Prospettive assistenziali, n. 162, aprile-giugno 2008

 

 

INTEGRAZIONE SOCIO-SANITARIA E DIRITTI DEI MALATI PSICHIATRICI

MAURO PERINO *

 

 

Premessa

Il concetto di integrazione tra sanità ed assistenza si fonda sulla giusta considerazione che lo stato di salute e la sua evoluzione nel tempo sono fortemente influenzati dalla condizione sociale delle persone, delle famiglie, dei gruppi sociali e che – a sua volta – la condizione sociale è fortemente influenzata dallo stato di salute. Tutti i fattori che determinano la condizione di vita di una persona hanno a che fare, in sostanza, con la collocazione della stessa nella società e viceversa. Inoltre il concetto può essere egualmente applicato – ad esempio – al grado di istruzione, al livello culturale, alla collocazione lavorativa ed a quella abitativa.

Dunque, se fosse valida la decisione di creare una vera e propria “area dell’integrazione socio-sanitaria” (come settore “a parte” rispetto a quello sanitario) al fine di valorizzare gli aspetti “sociali” delle problematiche degli assistiti dovremmo – per logica – prevedere altrettante aree per i servizi preposti all’istruzione, al lavoro, alla casa, alla promozione culturale e dello sport. Dovremmo cioè teorizzare una collocazione “differenziale” delle persone nei servizi – che lo Stato sociale deve fornire, nel rispetto del principio di eguaglianza, a tutti i cittadini – sulla base di una lettura distorta e strumentale dei loro bisogni.

Dalla constatazione che i servizi hanno sempre più a che fare con situazioni complesse che esprimono bisogni sia sanitari che sociali (come nel caso delle patologie cronico-stabilizzate e cronico-degenerative) si dovrebbe, invece, trarre la giusta conclusione che il sistema sanitario deve farsi carico degli uni e degli altri, proprio perché la persona è unica e la salute non è semplicemente una “non malattia”. In pratica accade esattamente il contrario: è infatti ormai dilagante una impostazione “culturale” secondo la quale è prerogativa del servizio sanitario assicurare la cura della malattia nelle sue fasi acute, mentre la cronicità, in tutte le sue manifestazioni, viene espulsa dalla pienezza del diritto alla salute. In sostanza vengono considerate di competenza sanitaria solamente le prestazioni afferenti alle tradizionali professioni del comparto e non tutto l’insieme degli interventi, tra virgolette assistenziali, necessari per una efficace cura della persona.

Eppure, in questo scenario purtroppo negativo, non mancano validi esempi di interventi correttamente orientati alla tutela della persona malata. In Piemonte, ad esempio, è attivo dal 1985 il servizio di ospedalizzazione a domicilio presso la Divisione universitaria ospedaliera S. Giovanni Battista-Molinette di Torino. Con la deliberazione della Giunta regionale n. 41/2002 sono state definite le linee guida per l’attivazione del servizio di cure domiciliari nelle Aziende sanitarie della Regione e – con la successiva deliberazione della Giunta regionale n. 72/2004 – è stato indicato il percorso di continuità assistenziale per gli anziani e per le persone con bisogni sanitari e assistenziali determinati da condizioni di non autosufficienza. Infine va rimarcata la positiva esperienza di gestione diretta di un certo numero di Residenze sanitarie assistenziali da parte di alcune Asl piemontesi.

Il servizio sanitario non può, dunque, che “essere sociale” se intende perseguire – nell’ambito del sistema complessivo di sicurezza sociale – la tutela della salute. Alla sanità è richiesto – in sintesi – di assumere direttamente tutte le valenze umane, relazionali e sociali nell’ambito delle attività di prevenzione, cura e riabilitazione che il sistema sanitario è chiamato a svolgere a beneficio di tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti dei servizi. È dunque profondamente sbagliato confondere la necessità di una integrazione delle competenze professionali e delle relative prestazioni (sanitarie e sociali, quando necessarie) con la delega al settore socio-assistenziale (e quindi ai Comuni) di tutti gli interventi non strettamente medici o infermieristici e dei relativi oneri.

Se si considerano i cittadini malati cronici come titolari di diritti costituzionalmente garantiti si deve operare concretamente per rendere esigibile il loro diritto alle cure. A tal fine occorre che vi sia un solo organismo tenuto ad attuarli e non due (Asl e Comuni). La creazione di un doppio riferimento sul piano istituzionale – favorita da un impianto normativo che prevede “prestazioni sanitarie a rilievo sociale”, “prestazioni sociali a rilievo sanitario”, “prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria”, a loro volta articolate in fasi curative “intensive”, “estensive” e lungo-assistenziali – costituisce, per i cittadini colpiti da malattie invalidanti, uno sbarramento insuperabile per l’acquisizione della conoscenza di quali sono i diritti che possono essere rivendicati per accedere, senza ostacoli, ai servizi ed alle prestazioni.

La realizzazione di una integrazione operativa tra comparti richiede dunque una precisa definizione delle titolarità istituzionali nell’erogazione dei servizi. Occorre infatti evitare di perpetuare l’esperienza di impotenza dei cittadini di fronte al palleggiamento delle responsabilità tra istituzioni. In buona sostanza l’integrazione tra sociale e sanitario presuppone che siano chiari i diritti delle persone, definiti i soggetti deputati a garantirli e certe le risorse per attuarli.

 

Con la scusa dell’integrazione

Quella delle risorse è una questione fondamentale. Talmente importante che è proprio dalla esigenza di contenere la spesa sanitaria che trae origine la definizione, dal punto di vista normativo, dell’integrazione socio-sanitaria.

Con la legge finanziaria del 1984 (legge 730/1983, articolo 30) viene per la prima volta coniata la definizione di «attività di rilievo sanitario connesse con quelle assistenziali» e si demanda ad un apposito decreto il compito di individuarle nell’ambito dell’allora nascente sistema dei servizi socio-assistenziali. A “definire” la nuova tipologia di attività interviene, nel 1985, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri conosciuto come “decreto Craxi” che, all’articolo 1, recita: «Le attività di rilievo sanitario connesse con quelle assistenziali di cui all’articolo 30 della legge 27 dicembre 1983, n.730 sono le attività che richiedono personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio-assistenziali, purché siano dirette immediatamente e in via prevalente alla tutela della salute del cittadino e si estrinsechino in interventi a sostegno dell’attività sanitaria di prevenzione, cura e/o riabilitazione fisica e psichica del medesimo, in assenza dei quali l’attività sanitaria non può svolgersi o produrre effetti».

Per questa tipologia di attività le Regioni (destinatarie del decreto) vengono autorizzate a riconoscere una compartecipazione sanitaria alla spesa mentre «le attività direttamente ed esclusivamente socio-assistenziali, comunque estrinsecantesi, anche se indirettamente finalizzate alla tutela della salute del cittadino» devono gravare esclusivamente sui bilanci dei Comuni. L’obiettivo è, chiaramente, di ricondurre al nuovo regime di finanziamento (compartecipato) le prestazioni sino ad allora attribuite (o comunque attribuibili) per intero al fondo sanitario realizzando, in tal modo, un risparmio di spesa a scapito degli utenti e/o dei Comuni.

Grazie al decreto, si arresta il processo di estensione dei diritti alle prestazioni sanitarie avviato nella primissima fase di attuazione della legge 833/1978, innescando un meccanismo di espulsione degli anziani cronici non autosufficienti, dei dementi senili, dei malati di Alzheimer e dei pazienti psichiatrici dal diritto ad usufruire pienamente delle prestazioni che il servizio sanitario fornisce alla generalità dei propri assistiti. Il decreto crea infatti i presupposti normativi con i quali verrà successivamente giustificato il processo di espulsione dei pazienti ex degenti negli ospedali psichiatrici, e dei malati di mente in generale, dalla piena tutela offerta dal sistema sanitario.

Anche su questo versante si opera a colpi di leggi finanziarie: con l’obiettivo esplicito di superare gli ospedali psichiatrici e quello, implicito, di realizzare una riconversione complessiva della spesa a beneficio del fondo sanitario nazionale. Con la finanziaria del ’95 viene pertanto fissato il termine del 31 dicembre 1996 entro il quale deve essere realizzata la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici. La successiva legge finanziaria del ’97 riconferma la decisione di procedere alla chiusura e stabilisce una penalizzazione per le Regioni inadempienti. Con la finanziaria del ’98 vengono infine riconfermate le sanzioni per le Regioni responsabili della mancata attuazione (entro il termine ultimo del 31 marzo 1998) dei provvedimenti necessari alla chiusura degli ospedali psichiatrici.

Allo scopo di dare adempimento alle disposizioni normative nazionali la Giunta della Regione Piemonte, con deliberazione n. 489/1996, adotta le linee guida per la chiusura definitiva degli ex ospedali psichiatrici prevedendo che questa avvenga tramite “rivalutazione clinica” dei pazienti. La rivalutazione si concretizza nell’inserimento dei pazienti ex ospedali psichiatrici e di quelli “territoriali” – ricoverati dai servizi di salute mentale in strutture residenziali socio-assistenziali con oneri a carico del Servizio sanitario – nelle nuove “tipologie” degli «adulti portatori di handicap» (rivalutati di tipo A) e dei «non autosufficienti anziani e non» (rivalutati di tipo B). A queste due fattispecie si aggiungono le persone rivalutate di tipo C che rimangono di esclusiva competenza psichiatrica.

Alla opportuna e positiva decisione di operare una distinzione tra persone con handicap e malati psichiatrici viene però dato corso rappresentando – troppo spesso – la disabilità come un “effetto” che accomuna, in un’unica condizione, soggetti con problematiche che derivano da cause diverse. Sottovalutando, in tal modo, la specificità della malattia mentale che – a differenza della insufficienza mentale – include «le condizioni psicotiche, le condizioni a genesi organica per lo più di natura degenerativa, i processi psiconeuronici, i disordini del comportamento e della personalità» (1) e richiede, pertanto, che le cure sanitarie vengano erogate senza limiti di durata. Esattamente come per i «non autosufficienti anziani e non» che risultano limitati nell’attività e nella partecipazione non in conseguenza di una menomazione (di natura fisica, sensoriale o intellettiva), ma a causa delle malattie invalidanti che li affliggono.

Con la pratica della rivalutazione – avviata per gli utenti ex ospedali psichiatrici ma utilizzata, da allora in poi, per tutti gli assistiti su richiesta dei servizi di salute mentale – si sgrava la sanità di una notevole quota di spesa che viene ripartita tra gli utenti (ai quali viene richiesto di contribuire al costo di prestazioni precedentemente erogate a titolo gratuito) ed i Comuni. A tutela dei bilanci di questi ultimi la legge regionale n. 61/1997 stabilisce, però, che «la Regione interviene finanziariamente a favore degli Enti gestori dei servizi socio-assistenziali a copertura degli oneri derivanti dall’organizzazione e dall’erogazione delle prestazioni destinate ai soggetti con patologie psichiatriche in carico anche ai servizi socio-assistenziali e ai soggetti rivalutati».

Ed è proprio quest’ultimo aspetto – la previsione di una “doppia” presa in carico di «soggetti con patologie psichiatriche» – a segnalare come, per ragioni di ordine economico, si sia adottata una prassi volta a comprimere quei diritti (2) che in sanità sono (almeno sotto il profilo giuridico) esigibili mentre, in assistenza, non sono tali ancora oggi (3). Infatti il vero problema che si pone con l’attuazione dei provvedimenti regionali non è la previsione della contribuzione economica a carico dei lungodegenti, ma la sottrazione della piena competenza del sistema sanitario a farsi carico direttamente di questi malati.

 

I livelli essenziali di assistenza (Lea) e il riconoscimento dei diritti degli utenti

Negli anni successivi le cose non migliorano. Con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001 (4) – che radicalizza la logica di risparmio della spesa sanitaria avviata con il “decreto Craxi” – oltre a ridefinire i confini delle prestazioni socio-sanitarie e ad introdurre nuovi criteri di ripartizione della spesa tra Asl e Comuni, si “transitano” le competenze sulle tipologie di cittadini, “risparmiate” dal decreto del 1985, dal comparto sanitario a quello socio-sanitario (con relativo accollo degli oneri di intervento riferiti alle attività “non strettamente sanitarie” agli assistiti e/o ai Comuni). All’utenza già individuata dalle Regioni in applicazione del precedente atto di indirizzo – rappresentata dall’area materno-infantile, dalle persone con handicap, dagli anziani cronici non autosufficienti – si aggiungono le persone non autosufficienti con patologie cronico-degenerative, i soggetti dipendenti da alcool e da droga, le persone colpite da patologie psichiatriche e gli affetti da Hiv.

A questo decreto fa seguito, nel novembre dello stesso anno, il “decreto Sirchia” (5) (convertito in legge con l’approvazione dell’articolo 54 della finanziaria 2003) che – pur confermando il trasferimento delle componenti più deboli dell’utenza nella cosiddetta “area dell’integrazione socio-sanitaria” – riconosce almeno che le prestazioni ad essa riconducibili rientrano, a pieno titolo, tra i livelli essenziali che il Servizio sanitario nazionale è tenuto ad assicurare, pur con l’onere di contribuzione in percentuale, agli utenti di:

• centri diurni per soggetti con handicap grave (30%);

• strutture residenziali per soggetti con handicap grave (30%);

• residenze sanitarie assistenziali per adulti o anziani non autosufficienti (50%);

• centri diurni per malati di Alzheimer (50%);

• strutture residenziali per malati di Aids lungodegenti (30%).

Accade inoltre che – proprio con riferimento al tema di questo convegno – ai malati psichiatrici beneficiari di «prestazioni terapeutiche e socioriabilitative in strutture a bassa intensità assistenziale» si richieda di accollarsi il 60% dei costi di tali prestazioni. Come nel precedente decreto viene fatta salva la possibilità di integrazione della retta da parte dei Comuni che, però, operano sulla base di regolamenti tra loro differenti: generando così una evidente disparità di trattamento tra gli utenti dei medesimi servizi. Ma non basta. Anche i familiari vengono potenzialmente coinvolti nel pagamento. I principi stabiliti dal decreto legislativo 109/1998, così come modificato dal decreto legislativo 130/2000, che tutelano le persone con handicap permanente grave e gli anziani non autosufficienti imponendo che – per determinare la quota di compartecipazione alle spese degli interventi – venga considerata la situazione economica del solo assistito, non si applicano infatti alle persone con problemi psichiatrici tali da non determinare una condizione di handicap grave accertata ai sensi della legge 104/1992.

È evidente che – senza auspicabili interventi legislativi nazionali e regionali, – per determinare la quota di spesa da porre a carico dell’assistito, si dovrà considerare anche il reddito del suo nucleo familiare: con il paradosso di dover richiedere (per legge) alla moglie ed ai figli di un adulto con patologie psichiatriche – e cioè di un malato al quale è riconosciuto il diritto soggettivo ad essere curato – di farsi carico dei costi di prestazioni residenziali che, con ogni evidenza, rappresentano una componente essenziale del processo di cura del proprio congiunto. E tutto ciò accade, come si può ben comprendere, non per una carenza di “integrazione” tra comparti ma, molto più prosaicamente, per l’annoso problema della dislocazione delle risorse che – per il livello essenziale di ogni intervento costituzionalmente previsto – dovrebbe essere necessariamente vincolata.

 

La ridefinizione del diritto alle cure

I concetti di unitarietà e globalità degli interventi, superamento delle prassi settoriali, integrazione delle competenze e dei servizi, maggiore attenzione ai soggetti deboli, non possono che essere condivisi. Ma occorre che essi vengano tradotti in contenuti concreti e – quando sono riferiti a condizioni che esprimono bisogni esistenziali fondamentali – determinino diritti esigibili da parte dei cittadini. Nonostante sia superata da moltissimi anni la concezione secondo cui il miglioramento delle condizioni di vita degli assistiti si ottiene solamente o principalmente mediante una diversa organizzazione delle prestazioni, l’incremento della professionalità degli operatori o con altri strumenti tecnici, è infatti ancora prassi corrente che tali diritti non vengono indicati nelle leggi nazionali e regionali, nelle deliberazioni comunali o degli Enti gestori socio-assistenziali, nei provvedimenti delle Aziende sanitarie.

Occorre pertanto che nei testi normativi e nei regolamenti emanati dai diversi livelli di governo vengano puntualmente indicate le prestazioni – e definiti i relativi standard – che costituiscono diritti esigibili, prevedendo inoltre la possibilità, per il cittadino o per chi lo rappresenta, di ricorrere contro le decisioni assunte dagli organismi preposti all’erogazione dei servizi. In particolare è necessario, con riferimento alle persone colpite da disturbi psichiatrici, che la Regione Piemonte e le Azienda sanitarie – come richiesto con forza dalle associazioni di volontariato piemontesi attraverso una petizione popolare già sottoscritta da oltre 18mila cittadini – provvedano a garantire:

• l’erogazione di contributi terapeutici, alternativi al ricovero e finalizzati al sostegno economico, agli adulti impossibilitati a svolgere attività lavorative proficue (deliberazione del Consiglio regionale piemontese n. 245-11964 del 31 luglio 1986);

• la presa in carico da parte dei dipartimenti di salute mentale dei soggetti che presentano prevalenti problemi psichiatrici anche se associati ad insufficienza mentale;

• le cure domiciliari ai soggetti con limitata o nulla autonomia prevedendo, inoltre, interventi di natura economica (rimborso forfettario delle spese vive) a favore dei congiunti e delle terze persone che volontariamente accettano di svolgere una parte dei compiti attribuiti dalle vigenti leggi alla sanità;

• l’assunzione dei provvedimenti necessari affinché, in tutti i casi previsti dalla legge 6/2004, venga proposta dai responsabili dei servizi sanitari la nomina, da parte del giudice tutelare, dell’amministratore di sostegno;

• la definizione delle modalità di predisposizione del piano personalizzato di intervento da formulare in collaborazione con l’utente, l’amministratore di sostegno ed i congiunti volontari intrafamiliari ai quali dovrebbe essere fornita copia;

• la predisposizione di centri diurni aperti 48 ore settimanali (8 ore per 6 giorni) nella misura di almeno uno ogni 50mila abitanti;

• la predisposizione di gruppi appartamento per soggetti (massimo 5 per ciascun gruppo) non in grado di provvedere autonomamente alle proprie esigenze, ma necessitanti di un sostegno saltuario;

• la realizzazione di almeno una comunità alloggio (6) ogni 30mila abitanti, con capienza massima di 8 posti più 2 per le emergenze, per soggetti adulti con problemi psichiatrici tali da impedire la loro permanenza a domicilio o presso gruppi appartamento;

• il trasferimento a domicilio, nei gruppi appartamento e nelle comunità alloggio dei pazienti attualmente sistemati presso pensioni e altre strutture residenziali (ad esempio Raf);

• la realizzazione di comunità alloggio (almeno una per ogni Asl) a totale carico sanitario per i minori con problemi psichiatrici tali da rendere, anche transitoriamente, sconsigliabile sul piano terapeutico la loro permanenza nel nucleo familiare d’origine o affidatario o adottivo;

• l’attuazione, nei dipartimenti di salute mentale, del decreto del Presidente della Repubblica concernente il Progetto obiettivo della salute mentale, assicurandone il necessario finanziamento.

 

Conclusioni

In conclusione occorre ribadire nuovamente che le prestazioni precedentemente elencate rientrano, a tutti gli effetti, tra i livelli essenziali che il sistema sanitario è tenuto ad assicurare. Pertanto devono essere fornite con i criteri e le modalità operative del Servizio sanitario. Evitando cioè che prevalgano le regole del settore socio-assistenziale (limitazione delle prestazioni ai soggetti in condizioni di disagio socio-economico, ridotti orari di apertura degli uffici preposti all’accesso ai servizi, tempi lunghi occorrenti per l’accertamento del diritto agli interventi, ecc.) come si verificherebbe se le prestazioni socio-sanitarie dovessero essere sempre concordate tra i due settori. Solamente se del caso – e cioè quando ne è stato accertata l’esigenza – tali prestazioni dovranno essere integrate dagli interventi socio-assistenziali.

Giova infatti ricordare che i servizi socio-assistenziali sono chiamati ad operare per assicurare ad «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere» il «diritto al mantenimento e all’assistenza sociale». Un diritto, sancito dall’articolo 38 della Costituzione, che ha caratteristiche molto diverse dal complesso di quelli afferenti alla “sicurezza sociale”. A differenza dei diritti alla salute, all’istruzione e ai trasporti che devono essere obbligatoriamente rivolti a tutta la cittadinanza, il diritto all’assistenza deve avere un carattere selettivo. Va dunque definito in modo puntuale il rapporto che deve intercorrere tra diritti esigibili dei più deboli ed opportunità da offrire alla cittadinanza in generale. Operando una corretta selezione delle risorse da allocare: agli interventi ed ai servizi destinati alle persone che necessitano di assistenza sociale vanno assegnate le risorse (finanziarie, umane e strumentali) necessarie. Al resto dei potenziali fruitori è destinato “il di più” nel caso siano disponibili risorse aggiuntive.

In sintesi è necessario chiarire che i servizi socio-assistenziali rappresentano un “sotto insieme” del complesso dei servizi preposti ad assicurare l’effettività dei diritti posti a fondamento dello Stato sociale (ed in particolare alla tutela della salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»). Si tratta dunque di servizi che hanno una specificità che deve essere preservata, pena la lesione dei diritti dei più deboli perpetrata attraverso la strumentalizzazione dei concetti di prevenzione del bisogno assistenziale, di non discriminazione, di connessione tra condizione sociale e stato di salute richiamati all’inizio di questa relazione.

 

 

 

* Direttore del Cisap, Consorzio dei servizi alla persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino). Relazione tenuta al convegno nazionale “Tra comunità e casa: un percorso di guarigione in salute mentale” svoltosi a Torino il 28-29 marzo 2008.

(1) Giuseppe Oberto, “Invalidità psichiche ed invalidità fisiche ai fini del collocamento obbligatorio”, Prospettive assistenziali, n. 77, 1987.

(2)  Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri si configura, in realtà, come un atto amministrativo, cioè una norma di secondo livello che non poteva modificare le leggi vigenti che assicuravano (ed assicurano) il diritto alle cure per tutti i malati acuti e cronici. In proposito è opportuno ricordare una sentenza della Corte di Cassazione, la 10150 del 1996, nella quale è affermato che il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri è “contra legem” ove venga utilizzato per non riconoscere parità di diritto alla prestazioni sanitarie dei pazienti cronici rispetto agli acuti; che le cure sanitarie spettano sia ai malati acuti che cronici; che laddove c’è un intervento sanitario non si può scindere la parte assistenziale.

(3) La legge 328/2000 – ponendo il limite delle risorse finanziarie e patrimoniali disponibili alla programmazione ed organizzazione del sistema integrato – non assicura infatti la piena esigibilità del diritto a beneficiare degli interventi e servizi sociali definiti nei livelli essenziali delle prestazioni, ma si limita ad assumere il criterio della priorità di accesso per i soggetti più fragili (articolo 2, comma 3).

(4)  Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001 “Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie” emanato in ottemperanza del disposto dell’articolo 2, comma 1, lettera n) della legge 419/1998.

(5)  Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 novembre 2001 “Definizione dei livelli essenziali di assistenza”. Il provvedimento riprende integralmente, citandolo puntualmente tra le fonti normative di riferimento, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001 “Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie” conosciuto come “Decreto Veronesi”.

(6)  Gli appartamenti delle comunità alloggio devono essere inseriti nel vivo del contesto sociale del territorio in cui la persona è vissuta, salvo i casi in cui detto principio contrasti con le esigenze del soggetto; devono inoltre essere di proprietà delle Asl, allo scopo di poterli gestire direttamente senza correre il rischio di sfratto o di affidarne il funzionamento ad altri enti, ma conservando la facoltà di cambiare il gestore nei casi di inadeguato trattamento degli utenti.

 

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