Prospettive assistenziali, n. 162, aprile-giugno 2008
Libri
ANDREA CANEVARO
(a cura di), L’integrazione scolastica
degli alunni con disabilità - Trent’anni di inclusioni nella scuola italiana, Erickson, Gardolo
(Tn), 2007, pag. 490, euro 24,00
Trascorsi trent’anni
dall’entrata in vigore della legge 517/1977 che aprì le porte delle scuole e
classi normali anche ai soggetti con handicap fisico, sensoriale e
intellettivo, l’Autore, docente di pedagogia speciale presso l’Università di
Bologna, ha raccolto numerosi e autorevoli contributi
volti ad esaminare i cambiamenti introdotti dalla nuova impostazione e propone
i possibili miglioramenti alla luce delle numerose e positive esperienze
acquisite.
Nella premessa, Andrea Canavaro
precisa che «gli appunti del passato
possono far capire che l’integrazione non ha riguardato unicamente i soggetti
“speciali”. Ha interessato la formazione attiva, le fonti del sapere, la
collaborazione oltre la scuola. Rappresenta un modello che non è nato come
modello».
Precisa inoltre che dove
l’integrazione è stata condotta in modo corretto «la contemporanea presenza di bambini normali e deficitari
ha provocato reazioni e domande soprattutto nei primi, i quali hanno notato, ad
esempio, la particolare conformazione fisica dei soggetti con sindrome di Down
(protusione della lingua, attaccatura tipica del
pollice, ecc.) e l’assenza, in alcuni casi, del linguaggio. In un primo momento, anche perché non si attendevano domande così
precise, le insegnanti hanno avuto delle esitazioni e hanno
preferito non rispondere. Dopo una riunione, in cui si sono discussi questi
problemi, si è deciso di incentrare la risposta sul concetto di diversità,
spiegando cioè che ogni bambino ha delle proprie
caratteristiche fisiche (colore dei capelli, altezza, ecc.). Allo stesso modo è
stato chiarito che esistono per il linguaggio tappe diverse, sottolineando
tuttavia che l’assenza o la limitazione del linguaggio non implicano una
incapacità di comprensione, per evitare che questi bambini non fossero poi
considerati degli interlocutori. Si è visto in seguito che né l’aspetto fisico,
né la limitazione del linguaggio hanno ostacolato i
rapporti fra i due gruppi: infatti i bambini hanno utilizzato, spesso, per
comunicare schemi gestuali e mimici del tutto spontanei».
In merito all’inadeguatezza delle strutture speciali, Canevaro riferisce in merito ad una esperienza
significativa: «Stefano era un
diciassettenne con sindrome di Down, con un padre invalido, una madre che
faceva pulizie a ore e una sorella più grande che
studiava e lavorava. Di Stefano si sapeva che aveva iniziato a parlare a tre
anni. Con l’uscita dalla scuola speciale, cioè a
sedici anni, era passato a un centro di formazione professionale. Di botto era
migliorato, adottando un tono di comando imperioso e scherzoso insieme, con
modi travolgenti ma anche simpaticamente coinvolgenti, con una carica di
superattivismo burlesco e carico di simpatia. Le note che lo avevano
accompagnato dalla scuola speciale, parlavano di lui come di un bambino (aveva
sedici anni e un fisico di piccola statura ma forte e agile) pauroso e
incapace, che si rifugiava sotto i tavoli se c’era il temporale. Divenne un leader. Fece il falegname e aiutò i suoi genitori con lo
stipendio, meritato, che guadagnava. Andò poi in pensione. Nel frattempo i suoi
genitori erano morti e la sorella si era sposata. Visse vicino alla sorella e
tornò al centro di formazione professionale per dare una mano in alcuni
lavoretti e avere le giornate occupate senza gravare sulla sorella e la sua
famiglia. E morì, con una vita alle spalle laboriosa e
normale».
Di fondamentale importanza le conclusioni di Canevaro: «La suola
dell’integrazione deve operare con altre strutture e in funzione della vita che
va oltre la scuola. (…) La credibilità dell’impegno
nell’integrazione scolastica si realizza nell’impegno per il futuro: la
realizzazione del progetto di vita. (…) L’inclusione è
un diritto fondamentale ed è in relazione con il
concetto di “appartenenza”. Le persone con o senza disabilità possono
interagire come persone alla pari. Un’educazione inclusiva permette alla scuola
regolare di riempirsi di qualità: una scuola dove tutti i bambini sono
benvenuti, dove possono imparare con i propri tempi e soprattutto possono
partecipare, una scuola dove i bambini riescono a comprendere le diversità e
che queste sono un arricchimento. La diversità
diventa, così, normale. E lo stesso per il lavoro, per i
trasporti, per la vita sociale e culturale. Scopo dell’inclusione è
quello di rendere possibile, per ogni individuo, l’accesso alla vita “normale”
per poter crescere e svilupparsi totalmente».
ZYGMUT BAUMAN, Homo consumens - Lo sciame inquieto dei
consumatori e le miserie degli esclusi,
Erickson, Gardolo (Tn), 2007, pag. 101, euro 10,00
Come rileva Mauro Magatti
nella presentazione, il filo conduttore del volume riguarda «il modello di vita sociale che si è andato
affermando in Occidente negli ultimi anni» caratterizzato «dalla centralità dell’agire di consumo
piuttosto che dall’agire di lavoro».
Secondo Bauman, noto sociologo
polacco «la nostra società promuove e
incoraggia il consumismo e non accetta facilmente sistemi alternativi» per cui «l’adesione
incondizionata ai precetti consumistici è la sola scelta possibile e l’unica che può procurare il certificato di
idoneità, cioè di non-esclusione».
Recita, inoltre, che «la
società contemporanea, a differenza delle precedenti, si rivolge ai suoi membri
in quanto consumatori e solo secondariamente in quanto produttori».
Pertanto «per
essere riconosciuti pienamente come membri attivi
della società noi dobbiamo rispondete positivamente alla tentazione del mercato
e scongiurare la minaccia della recessione».
Poiché i poveri, a causa dei loro scarsi redditi, non
sono in grado di partecipare alle attuali richieste sociali «quel che definisce povertà, cioè le normalità, al giorno d’oggi non è l’occupazione, ma
la capacità di consumare».
Dunque «i poveri di oggi sono colpevoli di non contribuire al consumo dei
beni, non alla loro produzione (…). Per la prima volta nella storia i poveri
sono diventati un puro e semplice onere sociale, senza alcun merito che possa compensare i loro vizi».
Ne consegue che «non
avendo nulla da offrire, non possono ripagare i servizi che ottengono dalla
società. Sono, quindi, un cattivo investimento, una pura perdita, un buco nero
(…). I poveri sono del tutto inutili e nessuno (o
almeno nessuno che conti e che venga ascoltato) ha bisogno di loro».
Ad avviso di Bauman il
risultato sociale è chiaro e netto: «Tolleranza
zero (…). Il mondo sarebbe un posto migliore senza di loro e poiché i poveri
sono indesiderati e indesiderabili, possono essere abbandonati senza rimorsi».
Un’altra conseguenza dell’attuale caratterizzazione
attribuita ai poveri è individuata dall’Autore nella “mixofobia”
e cioè nella paura di mescolarsi: «I residenti poveri
– quelli che non hanno le risorse per mantenere lo status
materiale e sociale adeguato – vengono considerati una minaccia dai loro vicini
e vengono spinti a spostarsi in zone separate e ghettizzate».
Inoltre, osserva il Bauman «anche i residenti ricchi si riuniscono in
ghetti, cioè in aree privilegiate da cui escludono
tutti gli altri. Essi fanno tutto quello che possono
per separare il loro mondo da quello degli altri abitanti della città,
istituendo di fatto delle zone di extra territorialità. In questo modo si
stabiliscono aree reciprocamente esclusive: i ghetti dei poveri dove i ricchi
non vanno per scelta e i ghetti dei ricchi dove i poveri non hanno il permesso
di andare».
Di enorme importanza le conseguenze
sul piano etico-sociale poiché «più aumenta la separazione territoriale e più le persone si abituano a
stare in un ambiente uniforme, con altri
simili a loro con i quali possono “socializzare” senza sforzi, senza rischio di
fraintendimenti e senza dover fare la fatica di interpretare e comprendere un
diverso modo di intendere la vita, più diventano incapaci di elaborare valori
comuni e di vivere insieme».
A nostro avviso è del tutto insufficiente il giusto
rispetto di «attribuire agli altri lo
stesso sentimento di unicità, dignità e valore» che
viene attribuito al soggetto positivamente inserito nella società e cioè all’homo consumens.
Questo riconoscimento non deve tradursi in attività di
beneficenza, come sembra proporre l’Autore ma sia in
provvedimenti concreti che sanciscano diritti esigibili per i soggetti più
deboli, sia nella creazione da parte dei consumatori che si oppongono alla loro
emarginazione di apposite strutture predisposte alla promozione di detti
diritti e alla loro attuazione.
BLAISE PIERRE
HUMBERT (a cura di), L’attaccamento: dalla teoria alla pratica, Edizioni
Magi, Roma, 2007, pag. 91, euro 12,00
I numerosi contributi degli psicologi, psichiatrici e
psicanalisti (in totale ben diciotto), i cui interventi sono contenuti nel
volume, fanno tutti riferimento alle ricerche condotte da John
Bowlby sul legame che il bambino instaura con la
figura materna «indipendentemente da
qualsiasi gratificazione alimentare» trattandosi di «un bisogno di attaccamento primario, altrettanto vitale del latte
materno».
Secondo Michel Bader, psichiatra di Losanna, Bowlhy
non solo «è stato un pioniere
dell’osservazione del lattante»
ma ha anche «fornito un
contributo fondamentale al lavoro del lutto nel bambino e una migliore
interpretazione della dinamica della separazione e della perdita».
Come rilevano Nicole Guédeney, Martine Morales-Huet, Catherine Rabonam e Philippe Jeammet «gli sviluppi
della teoria dell’attaccamento hanno riguardato in particolare la nozione di
sicurezza del soggetto (…). L’idea di sicurezza dell’attaccamento, che è
specifica in ogni rapporto di attaccamento del bambino
piccolo, traduce l’equilibrio flessibile tra attaccamento (ricerca di vicinanza
in caso di difficoltà) ed esplorazione (andare alla ventura senza paura né
esagerazioni (…). Quando le figure di attaccamento
rispondono ai bisogni, sempre di attaccamento, il sistema può esprimersi
liberamente: si parla di strategia primaria, che corrisponde all’instaurazione
di un attaccamento sicuro. Quando invece i bisogni di attaccamento
non ricevono una risposta adeguata, il bambino costruisce progressivamente
delle strategie condizionali. Esse combinano diverse modalità (alterazione,
regolazione emotiva). Sono delle strategie interpersonali protettive che
definiscono gli attaccamenti insicuri. Queste strategie permettono di mantenere
una vicinanza a distanza tollerabile rispetto alle figure di attaccamento
non disponibili, rifiutanti, inaffidabili e imprevedibili».
Il volume, di cui segnaliamo anche l’intervento di Jean Le Camus “Quale posto per il padre nella teoria
dell’attaccamento?”, consente agli specialisti e a tutte le persone interessate
ad un armonico sviluppo dei bambini, di conoscere i risultati delle più recenti
ricerche scientifiche sulle relazioni figura materna-bambino.
CARLO GABELLI, DONATA GOLLIN (a cura di), Stare
vicino a un malato di Alzheimer: dubbi, domande,
possibili risposte, Il
Poligrafo, Padova, 2006, pag. 237, euro 20,00
LUCIANA QUAIA, Alzheimer e riabilitazione cognitiva: esercizi, attività e progetti per
stimolare la memoria, Carocci Faber,
Roma, 2006, pag. 146, euro 14,10
Gabriele CARBONE, Invecchiamento cerebrale, demenze e malattia di Alzheimer
- Una guida informativa per i familiari e gli operatori con l’elenco delle
Unità valutative Alzheimer, Franco
Angeli, Milano, 2007, pag. 167, euro 18,00
Da anni sono note le conseguenze spesso catastrofiche
della malattia di Alzheimer e delle altre forme di
demenza senile non solo nei confronti della persona malata, ma anche nei
riguardi dei suoi congiunti
Molto spesso sia gli uni che gli
altri sono abbandonati a loro stessi dal Servizio sanitario nazionale
nonostante che le leggi vigenti impongano a detta istituzione di garantire le
necessarie cure sanitarie durante la fase acuta e, senza alcuna interruzione,
le occorrenti prestazioni socio-sanitarie nel corso del periodo della cronicità.
Com’è noto le prestazioni sanitarie si differenziano da
quelle socio-sanitarie solamente per il fatto che mentre le prime sono
totalmente gratuite, le seconde sono praticate con oneri a carico del malato,
che deve corrispondere la quota alberghiera, il cui importo,
ai sensi dell’articolo 54 della legge 289/2002 e del decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2001, non può essere superiore a quello
della quota sanitaria a carico delle Asl.
In molte, troppe parti del nostro Paese, le Asl non rispettano i compiti loro affidati dalla vigente
normativa, in particolare dalla legge 833 del 1978 e
compiti confermati dalle successive disposizioni sopra citate.
È ovvio che ogni sforzo dovrebbe essere messo in atto
perché le persone affette da malattie croniche (e non solo quelle colpite dalla
demenza senile) possano continuare a vivere nel loro nucleo familiare di appartenenza.
Ma non è accettabile – e questo nostro convincimento non
riguarda solo le istituzioni, ma anche le associazioni di tutela dei malati,
gli specialisti e gli operatori – che le Asl ed il
suo personale scarichino sui nuclei familiari le
funzioni ad essi assegnate – lo ripetiamo – dalle vigenti disposizioni di
legge.
Questa pratica è evidentemente la
conseguenza di un deplorevole disinteresse da parte degli enti pubblici (dal
Ministero della sanità alle Regioni e alle Aziende sanitarie), nonché di violazione delle fondamentali norme deontologiche
per quanto concerne il personale sanitario e sociale.
È altresì inammissibile che
questa situazione sia accettata senza alcuna opposizione
delle organizzazioni che asseriscono di tutelare i malati e le loro esigenze.
È quindi assai preoccupante che
nei tre volumi in oggetto non si faccia mai riferimento alle competenze delle Asl concernenti la cura delle persone colpite dalla
patologia di Alzheimer e da altre forme di demenza
senile.
La responsabilità delle cure
domiciliari è una inconvertibile priorità degli
interventi nei confronti di tutti i malati acuti e cronici qualora questa forma
di intervento sia praticabile e cioè risponda ai bisogni del malato, i
congiunti o i soggetti terziali si impegnino ad
assicurare il necessario accudimento del paziente e
siano disponibili a fornire gi occorrenti sostegni domiciliari, vengano
riconosciuti idonei dalle Asl, siano garantiti gli
interventi di emergenza sia nel caso che i congiunti ed i soggetti terzi non
siano più in grado di prestare gli interventi di loro competenza, sia qualora
insorgano esigenze del soggetto che ne impongono il ricovero presso idonee
strutture residenziali.
Inoltre vi è la necessità di
riconoscere agli accuditori il loro ruolo di
volontari familiari e provvedere al rimborso, se del caso forfettario, delle
spese vive da essi sostenute in sostituzione di quelle
a carico del Servizio sanitario.
È inaccettabile che le cure
domiciliari continuino ad essere imposte asserendo che aspetta ai congiunti
provvedervi o non fornendo loro – come nel caso dei volumi sopra citati – le
necessarie informazioni.
Da notare che, mentre lo scarico
ai familiari dei compiti assegnati dalla legge alla sanità rappresenta un
illecito risparmio di circa 1.500 euro al mese
(importo medio della quota sanitaria delle residenze sanitarie assistenziali),
i congiunti sono costretti a sopportare costi non indifferenti per garantire
una presenza 24 ore su 24 per tutti i
giorni dell’anno.
Questi oneri sono rilevanti
soprattutto nei casi in cui i malati hanno superato gli 85-90 anni e quindi
anche i loro coniugi non dispongono più di energie
fisiche sufficienti per provvedere da soli ai loro congiunti.