenti nel Nord-Est che nel
24,8% dei casi reputano la propria condizione
economica nettamente aggravata».
In buona sostanza – come si evince dal rapporto Eurispes – solo poco più di un terzo delle famiglie
italiane (38,2%) riesce ad arrivare alla fine del mese, ed il dato assume toni
ancora più allarmanti se paragonato a quello del 2006
e del 2007 quando «la percentuale degli
italiani che affermava di riuscire ad arrivare alla quarta settimana era pari
rispettivamente al 56,4% e 51,6%. È raddoppiata anche la percentuale delle
famiglie che ricorre a prestiti personali (10% nel 2008 contro il 5% del 2007)
o che deve utilizzare quel che ormai rimane dei risparmi
familiari (26,1% contro l’11%). In pochissimi, d’altronde, riescono a
risparmiare ancora qualcosa alla fine del mese: 13,6% contro il 25,8% del 2007
e il 27,9% del 2005».
Ma anche negli anni presi a confronto le cose non sono
andate certamente per il meglio. Come evidenzia
Rossella Bocciarelli – in un articolo di commento
alla “Indagine sui redditi e le condizioni di vita in Italia relativa agli anni
2005-
Per le famiglie con redditi da lavoro autonomo
il valore mediano del reddito è più elevato: si tratta di 28.242 euro
l’anno (2.354 euro al mese); il 50% delle famiglie che vivono di lavoro
dipendente ha ottenuto meno di 28.492 euro (2.375 euro mensili). Se invece
l’entrata prevalente è una pensione, il reddito netto mediano è stato pari a
16.008 (1.334 euro al mese). Considerando le diverse
tipologie familiari si rileva che anziani soli, famiglie numerose e,
soprattutto, famiglie con un solo genitore si confermano come le categorie più
deboli: la metà dei nuclei monogenitori con figli
minori a carico ha infatti percepito redditi non
superiori a 1.586 euro mensili. I risultati dell’indagine in esame confermano
inoltre l’esistenza di un profondo divario territoriale: il reddito mediano
delle famiglie che vivono al Sud e nelle Isole è pari al 70% di quello delle
famiglie residenti al Nord. Le province di Trento e Bolzano presentano
i redditi più elevati (più di 27.000 euro, al netto dei fitti imputati), mentre il reddito mediano familiare più basso si
osserva in Sicilia (16.658 euro). Il reddito è insomma distribuito in modo
diseguale nel territorio italiano: il 38% delle famiglie residenti nel Sud
appartiene al quinto dei redditi più bassi (questa percentuale è pari al 10,9%
nel Nord). Dall’altra parte della scala sociale, il 49,7% delle famiglie del
Nord è benestante, con redditi alti e medio alti che
fanno capo agli ultimi due quinti di reddito. Ai super ricchi appartengono in
misura più marcata le famiglie dell’Emilia Romagna (29,9%), quelle della
Provincia autonoma di Bolzano (27,7%) e della Lombardia (27,1%).
Ma l’indagine analizza a fondo anche l’area del disagio
economico: a fine 2006 il 14,6% delle famiglie italiane ha dichiarato di
arrivare con molta difficoltà alla fine del mese. Inoltre il 28,4% degli
intervistati ha detto di non essere in grado di far fronte ad una spesa
improvvisa di 600 euro. Nei dodici mesi precedenti l’intervista, in almeno
un’occasione, il 9,3% delle famiglie si è trovato in arretrato con il pagamento
delle bollette e il 10,4% ha detto di non potersi permettere di riscaldare in
modo adeguato l’abitazione.
A fronte di livelli di disagio che rimangono
sostanzialmente gli stessi dell’anno precedente, sono solamente tre le
eccezioni positive rimarcate dall’lstat:
nel 2006 è diminuita (dal 5,8% al 4,2%) la quota di chi ha detto di non aver
abbastanza soldi per comprare il cibo necessario e le quote di chi si è trovato
in difficoltà per le spese mediche (dal 12% al 10,4%) e per l’acquisto dei
vestiti necessari (dal 17,8% al 16,8%). Un disagio molto marcato si riscontra
nelle Regioni del Sud e nelle Isole dove un quarto delle famiglie ha detto di
arrivare alla fine del mese con difficoltà; inoltre il 50,9% delle famiglie
calabresi e il 41,2% di quelle della Campania non riesce a sostenere spese
impreviste. Anche nel caso delle situazioni di disagio
e povertà vera e propria sono le famiglie monoreddito a passarsela peggio: il
18,5% di questi nuclei dichiara di non riuscire ad arrivare alla fine del mese.
Chi ha meno problemi sono le coppie senza figli: solo nel 10% dei casi
dichiarano difficoltà nella “quarta settimana”, mentre il 21% delle famiglie
con tre o più figli afferma di trovarsi in arretrato
con le bollette.
A confermare il quadro delineato dall’Istat
giunge, nel mese di gennaio del 2008, l’indagine campionaria della Banca
d’Italia, che viene realizzata ogni due anni e che è
l’analisi più attendibile per misurare reddito e ricchezza degli italiani
perché – come osserva nuovamente Rossella Bocciarelli
(2) – «l’ufficio studi di Via Nazionale
ha sviluppato una metodologia ad hoc per filtrare le risposte poco veritiere (è
noto che se le si interroga sull’effettiva consistenza del proprio portafogli,
le persone tendono come minimo alla reticenza)».
Secondo l’indagine, nel 2006 la famiglia italiana ha
potuto contare su un reddito medio di 31.792 euro (circa 2.649 euro mensili) e,
rispetto al 2004, questo ammontare è superiore del
2,6% in termini reali, mentre il reddito procapite è
cresciuto del 3,5%. Per le famiglie guidate da un lavoratore dipendente, poi,
l’incremento medio del reddito reale in quello stesso arco di
tempo è stato del 4,3%. Purtroppo però – come spiega il testo diffuso da
Bankitalia con riferimento ai lavoratori dipendenti –
«il miglior andamento delle famiglie con
capofamiglia dipendente fra il 2004 e il 2006 compensa soltanto in parte la
riduzione osservata fra il 2000 e il 2004: per il periodo 2000-2006
il reddito di queste famiglie in termini reali è infatti rimasto
sostanzialmente stabile (+ 0,96 per cento) rispetto a una crescita del 13,86
per cento delle famiglie con capofamiglia autonomo» (3). In pratica il
recupero dei redditi da lavoro dipendente avvenuto nell’ultimo periodo non
riesce a compensare il peggioramento precedente che, nell’articolo citato, viene imputato alla bassa crescita e alla bassa produttività
del sistema. Soprattutto, non riesce a ridurre la forbice con la dinamica dei redditi da lavoro
autonomo. Negli ultimi due anni esaminati da Bankitalia,
inoltre, il reddito familiare medio è cresciuto più al Sud e nelle Isole (6,6%)
che nel Nord (2,4%) e nel Centro (1,9%).
Secondo i dati della Banca d’Italia non cala e non
cresce, invece, la povertà: l’indagine spiega infatti
che la quota di individui che vivono in famiglie a basso reddito (livello di
povertà) è risultata nel 2006 pari al 13,2%, la stessa percentuale registrata
nel 2000. Anche in questo caso però, guardando più da
vicino, la realtà è meno statica di quel che appare: tra il 2000 e il 2004 i
lavoratori dipendenti “poveri” sono aumentati dal 5,9% al 7% per poi tornare
nel 2006 al 6,3%; per gli autonomi, invece, l’incidenza della povertà si è
ridotta tra il 2000 e il 2004 (dall’8,1% al 7,2%) per poi risalire al 7,5% nel
2006.
Per concludere è utile riportare
alcune ulteriori informazioni fornite dall’indagine. La ricchezza familiare
netta ha un valore mediano (quello che interessa il 50% dei nuclei) pari a
146.718 euro e questo valore, costituito dalla somma di immobili
e depositi, titoli di stato, ecc. è aumentato dell’11,6% in termini reali nel
biennio 2004-2006. Naturalmente, come ricorda lo studio, la concentrazione
della ricchezza è molto più grande di quella del reddito: circa 2,3 milioni di
nuclei detengono il possesso di quasi la metà (il 45%) dell’intera ricchezza
netta familiare italiana. In altre parole «i
dati di Bankitalia ci dicono
che il 10% dei ricchi posseggono il 45% di tutte le ricchezze nazionali, mentre
il “rimanente” 90% si spartisce il 55% e nella ricchezza è compresa anche la
casa di proprietà» (4).
Insieme alla ricchezza, negli ultimi anni, è cresciuto
anche l’indebitamento delle famiglie che adesso è pari al 33% del reddito
disponibile. Quanto alla diffusione degli strumenti finanziari, l’89% delle
famiglie possiede un deposito bancario o postale, l’8,5% titoli di Stato, il
12,1% obbligazioni o quote di fondi comuni, il 6,2% detiene azioni
mentre il 5,9% ha buoni postali fruttiferi. Infine il 68,7% delle
famiglie possiede una casa e, a casa con i genitori,
resta ancora il 73% dei 20-30enni (anche se il trend è in calo).
A commento del paragrafo dedicato alla situazione
economica e sociale delle famiglie, è utile riportare alcune condivisibili
osservazioni formulate da Carla Collicelli: «I disagi delle famiglie su cui si sofferma
più comunemente l’attenzione dell’opinione pubblica e dei mass-madia, spesso
sotto la denominazione di nuove povertà, sono proprio
le forme di povertà relativa dei ceti medi da reddito insufficiente e da
precarietà lavorativa e contributiva (…). Si tratta, appunto, di povertà
relative, cioè segnate dalla scarto con le condizioni
di vita medie degli altri soggetti del proprio ceto sociale, che non comportano
né una vera e propria povertà economica, né il degrado psicologico e sociale,
né l’esclusione e l’emarginazione che caratterizzano altre forme più gravi di
povertà. Esse segnalano una grave mancanza di equità
nel sistema istituzionale di offerta sociale e nell’assetto del “welfare state” e riguardano principalmente due categorie: le
famiglie monoreddito da lavoro impiegatizio od operaio, senza patrimonio e
senza altre entrate di tipo autonomo o sommerso; i lavoratori precari, in
particolare donne, giovani e immigrati, con carriere professionali interrotte,
brevi, o fortemente penalizzate dall’assenza di tutele sociali adeguate» (5).
Il tema del disagio e della povertà si presta, secondo l’autrice, a facili strumentalizzazioni.
In particolare si pensa che l’aumento della povertà e l’insorgere di “nuove povertà” siano fenomeni recenti. In realtà è dagli anni ’80 «che inizia in Italia una lunga deriva di addensamento sociale e strutturale, di stallo della
mobilità, di impoverimento relazionale, di crisi della rappresentanza. Questa è
la prima vera “nuova povertà” dell’Italia moderna, povertà
di valori e di risorse immateriali. La seconda “nuova povertà” è data dalla
fragilità sociale e dalla paura dell’impoverimento e del declino (…). Ulteriori aree di nuova povertà, anch’esse gravi per la
dignità della persona, ma decisamente ascrivibili all’area del disagio
materiale, e localizzate in segmenti della società, in specifici individui,
aree e famiglie, sono la povertà dell’esclusione sociale degli outsider e
quella della malattia e della solitudine» (6).
La situazione economica degli occupati
In Italia il tasso di disoccupazione risulta
assestato attorno al 6% (dall’8,2% del primo trimestre 2005 al 5,7% del secondo
trimestre 2007) ed è il risultato di una diminuzione dell’offerta di lavoro (+
260.000 inattivi in un anno). L’incremento delle persone che non lavorano, né
cercano attivamente lavoro – concentrato nelle regioni meridionali – riflette,
secondo Agostino Megale e Riccardo Sanna, «un diffuso
sentimento di scoraggiamento che comporta una rinuncia alla ricerca attiva di
lavoro, anche se il numero delle persone in cerca di occupazione
è risultato pari a 1.412.000 unità, in calo rispetto allo stesso periodo del
2006 (-12,9%, pari a -209.000 unità) (Istat, 2007)» (7).
Nel nostro Paese, date le dimensioni dell’economia
sommersa, i confini tra disoccupazione e inattività sono molto labili. «Proprio per questo il tasso di occupazione (rapporto fra occupati e popolazione in età
lavorativa) non aumenta, dopo molti anni in cui ci eravamo avvicinati agli
obiettivi di Lisbona: ci fermiamo a ridosso del 58% (per centrare quegli
obiettivi, il tasso di occupazione dovrebbe salire al 70% entro il 2010), 11°
posto, primi gli islandesi a 85,3» (8). La situazione appare
particolarmente problematica per le nuove generazioni. Il tasso di
disoccupazione dei giovani fino a 24 anni è del 21,6% (donne 25,3%) e dei
giovani da
A fronte di un tale scenario non sorprende che, nel
nostro Paese, si ponga con forza la questione delle
condizioni materiali di vita degli occupati. Un problema che – se si presenta
con maggiore acutezza per le nuove generazioni –
caratterizza in realtà tutto il mondo del lavoro. Negli anni duemila – secondo gli Autori – «le dinamiche
relative alla crescita delle retribuzioni, della produttività e della stessa
distribuzione del reddito (inteso come ricchezza prodotta) in Italia
evidenziano la prepotente presenza di una questione salariale. Un problema che,
nonostante l’impianto dell’Accordo del luglio ’93 – il cui obiettivo esplicito
era quello di garantire la difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni
all’interno del processo di disinflazione
e risanamento dell’economia italiana – si manifesta prevalentemente secondo
alcune direzioni: da un lato, si è registrato un rallentamento negli incrementi
delle retribuzioni reali (sia contrattuali che “di fatto”), soprattutto se
confrontate con quelle dei maggiori paesi
europei; dall’altro, data la forte crescita dell’inflazione negli ultimi 15
anni, si è evidenziata la difficoltà a garantire l’effettiva copertura del
potere d’acquisto delle retribuzioni e, contemporaneamente, la mancata redistribuzione dei guadagni di produttività realizzati»
(10).
Nell’articolo citato vengono
riportati alcuni dati tratti dalla ricerca realizzata dall’Ires nel 2006 sulle
condizioni materiali di lavoro (basata su 6.000 interviste) dai quali si
evidenzia che oltre 14 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro al
mese. Circa 7,3 milioni ne guadagnano meno di 1.000. Nell’industria italiana,
sempre secondo i dati della ricerca, il 66,2% dei lavoratori e ben il 90% delle
lavoratrici guadagna meno di 1.300 euro netti al mese.
Inoltre – come osservano gli Autori – «orientando
l’analisi al lungo periodo, i salari reali dei lavoratori italiani hanno
sostanzialmente mantenuto il potere d’acquisto dal
Dai dati di Bankitalia risulta inoltre che dal 2000 al 2006 «il reddito netto delle famiglie il cui capofamiglia è lavoratore
dipendente è cresciuto solo dello 0,3% mentre per i lavoratori autonomi sono
stati anni di vacche grassissime: i loro redditi sono aumentati del 13,1%» (12).
La suddetta tendenza si sarebbe però invertita negli ultimi due anni. Ma ciò è
solo parzialmente vero, in quanto «nelle
famiglie italiane è cresciuto il numero dei percettori di reddito da lavoro, ma
il salario percepito (spesso frutto di abuso di
part-time) è stato appena sufficiente a bilanciare l’immobilità dei salari. Quanto
ai redditi da lavoro autonomo, Bankitalia fa una ammissione molto onesta: attenti – ci dice – il lavoro
autonomo ha varie forme. E così scopriamo che bottegai
e artigiani seguitano a spassarsela, mentre altri autonomi vedono il loro
reddito diminuire. Il trucco è che non si tratta di veri autonomi, ma di
lavoratori atipici il cui numero sta crescendo in
maniera esponenziale, direttamente proporzionale al basso livello retributivo» (13).
La conferma del diffondersi del lavoro atipico viene dal
rapporto Censis, secondo il quale a trainare la
crescita occupazionale del sistema Paese è stato soprattutto il lavoro
flessibile «la cui dinamicità ha
controbilanciato le tendenze di un mercato del lavoro che continua ancora a
presentare il più basso livello di partecipazione al lavoro nell’ambito dei
Paesi Ue, considerato che nel 2006 solo il 68,3%
della popolazione di età compresa tra i 25 e 64 anni
era attiva, contro una media europea del 76,4%». Nell’ultimo biennio è infatti aumentata esponenzialmente la quota di ingressi al
lavoro di carattere temporaneo, passati da 720 mila a più di 870 mila (+
20,1%). Dei quasi 1 milione e 900 mila lavoratori che hanno trovato
un’occupazione nel 2006, il 38% ha un contratto a
termine (nel 2004 erano il 32,3%), l’8,7% un contratto di lavoro a progetto o
occasionale (nel 2004 erano il 7,3%) e solamente il 36,1% un contratto a tempo
indeterminato (nel 2004 questa formula di accesso era prevalente con il 40%
degli ingressi).
Negli anni esaminati il numero degli accessi al lavoro è
cresciuto significativamente (+ 1,5%), in particolare di quelli giovanili (+
6,7% nella fascia d’età 25 e 34 anni) e dei 35-44enni (+ 7,3%). Si spiega così come proprio tra i giovani infra
35enni si rilevi la più elevata incidenza di contratti atipici. Ma
quella che – secondo il rapporto Censis – appare come
una pesante eccezione del caso italiano è che «i giovani costituiscano, anche grazie al
carattere prevalentemente temporaneo dell’occupazione, una quota estremamente
significativa dei flussi in uscita dal mercato. Nel 2006 su 902 mila lavoratori
che si sono ritrovati senza occupazione, perché l’hanno persa, o perché si sono
ritirati dal lavoro, più di 346 mila erano persone con meno di 34 anni (il
38,45%) e il 22,2% persone dai 35 ai 44 anni».
Infine, nel biennio, è leggermente aumentato il numero di
lavoratori a termine tra i 20 e 34 anni che sono riusciti ad accedere,
nel giro di un anno, al lavoro a tempo indeterminato (il tasso di
trasformazione è passato dal 13,3% del 2004 al 17,7% del 2006, per quanto
riguarda i lavoratori temporanei). «Tuttavia,
la maggior parte dei lavoratori flessibili resta immobile nella propria
condizione; quando non rischia di perdere il posto di lavoro: evento che, nel
Come osservano ancora Agostino Megale
e Riccardo Sanna «per
i quasi 4 milioni di persone che operano con contratti a termine, di
collaborazione, in somministrazione, d’associazione in partecipazione, di
cessione di diritti d’autore, ecc. le due questioni principali che ci vengono segnalate sono: da un lato, la tutela e i diritti,
dunque la sicurezza del lavoro futuro; dall’altro, le condizioni materiali a
partire dalla necessità di mettere mano alla “questione salariale”, che oltre a
caratterizzare tutto il mondo del lavoro, si presenta con maggior acutezza per
le nuove generazioni» (14).
Dunque, come afferma il Censis, la
flessibilità fa crescere il lavoro, ma dopo? Secondo l’Eurispes
«la povertà relativa in Italia è rimasta
invariata, ma si è registrato un mutamento nella sua composizione sociale:
essere poveri significa sempre più essere giovani, con un lavoro dipendente e
un titolo di studio alto, caratteristiche che pongono tali individui nella
categoria dei “working poor” e rappresentano una
fetta della popolazione che lavora per un salario che li colloca al di sotto del livello di povertà».
Dall’indagine si rileva inoltre che le famiglie povere con a capo un lavoratore dipendente hanno subito, al Nord,
un incremento passando dal 3,5% nel 2004 al 4,2% nel 2005; molto più
significativa la percentuale delle famiglie con a capo un lavoratore autonomo
al Sud che si è attestata dal 19,9% del 2004 al 18% nel 2005. Tra queste
ultime, circa 8 su 100 si trovano al di sotto della
soglia di povertà mentre, tra le famiglie di lavoratori dipendenti, la quota
sale a 9 e subisce un incremento maggiore [12] tra quelle con capofamiglia
ritirato dal lavoro.
Al Sud neppure avere un lavoro mette al riparo dalla
povertà. «Solo tra le famiglie di imprenditori e liberi professionisti l’incidenza della
povertà scende sotto la media nazionale (9%) mentre figurano in povertà
relativa il 13,3% delle famiglie di dirigenti e impiegati, percentuale che sale
al 27,5% per gli operai e assimilati (il 13,8% a livello nazionale). A ciò si
aggiunga che è povero circa il 50% dei nuclei familiari senza occupati o senza
persone che abbiano lavorato per un periodo più o meno
lungo e dunque prive di un reddito da pensione».
Con le basse retribuzioni aumenta l’incertezza per il
futuro. «Nel nostro Paese oltre 20
milioni di lavoratori sono sottopagati e, coeteris paribus, i salari sono inferiori del 10% rispetto alla Germania, del 20% rispetto al Regno Unito e del 25%
rispetto alla Francia. Sulla base della ricerca effettuata dall’Eurispes nel marzo del 2007 sulle retribuzioni dei
lavoratori, emerge con estrema chiarezza la preoccupante situazione dei salari
italiani, tra i più bassi in Europa. Prendendo in considerazione il periodo
2000-2005, infatti, mentre si è registrata una crescita media del salario a
livello europeo del 18%, nel nostro Paese i lavoratori dell’industria e dei
servizi (con l’esclusione della pubblica amministrazione) hanno visto la
propria busta paga crescere solo del 13,7%, crescita inferiore solo a Germania
(11,7) e Svezia (7,7), paesi che
detengono comunque livelli retributivi ben più alti
dei nostri».
Nel 2004 e nel 2005 le retribuzioni nette dei lavoratori
italiani sono state superiori solo a quelle greche ed
appena inferiori a quelle spagnole, mentre «nel
2006 il trend negativo dell’Italia si è ulteriormente accentuato occupando la
penultima posizione tra i paesi europei – per quanto riguarda redditi e
retribuzioni – superiore solo al Portogallo» (15). La ragione di questa
perdita di posizioni è rintracciabile indubbiamente nella crescita dei salari
in Europa del 15% in tre anni. In Italia il salario netto annuo è passato da
15.597 euro del
È in questo contesto che
emergono «i nuovi invisibili. Sono
chiamati “working poors”, lavoratori poveri: persone
che pur avendo una occupazione professionale hanno un
tenore di vita molto vicino a quello di un disoccupato, perché il salario
risulta inadeguato per vivere una vita dignitosa». La figura emergente del
povero lavoratore “in giacca e cravatta” (questa è la definizione dell’Eurispes) tocca quasi tutte le figure professionali: dal
pubblico impiego alla piccola e media impresa, dall’edilizia all’artigianato,
dal dipendente al lavoratore atipico, dai pensionati ai giovani in cerca di occupazione.
Come riportato nel rapporto dell’Istituto di ricerca, «sulla base di una
indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane, nel 2004 i
lavoratori a bassa retribuzione sono stati circa il 15% del totale dei
lavoratori dipendenti, il 10% se si considerano solo quelli occupati a tempo
pieno. Secondo il Ministero della solidarietà sociale (2005), la probabilità di
percepire un basso salario è più elevata per le donne, i giovani e le persone
meno istruite; i giovani mostrano una probabilità circa
tre volte superiore (30%) a quella degli adulti (10%) di percepire un basso
salario, probabilità che decresce all’aumentare dell’istruzione: i laureati
hanno infatti una probabilità tre volte inferiore (7%) rispetto a chi ha solo
l’obbligo scolastico (21%)».
Le famiglie in condizione di povertà relativa
La povertà è un fenomeno complesso in quanto è l’esito di
processi molto differenziati nei quali si intrecciano,
in diversi modi, varie forme di esclusione. Il volto della povertà è – dunque –
«sempre meno definibile con indicatori
esclusivamente economici, di reddito, ma si caratterizza come un prolungato
processo di indebolimento delle risorse personali e
familiari, attraverso eventi shock di varia natura: economica, professionale,
sanitaria, di mancata integrazione sociale, che cumulativamente determinano
l’ingresso in una situazione di “emarginazione” di cui la povertà economica è
solo una delle componenti. In altre parole, la società contemporanea produce
una povertà di tipo multidimensionale, in cui le
dimensioni economiche, relazionali, sociali in senso lato sono strettamente
correlate» (16).
Come osservano Nicola Negri e
Chiara Saraceno «un reddito insufficiente
può essere l’esito di un percorso di esclusione da alcuni beni – l’istruzione
per esempio – il cui possesso è un requisito indispensabile per accedere ad
altri beni: ad esempio, le informazioni e le conoscenze necessarie per svolgere
un lavoro decente» (17). La
povertà genera, in questo caso, carenze culturali che,
a loro volta, producono cronica debolezza sul mercato del lavoro perpetuando
nel tempo il meccanismo di esclusione.
Ma la carenza di reddito fa
anche sì che una persona non possa, per motivi oggettivi o soggettivi, accedere
a servizi ai quali avrebbe diritto – ad esempio un servizio sanitario – con il
conseguente insorgere di problemi di salute che si ripercuotono sulla capacità
di lavoro e di guadagno (18). Si può inoltre perdere il lavoro, e quindi il
reddito, a causa dell’alcolismo; così come si può precipitare nell’alcolismo (o
in altre forme di dipendenza) perché si è persa la speranza di trovare un
lavoro.
Nella nostra società per non essere poveri non basta
nutrirsi ed essere in buona salute; è necessario lavorare, essere istruiti ed
abitare in una casa decente. L’esclusione da questi beni basilari rende la
persona fragile avviandola in un percorso di progressivo impoverimento
economico e relazionale lungo il quale vengono sempre
più intaccate le capacità di inserimento sociale e di sopravvivenza fisica e
mentale.
La povertà ha un carattere processuale e multidimensionale e gli indicatori normalmente utilizzati
per rilevarla (mancanza di reddito, bassa istruzione, dipendenza da sostanze,
“carriere” di marginalità, ecc.) non vanno considerati separatamente, secondo logiche di causa-effetto, ma occorre studiare le
interconnessioni nel tempo tra i fattori relativi alla situazione personale,
alle risorse a disposizione, alla capacità del soggetto di conoscerle ed
utilizzarle, alla percezione di sé ed all’autostima, all’etichettamento
sociale.
Secondo i dati dell’Istat, nel
2005 risultavano in condizione di povertà relativa
2.585.000 nuclei ovvero l’11,1% delle famiglie residenti in Italia per un
totale di ben 7 milioni 577 mila individui (il 13,1% dell’intera popolazione). La
stima dell’incidenza della povertà relativa (19) viene
calcolata dall’Istat sulla base di una soglia
convenzionale (linea di povertà) (20) che individua il valore di spesa per
consumi al di sotto della quale una famiglia viene definita povera in termini
relativi. La spesa media mensile per persona (21) rappresenta la soglia di
povertà per una famiglia di due componenti e
corrisponde, nel
La soglia di povertà relativa è calcolata sulla base
della spesa familiare rilevata dall’indagine sui consumi che l’Istat conduce annualmente su un campione di circa 28mila
famiglie estratte casualmente in modo da rappresentare il totale delle famiglie
residenti in Italia. Per la valutazione delle stime l’Istituto
tiene conto dell’errore che si commette osservando solo una parte della
popolazione (errore campionario) costruendo un intervallo di confidenza intorno
alla stima puntuale ottenuta dal campione. Su tali basi l’Istat
ha stimato che nel 2005 la percentuale di famiglie povere è risultata
pari all’11,1% e che il valore che si otterrebbe osservando l’intera
popolazione è compreso, con una probabilità del 95%, tra 10,6% e 11,6%.
La povertà appare stabile rispetto al 2004 e nel rapporto
vengono confermati sia il divario tra Nord e Sud del
Paese, sia le principali caratteristiche delle famiglie in condizioni di
povertà: famiglie con cinque o più componenti, famiglie con figli minori,
famiglie con componenti in cerca di occupazione o con bassi profili
professionali, famiglie con anziani.
Anche a livello territoriale non si rilevano variazioni
statisticamente significative fra il 2004 e il 2005,
mentre la povertà si riduce fra le famiglie con anziani, in particolare quelli
soli o in coppia, tra le famiglie con persona di riferimento ultrasessantacinquenne, tra quelle con a capo un ritirato
dal lavoro o una persona con basso titolo di studio. Peggiora invece la
condizione delle famiglie più ampie, in particolare quelle con membri aggregati
residenti nel Mezzogiorno, delle famiglie numerose residenti
nel Centro e – a conferma di quanto già osservato – di quelle settentrionali
con persona di riferimento giovane o lavoratore dipendente. L’intensità della
povertà (24), nell’anno esaminato, è pari al 21,3%: tale valore indica di
quanto, in percentuale, la spesa media mensile equivalente delle famiglie
povere, pari a circa 737 euro (719 nel 2004), è al di sotto
della linea di povertà.
La povertà relativa si manifesta con una differenziazione
territoriale molto accentuata: nel Nord e nel Centro sono povere
rispettivamente il 4,5% e il 6% delle famiglie, mentre nel Sud – dove abita ben
il 70% delle famiglie povere residenti in Italia – la percentuale raggiunge il
24%. Nel Mezzogiorno, inoltre, ad una più ampia diffusione del fenomeno si
associa una maggiore gravità del disagio: l’intensità della povertà raggiunge infatti il 22,7%, rispetto al 17,5% del Nord e al 18,9% del
Centro. Con riferimento al dettaglio regionale, si rileva una povertà meno
diffusa in Emilia Romagna, dove l’incidenza è pari al 2,5%, valore non
significativamente diverso da quello registrato in Lombardia, in Veneto e nella
provincia di Bolzano (tutte inferiori al 4,5%). Più elevate,
anche se inferiori alla media nazionale, le incidenze osservate in tutte le
altre Regioni del Centro-Nord: dal 4,6% della Toscana al 7,3%
dell’Umbria. Fra le Regioni del Sud – dove la povertà è più
elevata che nel resto del Paese – fa eccezione l’Abruzzo, con una percentuale
di famiglie povere dell’11,8%, molto prossima a quella media nazionale. Più
contenuta rispetto alla media del Mezzogiorno (24%) è anche l’incidenza
rilevata in Sardegna (15,9%) e in Puglia (19,4%). Grave è invece la situazione
in Campania, con un incidenza del 27%, e in Sicilia,
dove la percentuale di famiglie povere risulta del 30,8%.
I fattori associati alla condizione di povertà che
concorrono a determinare i forti divari territoriali sopra evidenziati
sono l’elevato numero dei componenti del nucleo, la presenza di figli –
soprattutto minori – o di anziani in famiglia, il basso livello di istruzione e
una ridotta partecipazione al mercato del lavoro. In generale, le famiglie con
cinque o più componenti presentano i livelli di
povertà più elevati: in Italia il 26,2% di queste famiglie vive in povertà,
percentuale che sale al 39,2% nel Mezzogiorno. Si tratta per lo più di coppie
con tre o più figli e di famiglie con membri aggregati, tipologie che mostrano
un’incidenza sul piano nazionale rispettivamente pari al 24,5% e al 19,9%.
Le difficoltà economiche associate alla presenza di figli
nel nucleo familiare si fanno ancora più evidenti quando
i figli sono minori. L’incidenza della povertà – che è pari al 13,6% se in
famiglia ci sono due figli e al 24,5% se i figli sono tre o più – sale
rispettivamente al 17,2% e al 27,8% quando i figli sono di età
inferiore ai 18 anni. Ciò accade in particolare nel Meridione, dove risiede la
maggior parte di tali famiglie ed è in condizioni di povertà il 42,7% delle
famiglie con tre o più figli minori.
Si riscontrano livelli di povertà superiori alla media,
in particolare nel Nord, anche tra i genitori soli (13,4%). In quest’area del Paese le famiglie monogenitoriali
povere sono il 5,8% contro una media di nuclei in condizione di povertà del 4,5%. Mostra inoltre un disagio diffuso anche la
popolazione anziana: tra le famiglie con almeno un anziano l’incidenza
di povertà (13,6%) è superiore di oltre due punti percentuali alla media
nazionale e sale al 15,2% tra quelle con almeno due ultrasessantaquattrenni.
Tale disagio si osserva in tutto il territorio nazionale, ma la differenza
rispetto alle altre famiglie è particolarmente evidente nelle regioni del Centro e del Nord, che si
caratterizzano anche per la maggior presenza di anziani
tra la popolazione residente: da un’incidenza media del 4,5% nel Nord e del 6%
nel Centro si sale rispettivamente al 6,3% e all’8% se nella famiglia è
presente almeno un anziano (per lo più si tratta di anziani soli e di coppie
senza figli con a capo un anziano, in misura minore, di genitori soli con
figli).
La povertà è invece più contenuta tra i single e tra le
coppie senza figli di giovani e adulti: l’incidenza a livello nazionale è infatti pari al 3,5% per i single e al 4,8% per le coppie. A
livello territoriale non si rilevano inoltre differenze importanti
nell’incidenza della povertà tra le famiglie con a capo un uomo e quelle con a capo
una donna, ma va rimarcato che sono donne la quasi totalità degli anziani soli
(circa l’81%) e dei monogenitori soli (circa l’83%).
Nella descrizione dei profili familiari di povertà
assumono particolare rilevanza le caratteristiche della persona di riferimento:
oltre all’età, al sesso e al livello di istruzione,
risultano importanti la partecipazione al mercato del lavoro, la condizione e
la posizione professionale, fattori tutti strettamente associati tra loro. Nelle
famiglie con a capo una persona con basso titolo di
studio si evidenzia un’incidenza della povertà del 17,6%, quattro volte
superiore a quella che si osserva tra i nuclei con a capo una persona che ha
conseguito almeno la licenza media superiore (4,5%). Infine – come già rilevato
– tra le famiglie con a capo un lavoratore autonomo
circa 8 su 100 sono in condizione di povertà; la quota sale a 9 tra i nuclei in
cui la persona di riferimento è un lavoratore dipendente e a 12 tra quelli con
capofamiglia ritirato dal lavoro.
In generale l’esclusione dal mercato del lavoro della
persona di riferimento determina situazioni di accentuato
svantaggio: è povero quasi un terzo delle famiglie (31,4%) con a capo una
persona in cerca di occupazione e di queste oltre l’83% risiede nel Sud (ove
l’incidenza raggiunge il 43%). Più di un quarto delle famiglie (26,1%) con
almeno una persona in cerca di occupazione vive in
povertà relativa e si sfiora il 40% se a cercare lavoro sono due o più persone.
Inoltre la scarsa capacità reddituale del
capofamiglia si associa a peggiori condizioni economiche del nucleo: tra le
famiglie con persone in cerca di occupazione, quelle
con a capo un ritirato dal lavoro vivono il disagio più marcato (l’incidenza è
del 26,8%) mentre è più limitato quello delle famiglie di lavoratori autonomi
(19,3%).
A fronte della sostanziale stabilità della diffusione della povertà tra il 2004 ed il 2005, il rapporto dell’Istat evidenzia le variazioni statisticamente più significative
relativamente ad alcuni segmenti di famiglie. In particolare l’istituto rileva
segnali di miglioramento nella fascia più anziana della popolazione ove
l’incidenza della povertà risulta diminuita: tra le
famiglie con almeno un componente anziano (dal 15% al 13,6%) e, in misura
maggiore, fra quelle con due o più anziani (dal 17,3% al 15,2%); fra gli
anziani soli (dal 13,7% al all’11,7%) e, soprattutto, fra le coppie con persona
di riferimento ultrasessantacinquenne (dal 15,1% al
12,9%). Il miglioramento riscontrato esaminando la condizione degli anziani –
che risulta particolarmente accentuato nel Centro –
coinvolge le famiglie con a capo una persona di 65 anni e oltre (dal 15,1% al
13,8%), con al massimo la licenza elementare (dal 19,3% al 17,6%) o ritirata
dal lavoro (dal 13,1% all’11,6%). Anche la quota di
single poveri – che in quattro casi su cinque sono anziani – scende dal 9,4% al
7,9%. Di contro, si riscontrano segnali
di peggioramento tra le famiglie con disoccupati in cui la persona di
riferimento è un lavoratore dipendente: in questo caso la percentuale di
famiglie povere cresce di quattro punti percentuali (dal 18,8% al 22,3%) e, nella
maggioranza dei casi, si tratta di nuclei con un elevato numero di componenti, in cui convivono più generazioni o residenti nel
Sud del Paese (dove l’incidenza di povertà per questa tipologia familiare passa
del 36,4% al 42,9%).
Nelle regioni
meridionali migliora la condizione delle famiglie con un solo componente (da 21% a 17,7%) ed in particolare la l’incidenza
della povertà si riduce di quasi 5 punti percentuali (dal 28,2% al 23,5%) per
gli anziani soli. In calo anche l’incidenza di povertà tra le
famiglie con un figlio minorenne (dal 22,9% al 19,6%).
Nelle regioni
centrali, oltre al già accennato miglioramento della condizione degli anziani
– le famiglie con almeno una persona ultrasessantacinquenne
in condizioni di povertà sono l’8% del totale contro l’11,2% del 2004 – si
registra un andamento positivo anche per le famiglie
di due componenti, per le quali l’incidenza di povertà passa dall’8,3% al 6% e,
soprattutto, per le famiglie con persona di riferimento tra i 55 e i 64 anni di
età (dal 4,9% al 2,8%). Sempre nel Centro l’incidenza di povertà tra le
famiglie con cinque o più componenti si attesta al
15,5% (+ 5 punti percentuali), un valore quasi tre volte superiore a quello
osservato tra le famiglie di ampiezza minore.
Infine le regioni
settentrionali, dove la povertà diminuisce tra le famiglie con
a capo una persona ritirata dal lavoro (da 6,2% a 5,2%) mentre aumenta,
seppure in modo contenuto, tra le famiglie con a capo un giovane con meno di 35
anni (dal 2,6% al 4,8%) e – come già evidenziato nell’indagine dell’Eurispes – tra quelle con a capo un lavoratore
dipendente (da 3,5% a 4,2%).Tra le cause di indigenza
relativa non c’è dunque solo la disoccupazione – che risulta ovviamente
centrale – ma anche il lavoro a basso reddito. Come rileva Marco Iasevoli, commentando i dati dell’Istat,
«il 14 per cento degli operai, ad
esempio, è sotto la soglia, a fronte del 5 per cento degli impiegati e al 4 per
cento delle partite Iva. Fa ancora una volta eccezione
la mezza Italia dal Garigliano in giù, che presenta tassi preoccupanti (13 per
cento) anche per i dirigenti e personale d’ufficio. Incide sempre più il “working poor”, il lavoro a basso
reddito» (25).
Le famiglie a rischio di povertà e quelle appena povere
Negli ultimi anni, secondo l’Eurispes,
«si sono estese le aree sociali di implosivo ed esplosivo disagio che hanno fatto emergere
zone di “originale” vulnerabilità, accompagnate da disagi e fratture dei
percorsi di vita collettivi e personali, contraddistinti da tassi di incertezza e insicurezza senza precedenti». Ed in
tale contesto che si collocano non solo i 2.585.000
nuclei che versano in condizione di conclamata povertà relativa, ma anche le
famiglie considerate a rischio di povertà e quelle appena povere in base ai
dati raccolti ed analizzati dall’Istat (26).
Secondo l’istituto, infatti, «la classificazione delle famiglie in povere e non povere, definita
attraverso la soglia convenzionale, può essere maggiormente articolata
utilizzando due soglie aggiuntive, che corrispondono all’80%
e al 120% di quello standard. Tali soglie permettono di
individuare quattro gruppi di famiglie: quelle “sicuramente non povere”, che
presentano i livelli di spesa per consumi più elevati (superiori al valore
della linea standard di almeno il 20%); le famiglie “quasi povere”, con una spesa
mensile che si colloca tra la linea standard e quella al 120%; quelle “appena
povere” con spesa inferiore alla linea di non oltre il 20%; le famiglie
“sicuramente povere”, con una spesa inferiore all’80% della linea di povertà
standard».
Nel 2005 1 milione 179 famiglie (il 5,1% del totale) risultano sicuramente povere in quanto hanno livelli di
spesa mensile equivalente inferiori alla linea standard di oltre il 20%. Di esse i tre quarti risiedono nel Mezzogiorno. Risultano invece appena povere, avendo valori di spesa di
non molto inferiori alla linea di povertà standard, il 6% delle famiglie
residenti in Italia, ossia poco più della metà delle famiglie povere; il
rapporto si inverte nelle regioni
del Nord e le famiglie appena povere sono quasi il doppio di quelle sicuramente
povere (2,9% contro l’1,6%).
Non sono invece povere, ma corrono il rischio di
diventarlo, il 7,9% delle famiglie che presentano livelli di spesa per consumi
superiori alla linea standard di non oltre il 20%. Questa percentuale raggiunge
il 13,3% nel Sud. «Ciò si traduce nel
fatto che, tra le famiglie non povere, una su dieci è a rischio di cadere in
condizione di povertà e lo è una su cinque se si considerano solo le famiglie
non povere residenti nel Mezzogiorno». Le famiglie “sicuramente non
povere”, infine, sono l’81% del totale, ma variano tra
il 90,4% del Nord, l’88,2% del Centro e il 62,7% del mezzogiorno. Da ciò deriva che più della metà delle famiglie
sicuramente non povere (53,8%) risiede al Nord.
Si assiste cioè ad un processo «di polarizzazione nei redditi e di
segmentazione territoriale» (27) che è da considerare attentamente
nell’analisi di una struttura della diseguaglianza
sociale caratterizzata, inoltre, dalla diffusione di «nuovi rischi sociali» che delineano un’area sociale in condizione
di forte vulnerabilità. «Accanto alle
disparità tradizionali fondate sostanzialmente sulla collocazione
dei soggetti nel mercato del lavoro, sono emerse nuove disuguaglianze basate,
da un lato, sull’accesso differenziato a risorse fondamentali per il benessere
individuale e familiare (un reddito sufficiente, un’abitazione adeguata, ecc.)
e dall’altro, sulla maggiore o minore stabilità della posizione mantenuta
dentro i diversi sistemi di distribuzione delle risorse e di integrazione
sociale (il mercato del lavoro, le reti della famiglia allargata, il sistema di
welfare). Si profilano così nuove forme di diseguaglianza sociale, fondate sull’indebolimento
progressivo dei sistemi di integrazione sociale e
sulla conseguente esposizione di una parte significativa della popolazione a
rischi e ad elementi di insicurezza» (28).
Come si è detto, la disuguaglianza
sociale assume oggi un carattere multidimensionale:
«non
è definita da un fattore determinante (la posizione
lavorativa) sul quale si cumulano altri fattori di svantaggio di importanza
decrescente, ma dall’intreccio tra fattori diversificati di rischio, che sono
difficilmente ordinabili in via gerarchica» (29). «La povertà della malattia e della solitudine si
verifica anche in assenza di disoccupazione o di integrazione sociale,
quando una patologia grave, magari cronica, porta lo sconquasso nella vita
dell’individuo e dei suoi cari e soprattutto quando si aggiungono la solitudine
e la mancanza di cure adeguate (…).Tutte le povertà (…) si aggravano o si
manifestano nelle situazioni in cui mancano o vengono a mancare fattori di
protezione sociale a monte, come la patrimonializzazione, la casa di proprietà, o una famiglia
allargata di sostegno. Molte delle situazioni di maggiore disagio si verificano quando si sommano due o più fattori di
impoverimento, e si verifica una sindrome da “mix di cause”: ad esempio la
malattia assieme alla precarietà, il reddito insufficiente assieme ad una
famiglia numerosa, ecc.» (30).
Occorre però ricordare che la povertà dell’esclusione
sociale è – come giustamente osserva Carla Collicelli
– l’unica forma di disagio cui si addice il nome di povertà nel senso
tradizionale del termine e che «uno degli
aspetti più drammatici della società moderna dei nostri giorni è proprio la
produzione di “materiale umano di scarto”, di disoccupati cronici, di
disadattati, di rifugiati alla ricerca di una patria, di barboni, di immigrati economici irregolari, in una parola di “vittime
collaterali del progresso”, di esclusi dalla integrazione lavorativa e sociale»
(31).
Considerazioni conclusive
La situazione descritta in questa
pagine conferma appieno l’opinione – recentemente espressa da Livio Pepino – secondo il quale «la novità (dirompente) degli ultimi anni è stata la rimozione anche
teorica della categoria dell’uguaglianza». Eppure questa «parola guida (con libertà e fraternità)
della rivoluzione borghese, è stata la chiave di volta delle costituzioni
successive alla seconda guerra mondiale, fino a fondare, come
è stato detto, un nuovo concetto di cittadinanza, consistente in uno
“status di cui fanno parte un reddito decoroso e il diritto a
condurre una vita civile, anche quando si è ammalati, o vecchi, o disoccupati,
o comunque in difficoltà”» (32).
Oggi la sola enunciazione dell’articolo
3 della nostra Costituzione – «Tutti
i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale
che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono
il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese» – appare infatti non solo
impegnativa, ma si connota di una forte carica polemica con la situazione di
fatto, perché «il vincolo posto alle
istituzioni dello Stato di rimuovere gli ostacoli all’uguaglianza è una
denuncia esplicita delle disparità e delle ingiustizie in atto» (33).
* Direttore del Cisap, Consorzio dei servizi alla persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino).
(1) Rossella Bocciarelli, “In affanno una famiglia su sette ”, Il Sole-24 ore,
18 gennaio 2008. Cfr. inoltre
Leonardo Rossi, “Italiani sempre più poveri”, Italia Oggi, 18 gennaio 2008.
(2) Rossella Bocciarelli, “Redditi: dipendenti fermi, crescono gli
autonomi”, Il Sole-24 ore, 29 gennaio 2008.
(3) Ibidem.
(4) Galapagos, “Un
Paese di classe”, Il Manifesto, 29
gennaio 2008.
(5) Carla Collicelli, “Lavoro e proprietà come fattori di
segmentazione sociale delle famiglie italiane”, La rivista delle politiche sociali, n. 4, 2007.
(6) Ibidem.
(7) Agostino Megale, Riccardo Sanna,
“Questione salariale: lavoratori dipendenti e diseguaglianze
generazionali”, Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Ibidem.
(10) Ibidem.
(11) Ibidem.
(12) Galapagos, Op.
cit.
(13) ibidem.
(14) Agostino Megale, Riccardo Sanna, Op .cit. Secondo le rilevazioni degli
Autori «a) un apprendista, in età
compresa tra i 16 e i 24 anni, guadagna mediamente 736,85 euro netti mensili;
b) un collaboratore occasionale, in età compresa tra i 16 e i 34 anni, guadagna
mediamente 768,80 euro netti mensili; c) un co.co.pro.
o co.co.co. in età compresa tra i 16 e i 34 anni,
guadagna mediamente 899,04 euro netti mensili».
(15) Maurizio Galvani, “Rapporto Eurispes.
Italia e italiani poveri”, Il Manifesto,
26 gennaio 2008.
(16) Assessorato alle
politiche sociali del Comune di Modena, “Analisi e riflessioni sui processi di
disagio, povertà ed esclusione sociale
presenti a Modena”,
Quaderno dell’Osservatorio sul
disagio e le risorse
sociali. Citato in
Prospettive assistenziali, n. 134, 2001.
(17) Nicola Negri e
Chiara Saraceno, Le politiche contro la
povertà in Italia, Il Mulino, Bologna, 1996.
(18) Secondo il rapporto Censis «le condizioni socio-economiche sembrano
confermarsi uno dei fattori più rilevanti nella determinazione della condizione
di salute, e in effetti le regioni
che si collocano nelle prime classi della graduatoria che misura la positività
della situazione socio-economica occupano tendenzialmente posizioni elevate
anche in quella dell’indicatore di salute».
(19) L’incidenza
della povertà si ottiene dal rapporto tra il numero di famiglie con spesa media
mensile per consumi pari o al di sotto della soglia di povertà e il totale
delle famiglie residenti.
(20) La soglia di
povertà relativa per una famiglia di due componenti è pari alla spesa media procapite nel Paese.
(21) La spesa media
per persona (procapite) si ottiene dividendo la spesa
totale per consumi delle famiglie per il numero totale dei componenti.
(22) La spesa media
familiare è calcolata al netto delle spese per manutenzione straordinaria delle
abitazioni, dei premi pagati per assicurazioni vita e rendite vitalizie, rate
di mutui e restituzione prestiti.
(23) La scala di
equivalenza è l’insieme dei coefficienti di correzione utilizzati per
determinare la soglia di povertà quando le famiglie hanno un numero di
componenti diverso da due. Ad esempio, la soglia di povertà per una famiglia di
quattro persone è pari a 1,63 volte quella per due componenti
(1.526,63 euro), la soglia per una famiglia di sei persone è di 2,16 volte
(2.032,01 euro).
(24) L’intensità
della povertà misura di quanto in percentuale la spesa media delle famiglie
definite povere è al di sotto della soglia di povertà.
(25) Marco Iasevoli, “In Italia la povertà non cala, oltre sette
milioni in difficoltà”, L’Avvenire, 5
ottobre 2007.
(26) Secondo il
Rapporto Italia 2008 dell’Eurispes «si può arrivare alla conclusione che il
totale delle persone a rischio di povertà e di quelle già comprese tra gli
indigenti è allarmante: si possono stimare circa 5.100.000 nuclei familiari,
all’incirca il 23% delle famiglie italiane e più di 15 milioni di individui, di
questi quasi tre milioni sono minori di 18 anni».
(27) Maurizio Franzini, “Disuguaglianze economiche e non solo: l’Italia
del malessere sociale”, La rivista delle
politiche sociali, n. 4, 2007.
(28) Costanzo Ranci,
“Tra vecchie e nuove disuguaglianze: la vulnerabilità nella società
dell’incertezza”, La rivista delle
politiche sociali, n. 4, 2007.
(29) Ibidem.
(30) Carla Collicelli, Op. cit.
(31) Ibidem.
(32) Livio Pepino, “La rimozione del principio di uguaglianza”, Narcomafie, n. 1,
2008.
(33) Ibidem.