Prospettive assistenziali, n. 162, aprile-giugno 2008

 

CONSIDERAZIONI SULLA DISUGUAGLIANZA ECONOMICA E SULLA POVERTÀ IN ITALIA

MAURO PERINO *

 

 

 

Premessa

In Italia la disuguaglianza economica e la povertà sono molto diffuse ed il protrarsi di questa situazione – in assenza di politiche atte ad affrontarle – è causa di un forte malessere sociale e di una visione pessimistica del futuro. Nelle considerazioni generali che introducono il “Rapporto annuale 2007 sulla situazione del Paese” – presentato dal Censis nel mese di dicembre del 2007 – la realtà sociale italiana viene descritta come una «poltiglia di massa (…) impastata di pulsioni, emozioni, esperienze e, di conseguenza, particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa. Una realtà sociale che inclina pericolosamente verso una progressiva esperienza del peggio».

Il rapporto Censis dedica uno specifico paragrafo all’analisi di quelli che vengono definiti i «limiti del sociale». Se un tempo la coesione sociale era assicurata dal possesso, reale o percepito, di alcuni elementi di status (dal “mestiere” alla professione, all’identificazione in dati modelli di vita) grazie ai quali si entrava a far parte di una stessa area sociale (dalla classe connotata ideologicamente, al ceto sociologicamente inteso) – ed era una coesione fondata su elementi di solidarietà collettiva – attualmente «il segno dell’articolazione sociale è sempre meno visibile, mentre prevale un’immagine più sgranata di una coesione meccanica, basata sulle appartenenze che si formano intorno alla soddisfazione di bisogni, reali o percepiti, di tipo individuale».

Ma, secondo il Censis, i limiti del sociale sono anche e soprattutto antropologici. «Si tratta di un’epoca nuova in cui il disorientamento, lo stress da perdita di ruolo, nel lavoro come in famiglia, produce un’aggressività di tipo diverso, una litigiosità, una iperreattività patologica che diventa microcomportamento, modalità espressiva quotidiana». Crescono così le violenze in famiglia perché lei – o, molto più spesso, lui – “non poteva sopportare”, “non era riuscito ad accettare” una separazione o anche solo uno sgarbo. «Violenze che, contrariamente a quanto si ritiene, non sono sempre estemporanee, dettate da un impulso immediato e incontrollato. Sono anzi il frutto di una lenta elaborazione, come testimoniano gli operatori dei servizi sociali, di una conflittualità interiore che affonda le radici lontano e che è strettamente connessa al cambiamento nel tempo dei ruoli familiari e sociali dei membri nel nucleo di appartenenza».

Nonostante ciò, dall’indagine del Censis emerge che il 69% degli italiani ritiene ancora che, in caso di bisogno, si può contare sull’aiuto degli altri, mentre sull’idea che la cooperazione tra persone sia un portato della natura umana sono d’accordo oltre il 75% degli italiani. «Trova così conferma l’esistenza di una intensa relazionalità orizzontale nel nostro Paese, mentre è molto meno intensa la partecipazione dei cittadini ai problemi della comunità, visto che è il 17,9% dei cittadini che dichiara di organizzarsi, spesso o molto spesso, con gli altri per risolvere un problema comune. Negli ultimi anni si sono invece moltiplicati i movimenti di cittadini centrati sull’autotutela della propria sicurezza».

In questo contesto si è consolidata una percezione del nesso tra insicurezza e immigrati che è fatta propria dal 50% dei cittadini, mentre la media europea dei 25 Paesi è pari al 42%. Solo il 35% degli italiani ritiene che gli altri gruppi etnici arricchiscano la vita culturale del nostro Paese (54% è il dato medio europeo). A diffondere la sfiducia nel diverso contribuisce la percezione di vulnerabilità socioeconomica: «il 21% dei cittadini italiani dichiara di sentirsi fuori della società, messo ai margini, dato che risulta molto più elevato della media europea, mentre il 36% ritiene di essere direttamente a rischio di cadere in povertà nel corso della sua vita ed il 55% che chiunque è a rischio nella propria vita di cadere in povertà».

Anche secondo il “Rapporto Italia 2008” – diffuso dall’Eurispes a fine gennaio 2008 – il sentimento dominante nel Paese è il pessimismo nei confronti del futuro. Questo sentimento è infatti il più alto registrato dai sondaggi dell’Istituto nel corso degli ultimi sei anni, dal 2003 al 2008. «Il 78,5% degli italiani nutre pessimismo e sfiducia nella situazione economica che si prospetta nei prossimi dodici mesi. Se per il 30,8% il quadro economico italiano resterà così com’è, per il 47% esso è destinato addirittura a peggiorare». Soltanto il 10,9% dei cittadini continua a guardare con speranza al futuro, nella convinzione che nei prossimi dodici mesi la situazione economica italiana potrà conoscere una fase di ripresa.

 

La situazione economica della famiglie

Del resto – come rileva il Censis – gli italiani, negli ultimi anni, hanno visto i redditi reali familiari crescere in misura ridotta (+ 0,5% tasso annuo di crescita nel periodo 2000-2004) e non si aspettano consistenti aumenti per il futuro visto che, per il reddito disponibile, le variazioni percentuali attese per il prossimo biennio sono di poco superiori all’1%.

Inoltre – secondo l’indagine Eurispes«la situazione economica delle famiglie italiane appare decisamente peggiorata: infatti il 32,1% degli italiani registra lievi segnali di peggioramento economico del proprio nucleo familiare (rispetto al 25,7% del 2007) e il 13,7% percepisce un peggioramento economico di più marcata entità (rispetto all’11% del 2007). In diminuzione il numero di quanti definiscono invariata la situazione economica della propria famiglia (41,4% rispetto al 56% del 2007). Stringono la cinghia, allungando la lista delle rinunce, soprattutto al Sud a nelle Isole: rispettivamente il 37,4% ed il 36,2% dei nuclei familiari hanno subito un lieve peggioramento delle proprie condizioni familiari. Tuttavia, rispetto alle altre aree geografiche, risultano più numerosi nelle Isole (12,1%) gli intervistati che hanno percepito piccoli miglioramenti. Il netto peggioramento è stato avvertito in modo particolare dalle famiglie residenti nel Nord-Est che nel 24,8% dei casi reputano la propria condizione economica nettamente aggravata».

In buona sostanza – come si evince dal rapporto Eurispes – solo poco più di un terzo delle famiglie italiane (38,2%) riesce ad arrivare alla fine del mese, ed il dato assume toni ancora più allarmanti se paragonato a quello del 2006 e del 2007 quando «la percentuale degli italiani che affermava di riuscire ad arrivare alla quarta settimana era pari rispettivamente al 56,4% e 51,6%. È raddoppiata anche la percentuale delle famiglie che ricorre a prestiti personali (10% nel 2008 contro il 5% del 2007) o che deve utilizzare quel che ormai rimane dei risparmi familiari (26,1% contro l’11%). In pochissimi, d’altronde, riescono a risparmiare ancora qualcosa alla fine del mese: 13,6% contro il 25,8% del 2007 e il 27,9% del 2005».

Ma anche negli anni presi a confronto le cose non sono andate certamente per il meglio. Come evidenzia Rossella Bocciarelli – in un articolo di commento alla “Indagine sui redditi e le condizioni di vita in Italia relativa agli anni 2005-2006” condotta dal­l’Istat su un campione di 21.499 famiglie italiane (1) – la metà dei nuclei ha guadagnato, nel 2005, meno di 22.460 euro all’anno. Per ovviare agli effetti del tipo “media del pollo”, nel descrivere i redditi netti familiari, l’Istat non mette in primo piano il reddito medio che, in quell’anno – senza includere il reddito figurativo delle case occupate dai loro proprietari – è stato pari al 27.376 euro, ovvero 2.311 euro al mese. La distribuzione del reddito è infatti diseguale e la maggioranza dei redditi familiari si trova al di sotto di tale cifra. Per questo l’Istat parla di “valore mediano del reddito”, quello che spacca in due il mondo delle famiglie italiane: il 50% vive con meno di 1.872 euro al mese e il 50% degli italiani ha guadagnato più di quella cifra.

Per le famiglie con redditi da lavoro autonomo il valore mediano del reddito è più elevato: si tratta di 28.242 euro l’anno (2.354 euro al mese); il 50% delle famiglie che vivono di lavoro dipendente ha ottenuto meno di 28.492 euro (2.375 euro mensili). Se invece l’entrata prevalente è una pensione, il reddito netto mediano è stato pari a 16.008 (1.334 euro al mese). Considerando le diverse tipologie familiari si rileva che anziani soli, famiglie numerose e, soprattutto, famiglie con un solo genitore si confermano come le categorie più deboli: la metà dei nuclei monogenitori con figli minori a carico ha infatti percepito redditi non superiori a 1.586 euro mensili. I risultati dell’indagine in esame confermano inoltre l’esistenza di un profondo divario territoriale: il reddito mediano delle famiglie che vivono al Sud e nelle Isole è pari al 70% di quello delle famiglie residenti al Nord. Le province di Trento e Bolzano presentano i redditi più elevati (più di 27.000 euro, al netto dei fitti imputati), mentre il reddito mediano familiare più basso si osserva in Sicilia (16.658 euro). Il reddito è insomma distribuito in modo diseguale nel territorio italiano: il 38% delle famiglie residenti nel Sud appartiene al quinto dei redditi più bassi (questa percentuale è pari al 10,9% nel Nord). Dall’altra parte della scala sociale, il 49,7% delle famiglie del Nord è benestante, con redditi alti e medio alti che fanno capo agli ultimi due quinti di reddito. Ai super ricchi appartengono in misura più marcata le famiglie dell’Emilia Romagna (29,9%), quelle della Provincia autonoma di Bolzano (27,7%) e della Lombardia (27,1%).

Ma l’indagine analizza a fondo anche l’area del disagio economico: a fine 2006 il 14,6% delle famiglie italiane ha dichiarato di arrivare con molta difficoltà alla fine del mese. Inoltre il 28,4% degli intervistati ha detto di non essere in grado di far fronte ad una spesa improvvisa di 600 euro. Nei dodici mesi precedenti l’intervista, in almeno un’occasione, il 9,3% delle famiglie si è trovato in arretrato con il pagamento delle bollette e il 10,4% ha detto di non potersi permettere di riscaldare in modo adeguato l’abitazione.

A fronte di livelli di disagio che rimangono sostanzialmente gli stessi dell’anno precedente, sono solamente tre le eccezioni positive rimarcate dall’lstat: nel 2006 è diminuita (dal 5,8% al 4,2%) la quota di chi ha detto di non aver abbastanza soldi per comprare il cibo necessario e le quote di chi si è trovato in difficoltà per le spese mediche (dal 12% al 10,4%) e per l’acquisto dei vestiti necessari (dal 17,8% al 16,8%). Un disagio molto marcato si riscontra nelle Regioni del Sud e nelle Isole dove un quarto delle famiglie ha detto di arrivare alla fine del mese con difficoltà; inoltre il 50,9% delle famiglie calabresi e il 41,2% di quelle della Campania non riesce a sostenere spese impreviste. Anche nel caso delle situazioni di disagio e povertà vera e propria sono le famiglie monoreddito a passarsela peggio: il 18,5% di questi nuclei dichiara di non riuscire ad arrivare alla fine del mese. Chi ha meno problemi sono le coppie senza figli: solo nel 10% dei casi dichiarano difficoltà nella “quarta settimana”, mentre il 21% delle famiglie con tre o più figli afferma di trovarsi in arretrato con le bollette.

A confermare il quadro delineato dall’Istat giunge, nel mese di gennaio del 2008, l’indagine campionaria della Banca d’Italia, che viene realizzata ogni due anni e che è l’analisi più attendibile per misurare reddito e ricchezza degli italiani perché – come osserva nuovamente Rossella Bocciarelli (2) – «l’ufficio studi di Via Nazionale ha sviluppato una metodologia ad hoc per filtrare le risposte poco veritiere (è noto che se le si interroga sull’effettiva consistenza del proprio portafogli, le persone tendono come minimo alla reticenza)».

Secondo l’indagine, nel 2006 la famiglia italiana ha potuto contare su un reddito medio di 31.792 euro (circa 2.649 euro mensili) e, rispetto al 2004, questo ammontare è superiore del 2,6% in termini reali, mentre il reddito procapite è cresciuto del 3,5%. Per le famiglie guidate da un lavoratore dipendente, poi, l’incremento medio del reddito reale in quello stesso arco di tempo è stato del 4,3%. Purtroppo però – come spiega il testo diffuso da Bankitalia con riferimento ai lavoratori dipendenti – «il miglior andamento delle famiglie con capofamiglia dipendente fra il 2004 e il 2006 compensa soltanto in parte la riduzione osservata fra il 2000 e il 2004: per il periodo 2000-2006 il reddito di queste famiglie in termini reali è infatti rimasto sostanzialmente stabile (+ 0,96 per cento) rispetto a una crescita del 13,86 per cento delle famiglie con capofamiglia autonomo» (3). In pratica il recupero dei redditi da lavoro dipendente avvenuto nell’ultimo periodo non riesce a compensare il peggioramento precedente che, nell’articolo citato, viene imputato alla bassa crescita e alla bassa produttività del sistema. Soprattutto, non riesce a ridurre la forbice  con la dinamica dei redditi da lavoro autonomo. Negli ultimi due anni esaminati da Bankitalia, inoltre, il reddito familiare medio è cresciuto più al Sud e nelle Isole (6,6%) che nel Nord (2,4%) e nel Centro (1,9%).

Secondo i dati della Banca d’Italia non cala e non cresce, invece, la povertà: l’indagine spiega infatti che la quota di individui che vivono in famiglie a basso reddito (livello di povertà) è risultata nel 2006 pari al 13,2%, la stessa percentuale registrata nel 2000. Anche in questo caso però, guardando più da vicino, la realtà è meno statica di quel che appare: tra il 2000 e il 2004 i lavoratori dipendenti “poveri” sono aumentati dal 5,9% al 7% per poi tornare nel 2006 al 6,3%; per gli autonomi, invece, l’incidenza della povertà si è ridotta tra il 2000 e il 2004 (dall’8,1% al 7,2%) per poi risalire al 7,5% nel 2006.

Per concludere è utile riportare alcune ulteriori informazioni fornite dall’indagine. La ricchezza familiare netta ha un valore mediano (quello che interessa il 50% dei nuclei) pari a 146.718 euro e questo valore, costituito dalla somma di immobili e depositi, titoli di stato, ecc. è aumentato dell’11,6% in termini reali nel biennio 2004-2006. Naturalmente, come ricorda lo studio, la concentrazione della ricchezza è molto più grande di quella del reddito: circa 2,3 milioni di nuclei detengono il possesso di quasi la metà (il 45%) dell’intera ricchezza netta familiare italiana. In altre parole «i dati di Bankitalia ci dicono che il 10% dei ricchi posseggono il 45% di tutte le ricchezze nazionali, mentre il “rimanente” 90% si spartisce il 55% e nella ricchezza è compresa anche la casa di proprietà» (4).

Insieme alla ricchezza, negli ultimi anni, è cresciuto anche l’indebitamento delle famiglie che adesso è pari al 33% del reddito disponibile. Quanto alla diffusione degli strumenti finanziari, l’89% delle famiglie possiede un deposito bancario o postale, l’8,5% titoli di Stato, il 12,1% obbligazioni o quote di fondi co­muni, il 6,2% detiene azioni mentre il 5,9% ha buoni postali fruttiferi. Infine il 68,7% delle famiglie possiede una casa e, a casa con i genitori, resta ancora il 73% dei 20-30enni (anche se il trend è in calo).

A commento del paragrafo dedicato alla situazione economica e sociale delle famiglie, è utile riportare alcune condivisibili osservazioni formulate da Carla Collicelli: «I disagi delle famiglie su cui si sofferma più comunemente l’attenzione dell’opinione pubblica e dei mass-madia, spesso sotto la denominazione di nuove povertà, sono proprio le forme di povertà relativa dei ceti medi da reddito insufficiente e da precarietà lavorativa e contributiva (…). Si tratta, appunto, di povertà relative, cioè segnate dalla scarto con le condizioni di vita medie degli altri soggetti del proprio ceto sociale, che non comportano né una vera e propria povertà economica, né il degrado psicologico e sociale, né l’esclusione e l’emarginazione che caratterizzano altre forme più gravi di povertà. Esse segnalano una grave mancanza di equità nel sistema istituzionale di offerta sociale e nell’assetto del “welfare state” e riguardano principalmente due categorie: le famiglie monoreddito da lavoro impiegatizio od operaio, senza patrimonio e senza altre entrate di tipo autonomo o sommerso; i lavoratori precari, in particolare donne, giovani e immigrati, con carriere professionali interrotte, brevi, o fortemente penalizzate dall’assenza di tutele sociali adeguate» (5).

Il tema del disagio e della povertà si presta, secondo l’autrice, a facili strumentalizzazioni. In particolare si pensa che l’aumento della povertà e l’insorgere di “nuove povertà” siano fenomeni recenti. In realtà è dagli anni ’80 «che inizia in Italia una lunga deriva di addensamento sociale e strutturale, di stallo della mobilità, di impoverimento relazionale, di crisi della rappresentanza. Questa è la prima vera “nuova povertà” dell’Italia moderna, povertà di valori e di risorse immateriali. La seconda “nuova povertà” è data dalla fragilità sociale e dalla paura dell’impoverimento e del declino (…). Ulteriori aree di nuova povertà, anch’esse gravi per la dignità della persona, ma decisamente ascrivibili all’area del disagio materiale, e localizzate in segmenti della società, in specifici individui, aree e famiglie, sono la povertà dell’esclusione sociale degli outsider e quella della malattia e della solitudine» (6).

 

La situazione economica degli occupati

In Italia il tasso di disoccupazione risulta assestato attorno al 6% (dall’8,2% del primo trimestre 2005 al 5,7% del secondo trimestre 2007) ed è il risultato di una diminuzione dell’offerta di lavoro (+ 260.000 inattivi in un anno). L’incremento delle persone che non lavorano, né cercano attivamente lavoro – concentrato nelle regioni meridionali – riflette, secondo Agostino Megale e Riccardo Sanna, «un diffuso sentimento di scoraggiamento che comporta una rinuncia alla ricerca attiva di lavoro, anche se il numero delle persone in cerca di occupazione è risultato pari a 1.412.000 unità, in calo rispetto allo stesso periodo del 2006 (-12,9%, pari a -209.000 unità) (Istat, 2007)» (7).

Nel nostro Paese, date le dimensioni dell’economia sommersa, i confini tra disoccupazione e inattività sono molto labili. «Proprio per questo il tasso di occupazione (rapporto fra occupati e popolazione in età lavorativa) non aumenta, dopo molti anni in cui ci eravamo avvicinati agli obiettivi di Lisbona: ci fermia­mo a ridosso del 58% (per centrare quegli obiettivi, il tasso di occupazione dovrebbe salire al 70% entro il 2010), 11° posto, primi gli islandesi a 85,3» (8). La situazione appare particolarmente problematica per le nuove generazioni. Il tasso di disoccupazione dei giovani fino a 24 anni è del 21,6% (donne 25,3%) e dei giovani da 24 a 34 anni del 9,2% (donne 11,9%). Al Sud il tasso di disoccupazione dei giovani fino a 24 anni è del 34,9% (donne 40,5%) e dei giovani da 24 a 34 anni del 17,5% (donne 22,6%). Nel 2005 soltanto un ragazzo su tre tra i 15 e i 24 anni risulta essere nella forza lavoro e poco più di uno su quattro è occupato. Tra i neoassunti il 50% (uno su tre) ha un contratto a tempo pieno e indeterminato. Si approfondisce inoltre il divario tra Nord e Sud: nel Mezzogiorno calano sia gli occupati (-40.000 unità) che i disoccupati (-229.000), mentre al Nord diminuiscono gli inattivi. Quanto agli in­quadramenti contrattuali degli occupati si rileva che «il 74% dei lavoratori ha un rapporto di lavoro standard, mentre il restante 26% è occupato con for­me contrattuali non standard e temporanee: il 12,1% sono lavoratori a tempo determinato, il 5,2% co.co.co., co.co.pro. e partite Iva, il 2% è costituito da lavoratori interinali, il 4,3% tra apprendisti e altri e il restante 1,9% sono lavoratori senza contratto» (9).

A fronte di un tale scenario non sorprende che, nel nostro Paese, si ponga con forza la questione delle condizioni materiali di vita degli occupati. Un problema che – se si presenta con maggiore acutezza per le nuove generazioni – caratterizza in realtà tutto il mondo del lavoro. Negli anni duemila – secondo gli Autori – «le dinamiche relative alla crescita delle retribuzioni, della produttività e della stessa distribuzione del reddito (inteso come ricchezza prodotta) in Italia evidenziano la prepotente presenza di una questione salariale. Un problema che, nonostante l’impianto dell’Accordo del luglio ’93 – il cui obiettivo esplicito era quello di garantire la difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni all’interno del processo di disinflazione e risanamento dell’economia italiana – si manifesta prevalentemente secondo alcune direzioni: da un lato, si è registrato un rallentamento negli incrementi delle retribuzioni reali (sia contrattuali che “di fatto”), soprattutto se confrontate con quelle dei maggiori paesi europei; dall’altro, data la forte crescita dell’inflazione negli ultimi 15 anni, si è evidenziata la difficoltà a garantire l’effettiva copertura del potere d’acquisto delle retribuzioni e, contemporaneamente, la mancata redistribuzione dei guadagni di produttività realizzati» (10).

Nell’articolo citato vengono riportati alcuni dati tratti dalla ricerca realizzata dall’Ires nel 2006 sulle condizioni materiali di lavoro (basata su 6.000 interviste) dai quali si evidenzia che oltre 14 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro al mese. Circa 7,3 milioni ne guadagnano meno di 1.000. Nell’industria italiana, sempre secondo i dati della ricerca, il 66,2% dei lavoratori e ben il 90% delle lavoratrici guadagna meno di 1.300 euro netti al mese. Inoltre – come osservano gli Autori – «orientando l’analisi al lungo periodo, i salari reali dei lavoratori italiani hanno sostanzialmente mantenuto il potere d’acquisto dal 1993 a oggi, ma senza crescere oltre l’inflazione effettiva. Le retribuzioni di fatto, infatti, registrano una crescita media annua, per l’intera economia, del 3,4% a fronte di una inflazione del 3,2%. Le retribuzioni contrattuali crescono in media solo il 2,7%» (11).

Dai dati di Bankitalia risulta inoltre che dal 2000 al 2006 «il reddito netto delle famiglie il cui capofamiglia è lavoratore dipendente è cresciuto solo dello 0,3% mentre per i lavoratori autonomi sono stati anni di vacche grassissime: i loro redditi sono aumentati del 13,1%» (12). La suddetta tendenza si sarebbe però invertita negli ultimi due anni. Ma ciò è solo parzialmente vero, in quanto «nelle famiglie italiane è cresciuto il numero dei percettori di reddito da lavoro, ma il salario percepito (spesso frutto di abuso di part-time) è stato appena sufficiente a bilanciare l’immobilità dei salari. Quanto ai redditi da lavoro autonomo, Bankitalia fa una ammissione molto onesta: attenti – ci dice – il lavoro autonomo ha varie forme. E così scopriamo che bottegai e artigiani seguitano a spassarsela, mentre altri autonomi vedono il loro reddito diminuire. Il trucco è che non si tratta di veri autonomi, ma di lavoratori atipici il cui numero sta crescendo in maniera esponenziale, direttamente proporzionale al basso livello retributivo» (13).

La conferma del diffondersi del lavoro atipico viene dal rapporto Censis, secondo il quale a trainare la crescita occupazionale del sistema Paese è stato soprattutto il lavoro flessibile «la cui dinamicità ha controbilanciato le tendenze di un mercato del lavoro che continua ancora a presentare il più basso livello di partecipazione al lavoro nell’ambito dei Paesi Ue, considerato che nel 2006 solo il 68,3% della popolazione di età compresa tra i 25 e 64 anni era attiva, contro una media europea del 76,4%». Nell’ultimo biennio è infatti aumentata esponenzialmente la quota di ingressi al lavoro di carattere temporaneo, passati da 720 mila a più di 870 mila (+ 20,1%). Dei quasi 1 milione e 900 mila lavoratori che hanno trovato un’occupazione nel 2006, il 38% ha un contratto a termine (nel 2004 erano il 32,3%), l’8,7% un contratto di lavoro a progetto o occasionale (nel 2004 erano il 7,3%) e solamente il 36,1% un contratto a tempo indeterminato (nel 2004 questa formula di accesso era prevalente con il 40% degli ingressi).

Negli anni esaminati il numero degli accessi al lavoro è cresciuto significativamente (+ 1,5%), in particolare di quelli giovanili (+ 6,7% nella fascia d’età 25 e 34 anni) e dei 35-44enni (+ 7,3%). Si spiega così come proprio tra i giovani infra 35enni si rilevi la più elevata incidenza di contratti atipici. Ma quella che – secondo il rapporto Censis – appare come una pesante eccezione del caso italiano è che «i giovani costituiscano, anche grazie al carattere prevalentemente temporaneo dell’occupazione, una quota estremamente significativa dei flussi in uscita dal mercato. Nel 2006 su 902 mila lavoratori che si sono ritrovati senza occupazione, perché l’hanno persa, o perché si sono ritirati dal lavoro, più di 346 mila erano persone con meno di 34 anni (il 38,45%) e il 22,2% persone dai 35 ai 44 anni».

Infine, nel biennio, è leggermente aumentato il numero di lavoratori a termine tra i 20 e 34 anni che sono riusciti ad accedere, nel giro di un anno, al lavoro a tempo indeterminato (il tasso di trasformazione è passato dal 13,3% del 2004 al 17,7% del 2006, per quanto riguarda i lavoratori temporanei). «Tuttavia, la maggior parte dei lavoratori flessibili resta immobile nella propria condizione; quando non rischia di perdere il posto di lavoro: evento che, nel 2006, ha interessato il 12,4% dei giovani con contratto a termine e il 12% dei collaboratori a progetto od occasionali».

Come osservano ancora Agostino Megale e Riccardo Sanna «per i quasi 4 milioni di persone che operano con contratti a termine, di collaborazione, in somministrazione, d’associazione in partecipazione, di cessione di diritti d’autore, ecc. le due questioni principali che ci vengono segnalate sono: da un lato, la tutela e i diritti, dunque la sicurezza del lavoro futuro; dall’altro, le condizioni materiali a partire dalla necessità di mettere mano alla “questione salariale”, che oltre a caratterizzare tutto il mondo del lavoro, si presenta con maggior acutezza per le nuove generazioni» (14).

Dunque, come afferma il Censis, la flessibilità fa crescere il lavoro, ma dopo? Secondo l’Eurispes «la povertà relativa in Italia è rimasta invariata, ma si è registrato un mutamento nella sua composizione sociale: essere poveri significa sempre più essere giovani, con un lavoro dipendente e un titolo di studio alto, caratteristiche che pongono tali individui nella categoria dei “working poor” e rappresentano una fetta della popolazione che lavora per un salario che li colloca al di sotto del livello di povertà».

Dall’indagine si rileva inoltre che le famiglie povere con a capo un lavoratore dipendente hanno subito, al Nord, un incremento passando dal 3,5% nel 2004 al 4,2% nel 2005; molto più significativa la percentuale delle famiglie con a capo un lavoratore autonomo al Sud che si è attestata dal 19,9% del 2004 al 18% nel 2005. Tra queste ultime, circa 8 su 100 si trovano al di sotto della soglia di povertà mentre, tra le famiglie di lavoratori dipendenti, la quota sale a 9 e subisce un incremento maggiore [12] tra quelle con capofamiglia ritirato dal lavoro.

Al Sud neppure avere un lavoro mette al riparo dalla povertà. «Solo tra le famiglie di imprenditori e liberi professionisti l’incidenza della povertà scende sotto la media nazionale (9%) mentre figurano in povertà relativa il 13,3% delle famiglie di dirigenti e impiegati, percentuale che sale al 27,5% per gli operai e assimilati (il 13,8% a livello nazionale). A ciò si aggiunga che è povero circa il 50% dei nuclei familiari senza occupati o senza persone che abbiano lavorato per un periodo più o meno lungo e dunque prive di un reddito da pensione».

Con le basse retribuzioni aumenta l’incertezza per il futuro. «Nel nostro Paese oltre 20 milioni di lavoratori sono sottopagati e, coeteris paribus, i salari sono inferiori del 10% rispetto alla Germania, del 20% rispetto al Regno Unito e del 25% rispetto alla Francia. Sulla base della ricerca effettuata dall’Eurispes nel marzo del 2007 sulle retribuzioni dei lavoratori, emerge con estrema chiarezza la preoccupante situazione dei salari italiani, tra i più bassi in Europa. Prendendo in considerazione il periodo 2000-2005, infatti, mentre si è registrata una crescita media del salario a livello europeo del 18%, nel nostro Paese i lavoratori dell’industria e dei servizi (con l’esclusione della pubblica amministrazione) hanno visto la propria busta paga crescere solo del 13,7%, crescita inferiore solo a Germania (11,7) e Svezia (7,7), paesi che detengono comunque livelli retributivi ben più alti dei nostri».

Nel 2004 e nel 2005 le retribuzioni nette dei lavoratori italiani sono state superiori solo a quelle greche ed appena inferiori a quelle spagnole, mentre «nel 2006 il trend negativo dell’Italia si è ulteriormente accentuato occupando la penultima posizione tra i paesi europei – per quanto riguarda redditi e retribuzioni – superiore solo al Portogallo» (15). La ragione di questa perdita di posizioni è rintracciabile indubbiamente nella crescita dei salari in Europa del 15% in tre anni. In Italia il salario netto annuo è passato da 15.597 euro del 2004 a 16.242 euro del 2006, con una crescita del 4,1%; in Gran Bretagna, dove la crescita percentuale è stata del 33,3%, i salari sono aumentati di quasi 7mila euro passando da 21.050 euro del 2004 a 28.007 del 2006. Sono aumentati anche i salari della Grecia (+ 34,5%), dell’Olanda (+ 19,2%), del Portogallo (+ 52,1%, con un salario netto annuo passato da 8.634 euro del 2004 a 13.136 euro del 2006), della Finlandia (+ 14,3%), della Germania (+ 14,1%), della Danimarca (+ 11, 2%), dell’Irlanda (+ 11%) e della Spagna (+ 10,4%). Anche se con una percentuale inferiore al 10%, hanno subito un incremento anche i salari del Belgio (+ 7,9%) e della Francia (+ 7,3%).

È in questo contesto che emergono «i nuovi invisibili. Sono chiamati “working poors”, lavoratori poveri: persone che pur avendo una occupazione professionale hanno un tenore di vita molto vicino a quello di un disoccupato, perché il salario risulta inadeguato per vivere una vita dignitosa». La figura emergente del povero lavoratore “in giacca e cravatta” (questa è la definizione dell’Eurispes) tocca quasi tutte le figure professionali: dal pubblico impiego alla piccola e media impresa, dall’edilizia all’artigianato, dal dipendente al lavoratore atipico, dai pensionati ai giovani in cerca di occupazione.

Come riportato nel rapporto dell’Istituto di ricerca, «sulla base di una indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane, nel 2004 i lavoratori a bassa retribuzione sono stati circa il 15% del totale dei lavoratori dipendenti, il 10% se si considerano solo quelli occupati a tempo pieno. Secondo il Ministero della solidarietà sociale (2005), la probabilità di percepire un basso salario è più elevata per le donne, i giovani e le persone meno istruite; i giovani mostrano una probabilità circa tre volte superiore (30%) a quella degli adulti (10%) di percepire un basso salario, probabilità che decresce all’aumentare dell’istruzione: i laureati hanno infatti una probabilità tre volte inferiore (7%) rispetto a chi ha solo l’obbligo scolastico (21%)».

 

Le famiglie in condizione di povertà relativa

La povertà è un fenomeno complesso in quanto è l’esito di processi molto differenziati nei quali si intrecciano, in diversi modi, varie forme di esclusione. Il volto della povertà è – dunque – «sempre meno definibile con indicatori esclusivamente economici, di reddito, ma si caratterizza come un prolungato processo di indebolimento delle risorse personali e familiari, attraverso eventi shock di varia natura: economica, professionale, sanitaria, di mancata integrazione sociale, che cumulativamente de­ter­minano l’ingresso in una situazione di “emarginazione” di cui la povertà economica è solo una delle componenti. In altre parole, la società contemporanea produce una povertà di tipo multidimensionale, in cui le dimensioni economiche, relazionali, so­ciali in senso lato sono strettamente correlate» (16).

Come osservano Nicola Negri e Chiara Saraceno «un reddito insufficiente può essere l’esito di un percorso di esclusione da alcuni beni – l’istruzione per esempio – il cui possesso è un requisito indispensabile per accedere ad altri beni: ad esempio, le informazioni e le conoscenze necessarie per svolgere un lavoro decente» (17). La povertà genera, in questo caso, carenze culturali che, a loro volta, producono cronica debolezza sul mercato del lavoro perpetuando nel tempo il meccanismo di esclusione.

Ma la carenza di reddito fa anche sì che una persona non possa, per motivi oggettivi o soggettivi, accedere a servizi ai quali avrebbe diritto – ad esempio un servizio sanitario – con il conseguente insorgere di problemi di salute che si ripercuotono sulla capacità di lavoro e di guadagno (18). Si può inoltre perdere il lavoro, e quindi il reddito, a causa dell’alcolismo; così come si può precipitare nell’alcolismo (o in altre forme di dipendenza) perché si è persa la speranza di trovare un lavoro.

Nella nostra società per non essere poveri non basta nutrirsi ed essere in buona salute; è necessario lavorare, essere istruiti ed abitare in una casa decente. L’esclusione da questi beni basilari rende la persona fragile avviandola in un percorso di progressivo impoverimento economico e relazionale lungo il quale vengono sempre più intaccate le capacità di inserimento sociale e di sopravvivenza fisica e mentale.

La povertà ha un carattere processuale e multidimensionale e gli indicatori normalmente utilizzati per rilevarla (mancanza di reddito, bassa istruzione, dipendenza da sostanze, “carriere” di marginalità, ecc.) non vanno considerati separatamente, secondo logiche di causa-effetto, ma occorre studiare le interconnessioni nel tempo tra i fattori relativi alla situazione personale, alle risorse a disposizione, alla capacità del soggetto di conoscerle ed utilizzarle, alla percezione di sé ed all’autostima, all’etichettamento sociale.

Secondo i dati dell’Istat, nel 2005 risultavano in condizione di povertà relativa 2.585.000 nuclei ovvero l’11,1% delle famiglie residenti in Italia per un totale di ben 7 milioni 577 mila individui (il 13,1% dell’intera popolazione). La stima dell’incidenza della povertà relativa (19) viene calcolata dall’Istat sulla base di una soglia convenzionale (linea di povertà) (20) che individua il valore di spesa per consumi al di sotto della quale una famiglia viene definita povera in termini relativi. La spesa media mensile per persona (21) rappresenta la soglia di povertà per una famiglia di due componenti e corrisponde, nel 2005, a 936,58 euro al mese (+ 1,8% rispetto alla linea del 2004). Le famiglie composte da due persone che hanno una spesa media mensile (22) pari o inferiore a tale valore vengono quindi classificate come povere. Per famiglie di ampiezza diversa il valore della linea si ottiene applicando una scala di equivalenza che tiene conto delle economie di scala realizzabili all’aumentare del numero di componenti (23).

La soglia di povertà relativa è calcolata sulla base della spesa familiare rilevata dall’indagine sui consumi che l’Istat conduce annualmente su un campione di circa 28mila famiglie estratte casualmente in modo da rappresentare il totale delle famiglie residenti in Italia. Per la valutazione delle stime l’Istituto tiene conto dell’errore che si commette osservando solo una parte della popolazione (errore campionario) costruendo un intervallo di confidenza intorno alla stima puntuale ottenuta dal campione. Su tali basi l’Istat ha stimato che nel 2005 la percentuale di famiglie povere è risultata pari all’11,1% e che il valore che si otterrebbe osservando l’intera popolazione è compreso, con una probabilità del 95%, tra 10,6% e 11,6%.

La povertà appare stabile rispetto al 2004 e nel rapporto vengono confermati sia il divario tra Nord e Sud del Paese, sia le principali caratteristiche delle famiglie in condizioni di povertà: famiglie con cinque o più componenti, famiglie con figli minori, famiglie con componenti in cerca di occupazione o con bassi profili professionali, famiglie con anziani.

Anche a livello territoriale non si rilevano variazioni statisticamente significative fra il 2004 e il 2005, mentre la povertà si riduce fra le famiglie con anziani, in particolare quelli soli o in coppia, tra le famiglie con persona di riferimento ultrasessantacinquenne, tra quelle con a capo un ritirato dal lavoro o una persona con basso titolo di studio. Peggiora invece la condizione delle famiglie più ampie, in particolare quelle con membri aggregati residenti nel Mezzogiorno, delle famiglie numerose residenti nel Centro e – a conferma di quanto già osservato – di quelle settentrionali con persona di riferimento giovane o lavoratore dipendente. L’intensità della povertà (24), nell’anno esaminato, è pari al 21,3%: tale valore indica di quanto, in percentuale, la spesa media mensile equivalente delle famiglie povere, pari a circa 737 euro (719 nel 2004), è al di sotto della linea di povertà.

La povertà relativa si manifesta con una differenziazione territoriale molto accentuata: nel Nord e nel Centro sono povere rispettivamente il 4,5% e il 6% delle famiglie, mentre nel Sud – dove abita ben il 70% delle famiglie povere residenti in Italia – la percentuale raggiunge il 24%. Nel Mezzogiorno, inoltre, ad una più ampia diffusione del fenomeno si associa una maggiore gravità del disagio: l’intensità della povertà raggiunge infatti il 22,7%, rispetto al 17,5% del Nord e al 18,9% del Centro. Con riferimento al dettaglio regionale, si rileva una povertà meno diffusa in Emilia Romagna, dove l’incidenza è pari al 2,5%, valore non significativamente diverso da quello registrato in Lombardia, in Veneto e nella provincia di Bolzano (tutte inferiori al 4,5%). Più elevate, anche se inferiori alla media nazionale, le incidenze osservate in tutte le altre Regioni del Centro-Nord: dal 4,6% della Toscana al 7,3% dell’Umbria. Fra le Regioni del Sud – dove la povertà è più elevata che nel resto del Paese – fa eccezione l’Abruzzo, con una percentuale di famiglie povere dell’11,8%, molto prossima a quella media nazionale. Più contenuta rispetto alla media del Mezzogiorno (24%) è anche l’incidenza rilevata in Sardegna (15,9%) e in Puglia (19,4%). Grave è invece la situazione in Campania, con un incidenza del 27%, e in Sicilia, dove la percentuale di famiglie povere risulta del 30,8%.

I fattori associati alla condizione di povertà che concorrono a determinare i forti divari territoriali sopra evidenziati sono l’elevato numero dei componenti del nucleo, la presenza di figli – soprattutto minori – o di anziani in famiglia, il basso livello di istruzione e una ridotta partecipazione al mercato del lavoro. In generale, le famiglie con cinque o più componenti presentano i livelli di povertà più elevati: in Italia il 26,2% di queste famiglie vive in povertà, percentuale che sale al 39,2% nel Mezzogiorno. Si tratta per lo più di coppie con tre o più figli e di famiglie con membri aggregati, tipologie che mostrano un’incidenza sul piano nazionale rispettivamente pari al 24,5% e al 19,9%.

Le difficoltà economiche associate alla presenza di figli nel nucleo familiare si fanno ancora più evidenti quando i figli sono minori. L’incidenza della povertà – che è pari al 13,6% se in famiglia ci sono due figli e al 24,5% se i figli sono tre o più – sale rispettivamente al 17,2% e al 27,8% quando i figli sono di età inferiore ai 18 anni. Ciò accade in particolare nel Meridione, dove risiede la maggior parte di tali famiglie ed è in condizioni di povertà il 42,7% delle famiglie con tre o più figli minori.

Si riscontrano livelli di povertà superiori alla media, in particolare nel Nord, anche tra i genitori soli (13,4%). In quest’area del Paese le famiglie monogenitoriali povere sono il 5,8% contro una media di nuclei in condizione di povertà del 4,5%. Mostra inoltre un disagio diffuso anche la popolazione anziana: tra le famiglie con almeno un anziano l’incidenza di povertà (13,6%) è superiore di oltre due punti percentuali alla media nazionale e sale al 15,2% tra quelle con almeno due ultrasessantaquattrenni. Tale disagio si osserva in tutto il territorio nazionale, ma la differenza rispetto alle altre famiglie è particolarmente evidente nelle regioni del Centro e del Nord, che si caratterizzano anche per la maggior presenza di anziani tra la popolazione residente: da un’incidenza media del 4,5% nel Nord e del 6% nel Centro si sale rispettivamente al 6,3% e all’8% se nella famiglia è presente almeno un anziano (per lo più si tratta di anziani soli e di coppie senza figli con a capo un anziano, in misura minore, di genitori soli con figli).

La povertà è invece più contenuta tra i single e tra le coppie senza figli di giovani e adulti: l’incidenza a livello nazionale è infatti pari al 3,5% per i single e al 4,8% per le coppie. A livello territoriale non si rilevano inoltre differenze importanti nell’incidenza della povertà tra le famiglie  con a capo un uomo e quelle con a capo una donna, ma va rimarcato che sono donne la quasi totalità degli anziani soli (circa l’81%) e dei monogenitori soli (circa l’83%).

Nella descrizione dei profili familiari di povertà assumono particolare rilevanza le caratteristiche della persona di riferimento: oltre all’età, al sesso e al livello di istruzione, risultano importanti la partecipazione al mercato del lavoro, la condizione e la posizione professionale, fattori tutti strettamente associati tra loro. Nelle famiglie con a capo una persona con basso titolo di studio si evidenzia un’incidenza della povertà del 17,6%, quattro volte superiore a quella che si osserva tra i nuclei con a capo una persona che ha conseguito almeno la licenza media superiore (4,5%). Infine – come già rilevato – tra le famiglie con a capo un lavoratore autonomo circa 8 su 100 sono in condizione di povertà; la quota sale a 9 tra i nuclei in cui la persona di riferimento è un lavoratore dipendente e a 12 tra quelli con capofamiglia ritirato dal lavoro.

In generale l’esclusione dal mercato del lavoro della persona di riferimento determina situazioni di accentuato svantaggio: è povero quasi un terzo delle famiglie (31,4%) con a capo una persona in cerca di occupazione e di queste oltre l’83% risiede nel Sud (ove l’incidenza raggiunge il 43%). Più di un quarto delle famiglie (26,1%) con almeno una persona in cerca di occupazione vive in povertà relativa e si sfiora il 40% se a cercare lavoro sono due o più persone. Inoltre la scarsa capacità reddituale del capofamiglia si associa a peggiori condizioni economiche del nucleo: tra le famiglie con persone in cerca di occupazione, quelle con a capo un ritirato dal lavoro vivono il disagio più marcato (l’incidenza è del 26,8%) mentre è più limitato quello delle famiglie di lavoratori autonomi (19,3%).

A fronte della sostanziale stabilità della diffusione della povertà tra il 2004 ed il 2005, il rapporto del­l’Istat evidenzia le variazioni statisticamente più si­gnificative relativamente ad alcuni segmenti di famiglie. In particolare l’istituto rileva segnali di miglioramento nella fascia più anziana della popolazione ove l’incidenza della povertà risulta diminuita: tra le famiglie con almeno un componente anziano (dal 15% al 13,6%) e, in misura maggiore, fra quelle con due o più anziani (dal 17,3% al 15,2%); fra gli anziani soli (dal 13,7% al all’11,7%) e, soprattutto, fra le coppie con persona di riferimento ultrasessantacinquenne (dal 15,1% al 12,9%). Il miglioramento ri­scontrato esaminando la condizione degli anziani – che risulta particolarmente accentuato nel Centro – coinvolge le famiglie con a capo una persona di 65 anni e oltre (dal 15,1% al 13,8%), con al massimo la licenza elementare (dal 19,3% al 17,6%) o ritirata dal lavoro (dal 13,1% all’11,6%). Anche la quota di single poveri – che in quattro casi su cinque sono anziani – scende dal 9,4% al 7,9%.  Di contro, si riscontrano segnali di peggioramento tra le famiglie con disoccupati in cui la persona di riferimento è un lavoratore dipendente: in questo caso la percentuale di famiglie povere cresce di quattro punti percentuali (dal 18,8% al 22,3%) e, nella maggioranza dei casi, si tratta di nuclei con un elevato numero di componenti, in cui convivono più generazioni o residenti nel Sud del Paese (dove l’incidenza di povertà per questa tipologia familiare passa del 36,4% al 42,9%).

Nelle regioni meridionali migliora la condizione delle famiglie con un solo componente (da 21% a 17,7%) ed in particolare la l’incidenza della povertà si riduce di quasi 5 punti percentuali (dal 28,2% al 23,5%) per gli anziani soli. In calo anche l’incidenza di povertà tra le famiglie con un figlio minorenne (dal 22,9% al 19,6%).

Nelle regioni centrali, oltre al già accennato mi­glio­ramento della condizione degli anziani – le famiglie con almeno una persona ultrasessantacinquenne in condizioni di povertà sono l’8% del totale contro l’11,2% del 2004 – si registra un andamento po­si­tivo anche per le famiglie di due componenti, per le quali l’incidenza di povertà passa dall’8,3% al 6% e, soprattutto, per le famiglie con persona di riferimento tra i 55 e i 64 anni di età (dal 4,9% al 2,8%). Sempre nel Centro l’incidenza di povertà tra le famiglie con cinque o più componenti si attesta al 15,5% (+ 5 punti percentuali), un valore quasi tre volte superiore a quello osservato tra le famiglie di ampiezza minore.

Infine le regioni settentrionali, dove la povertà di­minuisce tra le famiglie con a capo una persona ritirata dal lavoro (da 6,2% a 5,2%) mentre aumenta, seppure in modo contenuto, tra le famiglie con a capo un giovane con meno di 35 anni (dal 2,6% al 4,8%) e – come già evidenziato nell’indagine del­l’Eurispes – tra quelle con a capo un lavoratore dipendente (da 3,5% a 4,2%).Tra le cause di indigenza relativa non c’è dunque solo la disoccupazione – che risulta ovviamente centrale – ma anche il lavoro a basso reddito. Come rileva Marco Iasevoli, commentando i dati dell’Istat, «il 14 per cento degli operai, ad esempio, è sotto la soglia, a fronte del 5 per cento degli impiegati e al 4 per cento delle partite Iva. Fa ancora una volta eccezione la mezza Italia dal Garigliano in giù, che presenta tassi preoccupanti (13 per cento) anche per i dirigenti e personale d’ufficio. Incide sempre più il “working poor”, il lavoro a basso reddito» (25).

 

Le famiglie a rischio di povertà e quelle appena povere

Negli ultimi anni, secondo l’Eurispes, «si sono estese le aree sociali di implosivo ed esplosivo disagio che hanno fatto emergere zone di “originale” vulnerabilità, accompagnate da disagi e fratture dei percorsi di vita collettivi e personali, contraddistinti da tassi di incertezza e insicurezza senza precedenti». Ed in tale contesto che si collocano non solo i 2.585.000 nuclei che versano in condizione di conclamata povertà relativa, ma anche le famiglie considerate a rischio di povertà e quelle appena povere in base ai dati raccolti ed analizzati dall’Istat (26).

Secondo l’istituto, infatti, «la classificazione delle famiglie in povere e non povere, definita attraverso la soglia convenzionale, può essere maggiormente articolata utilizzando due soglie aggiuntive, che corrispondono all’80% e al 120% di quello standard. Tali soglie permettono di individuare quattro gruppi di famiglie: quelle “sicuramente non povere”, che presentano i livelli di spesa per consumi più elevati (superiori al valore della linea standard di almeno il 20%); le famiglie “quasi povere”, con una spesa mensile che si colloca tra la linea standard e quella al 120%; quelle “appena povere” con spesa inferiore alla linea di non oltre il 20%; le famiglie “sicuramente povere”, con una spesa inferiore all’80% della linea di povertà standard».

Nel 2005 1 milione 179 famiglie (il 5,1% del totale) risultano sicuramente povere in quanto hanno livelli di spesa mensile equivalente inferiori alla linea standard di oltre il 20%. Di esse i tre quarti risiedono nel Mezzogiorno. Risultano invece appena povere, avendo valori di spesa di non molto inferiori alla linea di povertà standard, il 6% delle famiglie residenti in Italia, ossia poco più della metà delle famiglie povere; il rapporto si inverte nelle regioni del Nord e le famiglie appena povere sono quasi il doppio di quelle sicuramente povere (2,9% contro l’1,6%).

Non sono invece povere, ma corrono il rischio di diventarlo, il 7,9% delle famiglie che presentano livelli di spesa per consumi superiori alla linea standard di non oltre il 20%. Questa percentuale raggiunge il 13,3% nel Sud. «Ciò si traduce nel fatto che, tra le famiglie non povere, una su dieci è a rischio di cadere in condizione di povertà e lo è una su cinque se si considerano solo le famiglie non povere residenti nel Mezzogiorno». Le famiglie “sicuramente non povere”, infine, sono l’81% del totale, ma variano tra il 90,4% del Nord, l’88,2% del Centro e il 62,7% del mezzogiorno. Da ciò deriva che più della metà delle famiglie sicuramente non povere (53,8%) risiede al Nord.

Si assiste cioè ad un processo «di polarizzazione nei redditi e di segmentazione territoriale» (27) che è da considerare attentamente nell’analisi di una struttura della diseguaglianza sociale caratterizzata, inoltre, dalla diffusione di «nuovi rischi sociali» che delineano un’area sociale in condizione di forte vulnerabilità. «Accanto alle disparità tradizionali fondate sostanzialmente sulla collocazione dei soggetti nel mercato del lavoro, sono emerse nuove disuguaglianze basate, da un lato, sull’accesso differenziato a risorse fondamentali per il benessere individuale e familiare (un reddito sufficiente, un’abitazione adeguata, ecc.) e dall’altro, sulla maggiore o minore stabilità della posizione mantenuta dentro i diversi sistemi di distribuzione delle risorse e di integrazione sociale (il mercato del lavoro, le reti della famiglia allargata, il sistema di welfare). Si profilano così nuove forme di diseguaglianza sociale, fondate sull’indebolimento progressivo dei sistemi di integrazione sociale e sulla conseguente esposizione di una parte significativa della popolazione a rischi e ad elementi di insicurezza» (28).

Come si è detto, la disuguaglianza sociale assume oggi un carattere multidimensionale: «non è definita da un fattore determinante (la posizione lavorativa) sul quale si cumulano altri fattori di svantaggio di importanza decrescente, ma dall’intreccio tra fattori diversificati di rischio, che sono difficilmente ordinabili in via gerarchica» (29). «La povertà della malattia e della solitudine si verifica anche in assenza di disoccupazione o di integrazione sociale, quando una patologia grave, magari cronica, porta lo sconquasso nella vita dell’individuo e dei suoi cari e soprattutto quando si aggiungono la solitudine e la mancanza di cure adeguate (…).Tutte le povertà (…) si aggravano o si manifestano nelle situazioni in cui mancano o vengono a mancare fattori di protezione sociale a monte, come la patrimonializzazione, la casa di proprietà, o una famiglia allargata di sostegno. Molte delle situazioni di maggiore disagio si verificano quando si sommano due o più fattori di impoverimento, e si verifica una sindrome da “mix di cause”: ad esempio la malattia assieme alla precarietà, il reddito insufficiente assieme ad una famiglia numerosa, ecc.» (30).

Occorre però ricordare che la povertà dell’esclusione sociale è – come giustamente osserva Carla Collicelli – l’unica forma di disagio cui si addice il nome di povertà nel senso tradizionale del termine e che «uno degli aspetti più drammatici della società moderna dei nostri giorni è proprio la produzione di “materiale umano di scarto”, di disoccupati cronici, di disadattati, di rifugiati alla ricerca di una patria, di barboni, di immigrati economici irregolari, in una parola di “vittime collaterali del progresso”, di esclusi dalla integrazione lavorativa e sociale» (31).

 

Considerazioni conclusive

La situazione descritta in questa pagine conferma appieno l’opinione – recentemente espressa da Livio Pepino – secondo il quale «la novità (dirompente) degli ultimi anni è stata la rimozione anche teorica della categoria dell’uguaglianza». Eppure questa «parola guida (con libertà e fraternità) della rivoluzione borghese, è stata la chiave di volta delle costituzioni successive alla seconda guerra mondiale, fino a fondare, come è stato detto, un nuovo concetto di cittadinanza, consistente in uno “status di cui fanno parte un reddito decoroso e il diritto a
condurre una vita civile, anche quando si è ammalati, o vecchi, o disoccupati, o comunque in difficoltà”»
(32).

Oggi la sola enunciazione dell’articolo 3 della nostra Costituzione – «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese» – appare infatti non solo impegnativa, ma si connota di una forte carica polemica con la situazione di fatto, perché «il vincolo posto alle istituzioni dello Stato di rimuovere gli ostacoli all’uguaglianza è una denuncia esplicita delle disparità e delle ingiustizie in atto» (33).

 

 

* Direttore del Cisap, Consorzio dei servizi alla persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino).

(1) Rossella Bocciarelli, “In affanno una famiglia su sette ”, Il Sole-24 ore, 18 gennaio 2008. Cfr. inoltre Leonardo Rossi, “Italiani sempre più poveri”, Italia Oggi, 18 gennaio 2008.

(2) Rossella Bocciarelli, “Redditi: dipendenti fermi, crescono gli autonomi”, Il Sole-24 ore, 29 gennaio 2008.

(3) Ibidem.

(4) Galapagos, “Un Paese di classe”, Il Manifesto, 29 gennaio 2008.

(5) Carla Collicelli, “Lavoro e proprietà come fattori di segmentazione sociale delle famiglie italiane”, La rivista delle politiche sociali, n. 4, 2007.

(6) Ibidem.

(7) Agostino Megale, Riccardo Sanna, “Questione salariale: lavoratori dipendenti e diseguaglianze generazionali”, Ibidem.

(8) Ibidem.

(9) Ibidem.

(10) Ibidem.

(11) Ibidem.

(12) Galapagos, Op. cit.

(13) ibidem.

(14) Agostino Megale, Riccardo Sanna, Op .cit. Secondo le rilevazioni degli Autori «a) un apprendista, in età compresa tra i 16 e i 24 anni, guadagna mediamente 736,85 euro netti mensili; b) un collaboratore occasionale, in età compresa tra i 16 e i 34 anni, guadagna mediamente 768,80 euro netti mensili; c) un co.co.pro. o co.co.co. in età compresa tra i 16 e i 34 anni, guadagna mediamente 899,04 euro netti mensili».

(15) Maurizio Galvani, “Rapporto Eurispes. Italia e italiani poveri”, Il Manifesto, 26 gennaio 2008.

(16) Assessorato alle politiche sociali del Comune di Modena, “Analisi e riflessioni sui processi di disagio, povertà ed esclusione sociale  presenti  a  Modena”,  Quaderno  dell’Osservatorio  sul  disagio  e  le risorse  sociali.  Citato  in  Prospettive  assistenziali, n. 134, 2001.

(17) Nicola Negri e Chiara Saraceno, Le politiche contro la povertà in Italia, Il Mulino, Bologna, 1996.

(18) Secondo il rapporto Censis «le condizioni socio-economiche sembrano confermarsi uno dei fattori più rilevanti nella determinazione della condizione di salute, e in effetti le regioni che si collocano nelle prime classi della graduatoria che misura la positività della situazione socio-economica occupano tendenzialmente posizioni elevate anche in quella dell’indicatore di salute».

(19) L’incidenza della povertà si ottiene dal rapporto tra il numero di famiglie con spesa media mensile per consumi pari o al di sotto della soglia di povertà e il totale delle famiglie resi­denti.

(20) La soglia di povertà relativa per una famiglia di due componenti è pari alla spesa media procapite nel Paese.

(21) La spesa media per persona (procapite) si ottiene dividendo la spesa totale per consumi delle famiglie per il numero totale dei componenti.

(22) La spesa media familiare è calcolata al netto delle spese per manutenzione straordinaria delle abitazioni, dei premi pagati per assicurazioni vita e rendite vitalizie, rate di mutui e restituzione prestiti.

(23) La scala di equivalenza è l’insieme dei coefficienti di correzione utilizzati per determinare la soglia di povertà quando le famiglie hanno un numero di componenti diverso da due. Ad esempio, la soglia di povertà per una famiglia di quattro persone è pari a 1,63 volte quella per due componenti (1.526,63 euro), la soglia per una famiglia di sei persone è di 2,16 volte (2.032,01 euro).

(24) L’intensità della povertà misura di quanto in percentuale la spesa media delle famiglie definite povere è al di sotto della soglia di povertà.

(25) Marco Iasevoli, “In Italia la povertà non cala, oltre sette milioni in difficoltà”, L’Avvenire, 5 ottobre 2007.

(26) Secondo il Rapporto Italia 2008 dell’Eurispes «si può arrivare alla conclusione che il totale delle persone a rischio di povertà e di quelle già comprese tra gli indigenti è allarmante: si possono stimare circa 5.100.000 nuclei familiari, all’incirca il 23% delle famiglie italiane e più di 15 milioni di individui, di questi quasi tre milioni sono minori di 18 anni».

(27) Maurizio Franzini, “Disuguaglianze economiche e non solo: l’Italia del malessere sociale”, La rivista delle politiche sociali, n. 4, 2007.

(28) Costanzo Ranci, “Tra vecchie e nuove disuguaglianze: la vulnerabilità nella società dell’incertezza”, La rivista delle politiche sociali, n. 4, 2007.

(29) Ibidem.

(30) Carla Collicelli, Op. cit.

(31) Ibidem.

(32) Livio Pepino, “La rimozione del principio di uguaglianza”, Narcomafie, n. 1, 2008.

(33) Ibidem.

 

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