Prospettive assistenziali, n. 162, aprile-giugno 2008
ISTRUTTIVI RIPENSAMENTI SUL RUOLO
DEL VOLONTARIATO E LE FUNZIONI DELLA COOPERAZIONE
Sembra che – finalmente – sia in
corso una riflessione sul ruolo effettivo del volontariato e sulle reali
funzioni della cooperazione sociale.
Le valutazioni del Movi
Com’è stato riportato su questa
rivista, il Movi, Movimento di volontariato italiano,
ha riconosciuto che «troppo spesso
abbiamo rinunciato a difendere i diritti dei più deboli o a denunciare abusi e
ingiustizie al solo scopo di tutelare una convenzione
o un contributo al tavolo di concertazione con l’obiettivo di “portare a casa”
la nostra parte» (1).
L’autocritica di Vinicio Albanesi
Vinicio
Albanesi, responsabile della Comunità di Capodarco di Fermo, una delle
più potenti organizzazioni operanti nel settore sociale del nostro Paese, dopo
aver ricordato (2) che «da oltre trent’anni siamo coinvolti nella politica sociale in
Italia, da quando nel 1977, con la legge 118, si parlò per la prima volta di
handicappati riconosciuti come persone, invece che semplici numeri o individui
da nascondere» (3), riconosce che
«abbiamo commesso un gravissimo errore,
di cui oggi sentiamo le conseguenze negative» essendo «diventati gestori di servizi, senza riuscire ad ottenere un quadro di
riferimento uguale in Italia, caratterizzato da risposte certe, diffuse sul
territorio, di livello minimo garantito» e aggiunge: «Non siamo stati capaci di far crescere la coscienza civile per avere
risposte che non dipendessero, di volta in volta,
dalle disponibilità delle risorse o di qualche amministratore illuminato».
Albanesi
precisa: «Siamo stati membri, superbamente orgogliosi
della nostra risposta precaria, con quattro grandi limiti: abbiamo perduto la
nostra dimensione di coscienza critica e d’inventiva; abbiamo subito “gabbie assistenziali” imposte da altri; abbiamo creato “aziende
sociali”, imbarcando specialisti di ogni genere; siamo stati promotori di un
mercato straccione».
Il responsabile della Comunità di
Capodarco sostiene altresì che «con uno sguardo distaccato, ma sufficientemente lucido, non è
difficile capire che il mondo assistenziale odierno
conserva tutte le caratteristiche di debolezza e instabilità».
Albanesi critica
quindi la scelta gestionale asserendo che «l’approccio
caratteristico della gestione dei servizi non ha portato a leggere i fenomeni
di sofferenza sociale con l’occhio alle cause e alla loro rimozione» per
cui anche se «moltissime leggi, nel
frattempo, sono state scritte e pubblicate» emerge che «in nessun territorio si sa con certezza qual è lo zoccolo duro della
risposta sociale e quali gli attori preposti alla realizzazione: appalti,
convenzioni, pubblico, semipubblico sono diventate modalità senza logica e
senza costrutto».
Il responsabile della Comunità di
Capodarco di Fermo si chiede
inoltre «a che punto è la politica
sociale in Italia» sostenendo quanto segue: «La sensazione che abbiamo è che stiamo
regredendo, e anche velocemente. (…) I problemi sono
stati affrontati per slogan legislativi: tossicodipendenza, immigrazione,
prostituzione, carcere. Importante era rassicurare la
popolazione» con la conseguenza che «in
genere si rimandano alle amministrazioni locali le incombenze di
politica sociale».
Le riflessioni di Giacomo Panizza
Secondo Giacomo Panizza, coordinatore della Comunità Progetto
Sud di Lamezia Terme (4), per intervenire in modo
adeguato per contrastare l’emarginazione dei più deboli «occorre smascherare il bluff di chi opera pensando di contrastare e
superare il disagio considerandolo in sé e per sé, come fosse un’area o una
cosa o un problema circoscrivibile, isolandolo dai contesti e dai molteplici
fattori umani, culturali, economici, sociali, etnici, informativi, psicologici
e così via, che invece entrano in gioco a provocarlo e ridurlo» dichiarando
che «ci sono utili idioti persuasi di poter
curare il disagio delle persone individuandolo in esse, “curando” certe loro
parti cosiddette malate; ci sono anche utili idioti che pensano di sanare certi
disagi sociali stigmatizzandoli in categorie sociali e recintandoli in servizi
apposta per loro che sanno di “fabbriche, scuole e prigioni”, ma relegando “i
disagiati”, le persone concrete in contenitori dell’abbandono chiamati case
della salute o comunità o gruppi-famiglia o con altri eufemismi agendo un controllo sociale legalizzato e remunerato».
Per quanto attiene al terzo
settore, secondo Panizza «è destinato a produrre nessun cambiamento utile alla gente,
all’uguaglianza e alla democrazia se permane nell’alveo tecnico specialistico
di servizi in se stessi di qualità ma senza ricadute di coesione sociale e di
mutamento solidale tra persone e società, istituzioni e raggruppamenti sociali»
e che «sarebbe anche ora di finirla
con il supportare mestieranti del lavoro sociale dedicati alla cura del
disagio, remunerato o gratuito, svenduti al Comune o alla cooperativa senza
capacità di costruire alternative alla vita delle
persone prese in carico».
Le proposte del Movi, di Albanese
e di Panizza
Riportiamo le proposte
alternative avanzate dai soggetti interessati in merito alle autocritiche sopra
riferite.
La
scelta del Movimento volontariato italiano
Poiché gli obiettivi delle
istituzioni «vengono
scelti di frequente a partire non dai bisogni che si leggono ma dai vincoli
posti dai bandi a cui si deve partecipare», il Movi
ritiene che la scelta della gratuità debba significare per il volontariato la
rinuncia «a realizzare servizi sociali
professionali e complessi. Non perché questi non servano,
anzi!» ma perché «è compito delle
istituzioni e delle imprese sociali che possono mettere in gioco risorse
adeguate per pagare i professionisti e per dotarsi dell’organizzazione e delle
attrezzature necessarie».
Affermato quanto sopra, il Movi ricade nella logica della gestione. Infatti
sostiene che «i servizi che da volontari
possiamo curare, limitatamente ad una logica di sperimentazione o per
rispondere ad emergenze sociali, sono quelli che discendono dalla lettura dei
nuovi bisogni del territorio, senza comunque dimenticare di sollecitare la
comunità, ed in particolare i soggetti competenti, a farsene carico e a dare
stabilità alle sperimentazioni che risultano adeguate».
Il Movi
dichiara altresì di voler «partecipare ai
tavoli nei quali si programmano le politiche del welfare
con la determinazione e la libertà che servono per rappresentare i più deboli e
non i nostri servizi o le nostre opere», senza
esplicitare su quali mete intende puntare o non indicando nemmeno gli strumenti
scelti.
L’opinione di Vinicio Albanesi
Dalla lettura del
citato articolo apparso su Il Regno
attualità e Alogon, e di quello pubblicato sul n. 6, 2007
di Terzo settore con il titolo “Gli operatori del non profit ‘utili idioti’?”,
emerge una posizione molto critica di Vinicio Albanesi sul volontariato
gestionale.
Sostiene infatti che «con una
certa preoccupazione, ma sicuro di non essere distante dalla verità, constato
che il cosiddetto mondo non profit sia ormai
marginale rispetto alle politiche sociali» e che «grandi e piccole organizzazioni del cosiddetto mondo non profit (associazioni e organizzazioni di volontariato, enti
gestori) sono ininfluenti nelle scelte di politiche sociali» precisando che
«la trappola della gestione ha tarpato le
ali ad ogni invenzione, riflessione critica, proposta innovativa» per cui «gli enti non profit
sono diventati strutture a funzionamento privato, alla mercè del pubblico».
Dopo aver rilevato che «non possiamo più tacere. Abbiamo
la sensazione di essere diventati i gestori dell’ultimo spicchio della
società: poveri tra poveri, marginali tra marginali», asserisce: «non
vediamo né prospettive né tanto meno progettazioni».
Le
esortazioni di Giacomo Panizza
Il Coordinatore
della Comunità Progetto Sud di Lamezia
Terme dopo aver sostenuto che «occorre
ribellarsi e reagire costruendo non solo prestazioni e servizi sociali rivolti
al disagio ma anche alla normalità» afferma che «l’idea di lottare contro le cause e gli effetti degradanti del disagio
fatica a entrare nell’immaginario collettivo» e che «co-gestendo il disagio si può e si deve
essere utili senza essere idioti».
Allo
scopo Panizza afferma che «chi cura il disagio non può pensare che sta svolgendo una professione
neutra: non lo è operativamente né culturalmente, socialmente né politicamente. Non fa un semplice mestiere, aiuta o imbroglia».
Ne
consegue che «chi cura il disagio deve
discriminare per costruire uguaglianza; deve operare per costruire
cittadinanza; deve far accadere una continua messa in circolo delle risorse
umane, culturali, istituzionali; deve supportare l’autonomia delle persone,
delle famiglie e dei gruppi sociali, specialmente quelli deboli; deve avere di
mira la “salute” e il generale ben-essere della società».
Ciò premesso Giacomo
Panizza asserisce che «nella manciata di iniziative strategiche
attivabili» ritiene praticabili le seguenti:
a) «la responsabilità a prendersi cura del disagio è
pubblica»;
b) «la lotta al disagio deve ridare priorità alle
finalità che le sono proprie, quelle di promozione dell’agio,
e non venire contraffatta in clientele partitiche o resa funzionale a bisogni
occupazionali»;
c) «il disagio va riletto anche con paradigmi di senso e
relazionali», precisando
che «sia il paradigma laico che ritiene
la persona un valore assoluto sia quello religioso che
la ritiene sacra, entrambi richiamano i principi mutuati del motto triadico
dell’illuminismo francese: libertà, uguaglianza, fraternità» e che «la stessa Costituzione italiana mette
libertà e uguaglianza a carico della solidarietà obbligata quando proclama di
dover garantire la scuola per tutti, la salute pubblica, i diritti , eccetera»;
d) «il terzo settore si prende cura del disagio e dei diritti-doveri di
cittadinanza». A
questo riguardo Panizza puntualizza che il terzo
settore deve risolvere «al suo interno il
conflitto fra l’ala movimentista che sostiene la
voglia di rilancio della sua soggettività sociale e l’ala gestionale
che sostiene invece la miriade di piccole e medie aziende di lavoro sociale che
si guadagnano il pane sull’indotto esternalizzato
dell’azienda Stato-Comuni-Distretti».
Alcune considerazioni
Pur rispettando le
posizioni altrui, si può affermare che, mentre sembrano assai generici i
proponimenti del Movi, la posizione espressa da
Albanesi negli articoli citati, sia di sfiducia sulle concrete possibilità di interventi volti ad ottenere cambiamenti significativi a
favore della fascia più debole della popolazione.
Per quanto riguarda
le proposte di Panizza, esse sono sostanzialmente
incentrate su una inversione di campo delle scelte
degli operatori dei settori pubblico e privato.
A questo proposito
riteniamo che non sia ipotizzabile che il personale dei servizi possa
costituire una forza tale da poter apportare modifiche
sostanziali alle linee operative decise dai loro datori di lavoro: Regioni,
Comuni, Asl, Province e altri enti pubblici.
Ovviamente non si
può pretendere da nessuno, pertanto nemmeno dal personale dei servizi pubblici
e privati, di rischiare la perdita del posto di lavoro, così come non si può
chiedere alle aziende, comprese le cooperative sociali, di assumere iniziative
che ostacolino o impediscano la possibilità di
ottenere appalti e convenzioni, e cioè le condizioni indispensabili per la loro
sopravvivenza e per garantire il posto di lavoro dei propri operatori.
gestione di servizi
o promozione di diritti delle persone incapaci di
autodifendersi
Da anni su Prospettive
assistenziali e nella concreta attività svolta dal
Csa e dalle 23 organizzazioni aderenti è stato più
volte ribadito che la gestione dei servizi è per la sua natura, e non per le
possibili eventuali carenze dei responsabili e del personale addetto,
assolutamente incompatibile con la promozione dei diritti delle persone
incapaci di autodifendersi e con le iniziative volte alla lotta contro le cause
dell’emarginazione sociale.
Come ha giustamente osservato l’On. Domenico
Rosati, già Presidente nazionale delle Acli, la
scelta della gestione determina per forza di cose, anche per le
organizzazioni di volontariato, la loro sudditanza nei confronti delle
istituzioni. Infatti «il volontariato anziché operare su autonomi progetti, realizza servizi
per conto del “pubblico”, in regime di contributo e di convenzione. Così
diventa indispensabile per il pubblico, ma reciprocamente non può farne a meno»
(5).
In buona sostanza continua e continuerà a valere, anche
nella gestione dei servizi, il vecchio e sempre attuale principio: «Comanda chi paga».
È inoltre ovvio che le istituzioni pubbliche e private
che appaltano servizi a terzi, si tratti di gruppi di volontariato, di
cooperative sociali o di altre organizzazioni,
impongono le loro linee operative.
Ne consegue, altresì, che coloro che
non accettano le posizioni degli enti appaltanti, vengono esclusi
dall’assegnazione di altre attività e non ottengono il reincarico dei compiti
svolti in precedenza.
Dunque, salvo casi del tutto eccezionali (di cui non mi risulta esistano prove documentate), la gestione e la
cogestione dei servizi sono nei fatti contrastanti con le attività volte alla
promozione dei diritti, soprattutto quelli non riconosciuti dalle disposizioni
in vigore (6).
Negli anni ’70 è stato molto attivo il dibattito
concernente la gestione, la cogestione e la partecipazione diretta alla promozione dei diritti della fascia più debole della
popolazione e già allora ne erano emerse profonde differenze, nonché i rischi
derivanti dalle iniziative volte alla cattura del consenso delle forze sociali
da parte delle istituzioni (7).
Com’è noto a partire dagli anni
’80 si è verificata un bruciante caduta della partecipazione provocata in primo
luogo dal cambiamento di posizione dei partiti della sinistra nei confronti dei
movimenti di base, l’ingabbiamento di numerosi
attivisti negli organismi di cogestione (organi collegiali scolastici, consigli
di gestione degli asili nido, ecc.), nonché la scarsa consapevolezza da parte
di molti gruppi di base del fatto che la lotta contro l’emarginazione sociale
non solo richiede nella situazione attuale tempi assai lunghi, ma molto
probabilmente si tratta addirittura di un problema permanente.
Occorre, altresì, ricordare che nefaste conseguenze sono
state causate – e continuano a provocare pesanti effetti negativi –
dall’accettazione (e in certi casi addirittura ci sono state manifestazioni di
sostegno!) da parte di quasi tutte le organizzazioni di volontariato nei
confronti dei contenuti della legge 328/2000 di riforma dell’assistenza,
nonostante che non sancisca alcun diritto esigibile a favore della fascia più
debole della popolazione e non tenga nemmeno conto del diritto al ricovero assistenziale degli inabili al lavoro (minori, soggetti con
handicap, anziani) privi dei mezzi indispensabili per vivere, sancito dagli
articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931, tuttora in vigore.
Inoltre – fatto gravissimo – la legge 328/2000
conferma (cfr. il 5°
comma dell’articolo 8) l’assurda discriminazione fra i bambini nati nel
matrimonio e quelli venuti alla luce al di fuori di esso per cui l’assistenza
dei primi è attribuita ai Comuni, mentre quella ai secondi resta alle Province
o può essere assegnata dalle Regioni ai Comuni o ad altri enti locali.
Infine la suddetta legge nulla di concreto ha stabilito
nei riguardi dei sostegni da approntare a favore delle gestanti e madri in
condizioni di disagio socio-economico al fine della massima
responsabilizzazione circa il riconoscimento o meno dei loro nati, per
cui la legge nazionale di riferimento continua ad essere la n. 2838 del 1928
(8).
Che cosa si può fare per il rispetto delle esigenze essenziali di soggetti deboli
Alla luce delle esperienze vissute, è noto che non è
sufficiente la buona volontà degli amministratori pubblici e dei gestori dei
servizi privati per ottenere il riconoscimento delle esigenze fondamentali
della fascia più debole della popolazione e in particolare di coloro che non sono più in grado di autodifendersi.
I livelli delle pensioni da fame degli invalidi totali
(260 euro mensili), le dimissioni selvagge degli anziani cronici non
autosufficienti da ospedali e da case di cura private nonostante le leggi
vigenti da oltre mezzo secolo (la prima, la n. 692 risale al 1955) prevedano le cure sanitarie senza limiti di durata, la già
ricordata “dimenticanza” da parte dei Comuni delle norme che li obbligano a
provvedere al ricovero degli inabili al lavoro (articoli 154 e 155 del regio
decreto 773 del 1931), le inaccettabili carenze degli interventi domiciliari
sanitari e socio-assistenziali ed i conseguenti ricoveri in istituto che spesso
determinano costi più elevati a carico del settore pubblico sono prove
inconfutabili (e gli esempi potrebbero riguardare numerose altre situazioni) di
emarginazione non casuale e dimostrano quali siano gli effetti nefasti della
violazione dei diritti basilari che, non dimentichiamolo mai, possono colpire
anche all’improvviso ciascuno di noi.
Concordiamo con Panizza sul
fatto che «stiamo attraversando una crisi
strutturale e non passeggera», che «nelle
crisi il peso del disagio cade doppiamente su chi già è debole e diminuisce le
risorse a disposizione di chi lo cura» e che «la responsabilità di garantire servizi efficaci rimane di livello
politico».
Non si ritiene, invece, che il terzo settore e qualsiasi
altro organismo coinvolto nella gestione dei servizi, per i motivi esposti in
precedenza, abbia la possibilità di «trovare motivazioni e strumenti per
riavviare una nuova stagione di espansione dei diritti di cittadinanza»
come spera Panizza.
D’altra parte, in tutti i casi noti, gli operatori che
hanno assunto iniziative pubbliche per denunciare le carenze
dei servizi e le responsabilità degli amministratori pubblici o privati hanno
perso il posto di lavoro o sono stati estromessi dalle attività precedentemente
svolte e assegnati ad altri settori marginali.
È altresì noto che, salvo questioni di secondaria
importanza, gli operatori degli enti pubblici e privati non hanno alcuna
possibilità concreta di modificare gli obiettivi definiti dai loro datori di
lavoro.
Pericoli del volontariato gestionale
Pressati dalle richieste dell’utenza in gravi e urgenti
condizioni di bisogno e dalle informazioni fuorvianti delle istituzioni
riguardanti la mancanza di leggi e/o la carenza di
finanziamenti, può capitare – e spesso purtroppo succede – che vi sono gruppi
di volontariato che assumono decisioni anche molto negative nei confronti delle
migliaia di soggetti interessati e valide solamente, nei casi più favorevoli,
per gli individui nei cui confronti l’iniziativa è già stata presa.
Crediamo che in questa insidia
sia caduta
Da notare che il Comune di Roma ha stanziato a favore
della fondazione di cui sopra la misera somma di 100 mila euro, assolutamente
insufficiente sia per la creazione di una sola comunità alloggio (la somma
occorrente si aggira sui 700-800 mila euro) sia per la sua gestione (per
ciascun soggetto occorrono circa 150 euro al giorno e
cioè circa 55 mila euro all’anno).
È altresì rilevante il fatto che, con la creazione della
fondazione, la popolazione è indotta a ritenere che il Comune di Roma abbia
compiuto un atto positivo, mentre in realtà non ha
rispettato le leggi vigenti nei confronti dei 230 soggetti in lista di attesa e
di quelli che avranno in futuro l’esigenza di essere accolti in una comunità
alloggio.
Del tutto negative, sono inoltre, le informazioni
trasmesse alle istituzioni, alle organizzazioni di volontariato e ai soggetti
con handicap invalidanti e alle loro famiglie.
Il volontariato dei diritti
Anche sulla base delle considerazioni precedenti,
continuiamo a ritenere che il volontariato, per essere efficace, non debba
svolgere alcuna attività gestionale; inoltre occorre
che sia pienamente autonomo – anche sotto il profilo economico – rispetto alle
istituzioni pubbliche e private, al fine di poter operare per la promozione dei
diritti esigibili a favore della fascia più debole della popolazione, in
particolare nei riguardi di coloro che non sono in grado di autotutelare
il proprio benessere (11).
Assumere come riferimento i diritti esigibili concernenti le esigenze di vita significa anche difendere
noi stessi ed i nostri cari qualora, come avviene con una certa frequenza,
succeda anche a noi di dover trascorrere una parte della nostra vita come
individui non autosufficienti.
In un prossimo articolo ci proponiamo di affrontare la
questione delle condizioni indispensabili per consentire ai volontari di poter
rispondere correttamente alle esigenze delle persone incapaci di autodifendersi.
(1) Cfr. l’articolo “L’autocritica del Movi
sulla mancata difesa dei diritti dei più deboli”, Prospettive assistenziali, n. 158,
(2) Cfr. Vinicio Albanesi, “Per non essere ‘utili idioti’
”, Il Regno attualità, n. 12, 2007. L’articolo
è stato integralmente riprodotto anche su Alogon, n. 74, 2007.
(3) un
ruolo positivo per l’approvazione della legge 118/1971 è stato svolto dalle
numerosissime iniziative organizzate per la presentazione con iniziativa
popolare della proposta di legge “Interventi per gli handicappati psichici,
fisici e sensoriali e per i disadattati sociali”, promossa dall’Unione italiana
per la promozione dei diritti del minore, ora Unione per la lotta contro
l’emarginazione sociale. La suddetta proposta è stata presentata al Senato il
21 aprile 1970 con oltre 220 mila firme. Il testo e la relativa relazione sono
pubblicati sul n. 5/6, 1969, di Prospettive
assistenziali.
(4) Cfr. Giacomo Panizza, “Quelli che… al disagio si ribellano”, Alogon, n. 74, 2007.
(5) Cfr. Avvenire, 26 giugno 2002.
(6) Anche l’iniziativa del Partito comunista
italiano fondata sul principio “Partito
di lotta e di governo” era finita con il riconoscimento della sua ingestibilità.
(7) In merito al dibattito su
gestione/partecipazione e alle relative proposte e realizzazioni, si vedano su Prospettive assistenziali i seguenti
articoli: “No delle Acli alla cogestione”, n. 19,
1972; Franco Foschi, “Cogestione e controllo democratico”, n. 21, 1973; Claudio
Ciancio, “Natura, funzione o obbiettivi del Comitato di quartiere Vanchiglia-Vanchiglietta di Torino”, n. 22, 1973; “Accordo
Sindacati-Provincia di Torino sull’assistenza psichiatrica di zona”, n. 23,
1973; “Proposte di legge regionale di iniziativa del Comune di Settimo Torinese
sui servizi sanitari e sociali”, n. 25, 1974; “Bozza di statuto per consorzi intercomunali”, n. 26, 1974;
“Presupposti politici dell’Unità locale dei servizi e breve nota sul servizio
di segretariato sociale” e “ Ridefinizione del
concetto di unità locale alla
luce delle leggi e delle proposte di legge e delle esperienze in atto”, n. 27,
1974; “Programmazione dell’Unità locale dei servizi e degli interventi
alternativi” e Claudio Ciancio, “La partecipazione come controllo democratico”,
n. 29, 1975; “Prime iniziative in merito alla proposta di legge di iniziativa
popolare” (il testo e la relazione della proposta di legge di iniziativa
popolare “Competenze regionali in materia di servizi sociali e scioglimento
degli enti assistenziali” sono riportati nel numero 29 bis, 1975);
“Organizzazione dei servizi sanitari e sociali dell’Unità locale e proposta di
regolamento per un servizio di prevenzione sanitaria e sociale, di cura, di
riabilitazione e di promozione sociale”, “Convegno sui servizi sanitari e
sociali di quartiere”, “L’Unità locale e la riforma sanitaria” e M. Scarcella ed E. Sgroi,
“Partecipazione, apatia e conflitto nei rapporti fra i cittadini-utenti e
istituzioni assistenziali”, n. 30, 1975; “Inserimento di volontari nei servizi
dell’Unità locale” e “Piattaforma presentata dai Sindacati alla Regione
Piemonte, alle Province e ai Comuni sui problemi della sanità e
dell’assistenza”; n. 32, 1975; “Partecipazione reale o semplice organizzazione
del consenso?”, n. 33, 1976; “Scheda sull’Unità locale dei servizi” e “Problemi
aperti e proposte circa la politica locale dei servizi - Contributo alla
seconda legislatura regionale”, n. 34, 1976; “Programmazione partecipata dei
servizi sanitari e socio-assistenziali: un esempio concreto” e Alberto Dragone,
“Decentramento amministrativo e partecipazione: legge nazionale e proposte di
regolamento del Comune di Torino”, n. 35, 1976; “Proposta di intervento nel
campo dei servizi sanitari e socio-assistenziali” e “Obiettivi e metodo di
lavoro della Commissione intercomunale
per gli interventi sociali”, n. 36, 1976; “Libro bianco sull’operato della
Regione Piemonte in materia di sanità, assistenza e formazione di base,
aggiornamento e riqualificazione degli operatori”, n. 36 bis, 1976;
“Emarginazione assistenziale e linee di intervento dell’Anfaa e dell’Unione”,
n. 37, 1977; Alberto Dragone, “ Decentramento, Unità locale dei servizi e
partecipazione: regolamento del Comune di Torino e problemi generali!, n. 39,
1977; “Bozza di proposta di legge regionale di iniziativa popolare
‘Riorganizzazione dei servizi sanitari e assistenziali e costituzione delle
Unità locali di tutti i servizi’ ”, n. 40, 1977;
“Unità locali di tutti i servizi e costituzione dei Consorzi fra Comuni” e
“Proposta di legge regionale di iniziativa popolare”, n. 41, 1978; “Esigenze
degli assistiti e tentativi per il salvataggio degli Enti e delle Ipab”, n. 42, 1978; “Presentata la proposta di legge
regionale piemontese di iniziativa popolare ‘Riorganizzazione dei servizi
sanitari e assistenziali e costituzione delle Unità locali di tutti i servizi’ ”, n. 43, 1978; “Sei piattaforme sugli interventi
per gli handicappati”, n. 46, 1979; “Inaccetabile
l’attuale riorganizzazione del settore assistenziale”, n. 48, 1979.
(8) Per un approfondimento della materia, si veda il
n. 153 bis di Prospettive assistenziali
contenente una sintesi del convegno nazionale di Torino del 21 ottobre 2005 sul
tema “Il diritto di tutti i bambini fin dalla nascita alla famiglia e la
prevenzione dell’abbandono”.
(9) Cfr. No Limits - l’Unità, n. 3, gennaio 2004.
(10) Cfr. Massimo Dogliotti, “I minori, i soggetti con handicap, gli anziani
in difficoltà… ‘pericolosi per l’ordine pubblico’ hanno ancora diritto ad essere assistiti dai
Comuni”, Prospettive assistenziali,
n. 135, 2001.
(11) Circa i risultati ottenuti dal volontariato dei
diritti, si vedano l’editoriale del n. 160, 2007 di Prospettive assistenziali e il volume di Giuseppe D’Angelo, Anna Maria Gallo e Francesco Santanera,
Il volontariato dei diritti - Quarant’anni di esperienze nei settori della sanità e
dell’assistenza, Utet Libreria.