Prospettive Assistenziali -  n. 163/2008

 EDITORIALE - VIENE FINALMENTE RICONOSCIUTA LA MANCANZA DI DIRITTI ESIGIBILI NELLA LEGGE 328/2000 SULL’ASSISTENZA

 Per gli aderenti al Csa (Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base) e per i componenti della redazione di Prospettive assistenziali è stata una sofferenza lunga e gravosa l’essere rimasti i soli fra i gruppi di base ad affermare, durante il periodo in cui il Parlamento ha discusso la riforma dell’assistenza e anche successivamente, che nel testo in esame non era previsto alcun diritto esigibile a favore della fascia più debole della popolazione, senza nemmeno confermare quelli sanciti alla fine dell’ottocento e dal regime fascista[1].

Il dispiacere era forte anche perché era evidente che sarebbero trascorsi molti anni prima che maturassero le condizioni culturali e politiche indispensabili per una positiva riconsiderazione delle questioni concernenti i diritti della fascia più bisognosa e più debole della popolazione.

Altre preoccupazioni provenivano dalla assoluta assenza di iniziative volte a contrastare i provvedimenti assunti dalle istituzioni (Governo, Parlamento, Corte costituzionale), diretti alla privatizzazione delle Ipab (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza), privatizzazione consistente nella cessione, a titolo assolutamente gratuito, ad organizzazioni private dei loro ingenti patrimoni destinati ai poveri[2].

Da notare che la consistenza dei beni mobili e immobili delle Ipab era stata valutata dall’On. Marisa Galli, nella seduta della Camera dei Deputati del 17 febbraio 1982, in ben 30-40 mila miliardi di lire[3].

Un altro duro colpo ci era stato inferto dalla votazione della Camera dei Deputati che, accogliendo la richiesta dell’allora Ministro per la solidarietà sociale, Livia Turco, nella seduta del 18 gennaio 2000, aveva respinto un emendamento presentato dagli Onorevoli Diego Novelli e Tiziana Valpiana così formulato: «Come stabilito dagli articoli seguenti, gli interventi e servizi sociali si distinguono in obbligatori e facoltativi».

Secondo i presentatori lo scopo era quello di garantire nell’ambito degli interventi obbligatori «i servizi sociali a coloro i quali, se non ricevono anche le prestazioni assistenziali, non possono vivere o sono inevitabilmente condannati all’emarginazione sociale».

L’On. Novelli aveva precisato che «i soggetti che necessitano anche di prestazioni di assistenza sociale sono, fra l’altro, i minori in tutto (figli di ignoti) o in parte privi delle indispensabili cure familiari, gli handicappati intellettivi totalmente o gravemente privi di autonomia e senza alcun valido sostegno familiare, le gestanti e madri in gravi difficoltà personali alle quali va altresì fornita la necessaria consulenza psico-sociale per il loro reinserimento e per il riconoscimento o meno dei loro nati, le persone che vogliono uscire dalla schiavitù della prostituzione, gli ex carcerati ed i loro congiunti, i soggetti senza fissa dimora».

 

I sostenitori dei diritti inesistenti

Alla sofferenza e alle preoccupazioni si è aggiunto lo sconcerto quando abbiamo appreso che alcuni esperti avevano individuato nella legge 328/2000 diritti esigibili, in realtà del tutto inesistenti[4].

Sul numero 14/2000 di Prospettive sociali e sanitarie, commentando il testo trasmesso dalla Camera dei Deputati al Senato, Emanuele Ranci Ortigosa aveva individuato «tra le previsioni più innovative» la «affermazione di un vero e proprio diritto dei cittadini a usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato».

Fra gli aspetti «più innovativi» aveva inoltre segnalato la «ribadita competenza generale dei Comuni per le prestazioni assistenziali», dimenticando che il 5° comma dell’articolo 8 del disegno di legge licenziato dalla Camera dei Deputati (rimasto inalterato nel testo definitivo) prevedeva (e prevede) la conservazione alle Province delle competenze relative all’assistenza, non solo delle gestanti e madri in gravi difficoltà, ma anche – creando una intollerabile discriminazione – dei minori nati fuori del matrimonio[5], nonché dei «ciechi e dei sordi poveri rieducabili»[6].

A sua volta Maurizio Giordano, noto esponente dell’Uneba, sul n. 7-8/2000 della Rivista del volontariato aveva scritto che «il testo che è adesso in esame del Senato [prevede] l’affermazione di un vero e proprio diritto soggettivo del cittadino, come tale esigibile sul piano giurisdizionale, e servizi e prestazioni rientranti tra i “livelli essenziali”»[7].

Imprecisioni e omissioni del tutto analoghe a quelle precedenti, erano state compiute da Paola Rossi, presidente nazionale dell’Ordine degli assistenti sociali, che nel n. 2, aprile-giugno 2000 della rivista Rassegna di servizio sociale, aveva sostenuto che nel testo di riforma dell’assistenza e dei servizi sociali approvato dalla Camera dei Deputati «viene finalmente riconosciuto lo status del cittadino e i diritti che vi si connettono».

Nel n. 3/2000 di Nuova proposta, rivista dell’Uneba, la potente organizzazione cattolica a cui aderiscono centinaia di organizzazioni private e di Ipab, era stato riportato un articolo di Alessia Fossi Fiaschetti in cui, travisando la realtà, aveva sostenuto che nel testo di riforma «si riconoscono alle persone e alle famiglie diritti sociali a fronte dei quali si mettono in campo risposte più adeguate e moderne, più flessibili e personalizzate, fatte di servizi, prestazioni economiche, buoni servizio».

Sulla rivista Cittadini in crescita, n. 1/2000, diretta dal compianto Alfredo Carlo Moro, Franco Della Mura aveva sostenuto che «quando la legge quadro sarà stata approvata, avverrà ciò che con la riforma degli anni settanta era avvenuto per quelli sanitari: l’affermazione dell’esigibilità dei diritti alla risposta dei bisognosi».

Un forte appoggio al testo Turco-Signorino era stato fornito dal settimanale Vita nel numero del 21 aprile 2000: Edoardo Patriarca, portavoce del Forum del terzo settore, aveva rilevato che gli emendamenti presentati dagli On. Novelli e Viapiana alla Camera dei Deputati erano «senza dubbio peggiorativi», senza precisare che lo scopo era quello di rendere esigibili i servizi indispensabili per le persone in reale condizione di bisogno.

Anche il settimanale Avvenimenti aveva pubblicato notizie fuorvianti sul testo di legge. Sul numero del 2-9 gennaio 2000, Franco Marzocchi, altro portavoce del Forum del terzo settore, era giunto a sostenere che il testo all’esame del Parlamento era fondato «sui servizi e sulle prestazioni di assistenza necessari a garantire a tutti un dignitoso livello di assistenza».

A sua volta il Ministro per la solidarietà sociale, on. Livia Turco, aveva rilasciato dichiarazioni gravemente imprecise. Nell’intervista pubblicata su La Stampa del 1° giugno 2000, commentando il testo varato dalla Camera dei Deputati il giorno prima, aveva asserito che «il welfare – dagli asili nido all’assistenza domiciliare per gli anziani, dai centri diurni per gli handicappati alla lotta contro la povertà – non dipende più dalla benevolenza o dall’efficienza dei Comuni. Abbiamo fissati uno standard: servizi che non possono non esserci e che tutti i Comuni devono realizzare con il concorso dello Stato. I diritti sociali sono diventati esigibili per tutti: non è più pensabile che certi servizi, in Italia, siano limitati a un privato che è fatto di lavoro quasi sempre nero e spesso non qualificato»[8].

Anche la Consulta ecclesiale dei servizi socio-assistenziali, di cui facevano parte, fra gli altri, la Caritas italiana, l’Associazione Papa Giovanni XXIII, il Movimento apostolico dei ciechi, la Società di San Vincenzo de’ Paoli, il Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza), la Conferenza nazionale delle misericordie, l’Uneba, non solo non aveva avanzato alcuna obiezione in merito alla mancanza di diritti esigibili a favore delle persone e dei nuclei familiari in gravi condizioni di disagio socio-economico, ma aveva espresso «il generale consenso» al testo di riforma dell’assistenza[9].


I positivi ripensamenti di Emanuele Ranci Ortigosa

Come risulta dall’articolo di Emanuele Ranci Ortigosa “Diritti sociali e livelli assistenziali: una sintesi” e dal volume Diritti sociali e livelli assistenziali delle prestazioni curato dallo stesso Ranci Ortigosa[10], a distanza di ben otto anni dalla promulgazione della legge 328/2000, Prospettive sociali e sanitarie e l’Osservatorio nazionale sull’attuazione della legge 328/2000 hanno finalmente preso atto che il testo di riforma dell’assistenza non prevede alcun diritto esigibile per cui «ritengono che la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali costituisce la priorità fra le azioni che il Governo deve promuovere nel campo delle politiche del welfare».

Allo scopo, dopo aver richiamato quanto previsto dalla lettera m) del 2° comma dell’articolo 117 della Costituzione[11], Ranci Ortigosa sostiene giustamente la necessità che vengano assunte dal Parlamento le occorrenti iniziative per «la definizione dei livelli essenziali e la chiarificazione di diritti e di “prestazioni” atte a garantirli», senza tuttavia ricordare che detti diritti potevano (anzi dovevano) essere previsti dalla legge 328/2000[12].

Un altro ripensamento significativo riguarda il riconoscimento che il settore socio-assistenziale deve intervenire esclusivamente nei confronti dei cittadini che presentano una situazione di bisogno[13].

A questo proposito la principale accusa rivolta dal Csa e da Prospettive assistenziali ai principi generali della legge 328/2000 (cfr. il 2° comma dell’articolo 1) riguardava e riguarda tuttora l’estensione della sua applicabilità a «tutte le attività previste dall’articolo 128 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 112», attività che avrebbero dovuto comprendere tutte le prestazioni sociali gratuite o a pagamento «escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia».

Pertanto, aspetto del tutto illogico, la legge 328/2000 avrebbe dovuto operare non solo nel settore socio-assistenziale, ma anche in quelli riguardanti la scuola, la casa, i trasporti, il tempo libero, ecc.[14].

tuttavia resta ancora aperta la necessità di definire che cosa si intenda per “situazione di bisogno” e quali siano le relative competenze istituzionali a cui il cittadino può far riferimento, argomenti che, nonostante la loro enorme importanza sul piano teorico e sotto il profilo operativo, non sono stati affrontati né nell’articolo di Emanuele Ranci Ortigosa, né dagli autori del citato volume Diritti sociali e livelli esenziali delle prestazioni.

Ad esempio, se si vogliono fornire adeguate prestazioni alle persone colpite da patologie invalidanti e da non autosufficienza, occorre rapportarsi alla primaria competenza sanitaria e non a quella socio-assistenziale[15], in quanto le esigenze primarie riguardano la cura delle malattie, la prevenzione degli aggravamenti e la massima riduzione possibile del dolore.

Per quanto riguarda i soggetti più deboli, il nostro riferimento continua ad essere il principio contenuto nella seconda pagina di copertina di questa rivista secondo cui «solo riconoscendo alle persone incapaci di autodifendersi le stesse esigenze e gli stessi diritti degli altri cittadini, si può vincere l’emarginazione sociale. Eventuali interventi assistenziali devono essere aggiuntivi e non sostitutivi delle prestazioni della sanità, della casa, della scuola e delle altre attività di interesse collettivo».

 

Campo di applicazione dei livelli essenziali di assistenza sociale

Secondo Ranci Ortigosa[16] e l’Osservatorio nazionale la fonte normativa per la definizione dei livelli essenziali di assistenza sociale[17] è il secondo comma dell’articolo 22 della legge 328/2000 che prevede i seguenti interventi: «a) misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento, con particolare riferimento alle persone senza fissa dimora; b) misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone totalmente dipendenti o incapaci di compiere gli atti propri della vita quotidiana; c) interventi di sostegno per i minori in situazioni di disagio tramite il sostegno al nucleo familiare di origine e l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare e per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza; d) misure per il sostegno delle responsabilità familiari, ai sensi dell’articolo 16, per favorire l’armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare; e) misure di sostegno alle donne in difficoltà per assicurare i benefici disposti dal regio decreto-legge 8 maggio 1927, n. 798, convertito dalla legge 6 dicembre 1928, n. 2838, e dalla legge 10 dicembre 1925, n. 2277, e loro successive modificazioni, integrazioni e norme attuative; f) interventi per la piena integrazione delle persone disabili ai sensi dell’articolo 14, realizzazione, per i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, dei centri socio-riabilitativi e delle comunità-alloggio di cui all’articolo 10 della citata legge n. 104 del 1992, e dei servizi di comunità e di accoglienza per quelli privi di sostegno familiare, nonché erogazione delle prestazioni di sostituzione temporanea delle famiglie; g) interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, per l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l’accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali per coloro che, in ragione della elevata fragilità personale o di limitazione dell’autonomia, non siano assistibili a domicilio; h) prestazioni integrate di tipo socio-educativo per contrastare dipendenze da droghe, alcol e farmaci, favorendo interventi di natura preventiva, di recupero e reinserimento sociale; i) informazione e consulenza alla persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi e per promuovere iniziative di auto-aiuto».

Come risulta evidente le suddette attività riguardano non solo, e nemmeno principalmente, il settore socio-assistenziale, ma – se svolte in un modo adeguato e quindi anche non emarginante – concernono soprattutto la sanità[18], la casa, la scuola, la formazione professionale e prelavorativa, i trasporti, nonché gli altri settori sociali (rivolti cioè a tutti i cittadini compresi i soggetti più deboli e indifesi) e il lavoro[19].

Dunque c’è il reale pericolo che le organizzazioni promotrici dell’Osservatorio nazionale sull’attuazione della legge 328/2000 propongano nei fatti la creazione di un ambito socio-assistenziale destinato a tutte le prestazioni occorrenti per i soggetti più indifesi, sottraendo quindi ad essi, in tutto o in parte, il diritto esigibile di beneficiare dei servizi di competenza della sanità e degli altri settori sociali[20].

In questo caso si tratterebbe di una iniziativa che emargina i soggetti più deboli dal vivo del contesto sociale.

 

I livelli essenziali riguardanti le persone non autosufficienti

Nel già citato volume Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni, Cristiano Gori affronta le questioni relative alle persone non autosufficienti ed è stupefacente rilevare come l’Autore non proponga alcuna definizione per precisare detti soggetti: si riferisce ai non autosufficienti totali o parziali e comprende i minorenni?

A nostro avviso si tratta di una carenza gravissima perché non si tiene conto delle differenti esigenze degli individui coinvolti e delle diverse competenze istituzionali che dovrebbero garantire le necessarie prestazioni.

Ne consegue – altro fatto gravissimo – che non vengono analizzati i bisogni delle persone non autosufficienti, né sono individuati i necessari interventi.

Allo scopo di poter intervenire a loro difesa, anni fa il Csa aveva precisato che fra i soggetti non autosufficienti dovevano essere considerate «le persone (non solo anziane, ma anche adulte e giovani) colpite da malattie le cui conseguenze si prolungano nel tempo e determinano limitazioni notevoli della loro autonomia (impossibilità di camminare, incapacità di alimentarsi da sole, incontinenza urinaria e/o sfinterica, ecc.)» aggiungendo che «si tratta dunque di persone che, a causa della gravità delle loro condizioni fisiche e/o psichiche, hanno bisogno di cure e nello stesso tempo non sono in grado di provvedere a se stesse se non con l'aiuto totale e permanente di altri soggetti. Nei casi più gravi il malato cronico non autosufficiente ha bisogno dell'intervento di altre persone per soddisfare esigenze che non è nemmeno in grado di manifestare (fame, sete, caldo, freddo, ecc[21].

Veniva, altresì, puntualizzato che «fra le persone colpite da malattie invalidanti e da non autosufficienza vi sono anche i malati di Alzheimer ed i soggetti sofferenti a causa di altre forme di demenza pre-senile e senile» e che «come è evidente per tutti i cittadini in buona fede, gli anziani cronici non autosufficienti sono individui nei cui confronti, proprio perché si tratta di malati, deve intervenire il Servizio sanitario nazionale e non, come purtroppo avviene, il settore dell'assistenza/beneficenza, poiché non riguarda persone o nuclei familiari in situazione di disagio economico e sociale».

Occorre inoltre considerare che le persone non autosufficienti, soprattutto se anziane, a causa delle loro precarie condizioni di salute, sono più colpite delle altre da patologie acute. Pertanto, allo scopo di evitare trasferimenti costosi per la sanità e spesso traumatici per gli anziani, le Rsa devono essere organizzate, come avviene in Piemonte per quelle gestite dalle Asl, in modo da essere in grado di curare anche le affezioni acute, salvo i rari casi in cui non c’è l’esigenza del ricovero ospedaliero.

A questo riguardo, nell’ottimo documento del Ministero della salute “Prestazioni residenziali e semiresidenziali per gli anziani non autosufficienti” approvato il 30 maggio 2007 dalla Commissione nazionale per la definizione e l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, viene giustamente rilevato che «un anziano affetto da una patologia cronica invalidante non potrà essere definito stabile in senso assoluto» e che «le strutture residenziali devono essere in grado di affrontare la relativa instabilità clinica connessa alla patologia, o polipatologia, che accompagna le condizioni di non autosufficienza nell’anziano, nonché problematiche intercorrenti, anche acute, gestibili in ambiente extra-ospedaliero».

In detto documento viene altresì precisato che «la prestazione “residenziale” non si differenzia necessariamente da quella “ospedaliera” per un minore gradiente di assistenza» in quanto sussistono «condizioni di cronicità che impongono significativi e continui trattamenti di natura sanitaria, anche per il supporto alle funzioni vitali (respirazione, nutrizione), nelle quali il gradiente assistenziale globale richiesto può risultare anche superiore a quello di alcune prestazioni di ricovero in condizioni di acuzie»[22].

Le attività svolte dalle Asl del Piemonte, che gestiscono direttamente Rsa (Residenze sanitarie assistenziali), confermano che è necessario assicurare agli adulti e agli anziani cronici non autosufficienti prestazioni sanitarie di prevenzione dagli aggravamenti e dall’insorgere di altre patologie, di cura, di riabilitazione (quando necessario), nonché interventi volti a ridurre in tutta la misura del possibile il dolore.

Queste attività vanno garantite non solo nelle strutture residenziali, ma anche a livello domiciliare.

Altra preoccupante “dimenticanza” di Cristiano Gori è l’assenza nel suo articolo di riferimenti alle leggi vigenti (la prima, la 692, risale addirittura al 1955 le cui norme sono state confermate dall’articolo 54 della legge 289/2002) che prevedono diritti esigibili a favore di tutti i malati, compresi quelli colpiti da patologie inguaribili e da non autosufficienza[23].

si tratta di diritti facilmente esigibili, com’è dimostrato dalle migliaia di opposizioni alle dimissioni da ospedali e da case di cura private convenzionate presentate dai congiunti di anziani e adulti cronici non autosufficienti (compresi i malati di Alzheimer) che, con la semplice spedizione di quattro raccomandate A/R (costo euro 15,20), ottengono sempre, senza alcuna eccezione, seguendo correttamente le indicazioni del Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti[24], la prosecuzione delle prestazioni sanitarie presso la stessa struttura o il trasferimento a cura e spese dell’Asl in una Rsa[25].

 

I tre gruppi delle persone non autosufficienti

riteniamo che debbano essere considerate non autosufficienti le persone di età superiore ai 18 anni che, come precisa la legge 11 febbraio 1980 n. 18, istitutiva dell’assegno di accompagnamento, «non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di un’assistenza continua»[26].

Sulla base delle nostre esperienze sono tre i gruppi delle persone ultradiciottenni completamente e definitivamente non autosufficienti, portatrici di esigenze e di diritti profondamente differenti[27]:

a) il primo gruppo è costituito da coloro (la stragrande maggioranza) la cui non autosufficienza è causata da malattie, in particolare da ictus, infarti, pluripatologie invalidanti, morbo di Alzheimer e altre forme di demenza senile. Poiché si tratta di malati che alternano fasi acute e croniche, la competenza prioritaria è sicuramente della sanità. La vigente normativa sui Lea (Livelli essenziali di assistenza) stabilisce che questi soggetti hanno il diritto esigibile alle cure sanitarie e socio-sanitarie senza limiti di durata (articolo 54 della legge 289/2002 e decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2001).

Gli interventi devono quindi essere diretti alla cura delle patologie evitando o almeno limitandone l’aggravamento, nonché a prevenire l’insorgere di altre infermità e ad assicurare le opportune prestazioni volte a contrastare il dolore fisico e psichico.

Una specifica attenzione andrebbe rivolta a quei pazienti che non sono in grado di esprimere le loro fondamentali esigenze: fame, sete, caldo, freddo, ecc.;

b) il secondo gruppo è composto dalle persone con gravi handicap di natura intellettiva, e quindi con notevoli difficoltà a segnalare i propri bisogni vitali. Se non vi sono patologie associate, questi soggetti necessitano di essere supportati, soprattutto al termine della scuola dell’obbligo, mediante la frequenza di appositi centri diurni (strutture indispensabili per la loro permanenza in famiglia) o, nei casi di impossibilità della permanenza nella famiglia di origine o affidataria, tramite l’accoglienza presso comunità alloggio di 8-10 posti, essendo sempre sconsigliabile il ricovero in istituti a carattere di internato. In questi casi l’esperienza ormai ultratrentennale dimostra la validità della competenza dei servizi socio-assistenziali, mentre il settore sanitario è tenuto, come per tutti i cittadini, ad intervenire a livello preventivo e nei casi di insorgenza di malattie, oltre che per le attività di accertamento della presenza dell’handicap e del suo livello di gravità. Ai sensi degli ancora vigenti articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 i soggetti con handicap intellettivo invalidante hanno il diritto esigibile di ottenere dai Comuni, su loro richiesta o dei loro tutori o amministratori di sostegno, il ricovero presso strutture residenziali. La retta è a carico dei ricoverati nei limiti delle loro personali risorse economiche ai sensi dei decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, senza alcun onere per i congiunti conviventi o non conviventi;

c) il terzo gruppo comprende i soggetti non in grado di svolgere autonomamente le funzioni essenziali. Tuttavia, essendo integre le loro capacità intellettive, sono capaci di individuare le loro necessità e di informare compiutamente le persone addette al loro sostegno materiale. Com’è noto, gli interventi necessari sono quelli riguardanti la “Vita indipendente”. Al riguardo è molto significativa l’esperienza di Gianni Pellis «tetraplegico dal 1986 con conseguenti gravi limitazioni alla possibilità di essere autosufficiente nello svolgimento delle più essenziali funzioni della vita», che descrive la sua situazione come segue: «Molte azioni della mia giornata, come l’essere alzato e coricato, le operazioni di igiene personale, l’essere imboccato per i pasti, come l’essere accompagnato per gli spostamenti sia in casa che all'esterno, solo per indicare i più importanti bisogni primari, non trovano nessun aiuto o beneficio nemmeno dalla tecnologia più sofisticata»[28]. Sulla base della legge 162/1998, il Cisap, Consorzio intercomunale per i servizi alla persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino), ha predisposto un apposito progetto consentendo al signor Pellis, che viveva da solo, di lavorare presso la ditta Alenia Spazio.

 

Per l’effettiva priorità delle prestazioni domiciliari

Per ottenere un significativo sviluppo delle prestazioni domiciliari riguardanti i soggetti succitati, è indispensabile, a nostro avviso, provvedere al riconoscimento del volontariato intrafamiliare nei confronti dei congiunti, nonché dei conviventi o di terze persone[29].

Dette persone, infatti, svolgono attività di competenza del Servizio sanitario nazionale per quanto concerne gli adulti e gli anziani cronici non autosufficienti e dei Comuni in merito alle prestazioni rivolte agli individui con handicap gravemente invalidanti sul piano intellettivo[30].

ad esse dovrebbe essere fornito un rimborso forfetario delle spese vive sostenute, anche perché non è eticamente corretto che i volontari, garantendo la permanenza in famiglia dei loro congiunti, debbano non solo operare gratuitamente, spesso con pesanti ripercussioni a livello fisico e psichico (si pensi ad esempio a coloro che accolgono i malati colpiti da demenza senile), ma anche sopportare i relativi oneri economici[31]. A questo proposito ricordiamo che, se i malati o le persone con handicap venissero ricoverati, i congiunti non avrebbero alcun obbligo a contribuire economicamente.

D’altra parte la permanenza a domicilio di persone non autosufficienti determina una riduzione, spesso notevole, dei costi a carico del Servizio sanitario nazionale e dei Comuni[32].

 

Ignorata l’esperienza della Regione Piemonte riguardante le persone non autosufficienti

Nell’articolo di Ranci Ortigosa e nel volume Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni non vengono mai citate le iniziative assunte dalla Regione Piemonte a favore dei tre gruppi di persone non autosufficienti, indicate in precedenza.

Questa grave omissione riguarda anche l’articolo di georgia casanova “I fondi regionali per i non autosufficienti” pubblicato sul n. 14, 1°-15 agosto 2008 di Prospettive sociali e sanitarie, in cui viene segnalato che «a fine aprile 2008, sono sei i fondi sulla non autosufficienza già operativi (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Sardegna e Veneto)».

Per quanto riguarda il primo gruppo da noi precedentemente indicato, la delibera della Giunta della Regione Piemonte 30 marzo 2005 n. 17-15226 relativa al nuovo modello integrato di assistenza residenziale socio-sanitaria a favore delle persone anziane non autosufficienti, prevede la creazione del Fondo regionale per la gestione del sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali «finalizzato esclusivamente a concorrere alla copertura della tariffa giornaliera a carico dei cittadini  [non autosufficienti, n.d.r.] la cui situazione reddituale sia tale da non potervi totalmente far fronte».

Circa gli altri oneri, la Regione Piemonte interviene tramite il Fondo regionale relativo alle attività socio-assistenziali, mentre le risorse per le prestazioni sanitarie sono tratte dai finanziamenti relativi al Servizio sanitario regionale.

La creazione di un fondo specifico per gli anziani con malattie invalidanti e da non autosufficienza, di cui ricordiamo nuovamente la notevole frequenza dell’insorgere di patologie acute, significa non riconoscere la condizione di persona malata avente gli stessi diritti alle cure sanitarie degli altri soggetti[33].

Nelle pubblicazioni sopra citate non viene nemmeno ricordato che, mediante la delibera 23 luglio 2007 n. 37/6500, la Giunta regionale del Piemonte ha assegnato la somma di euro 5 milioni agli enti gestori dei servizi socio-assistenziali che, in applicazione dei decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, non richiedono alcun contributo economico ai congiunti, conviventi o non conviventi, degli ultrasessantacinquenni ricoverati presso le Rsa[34], confermando così che in base alle leggi vigenti detti oneri sono a carico dei Comuni e non dei congiunti.

Come per gli adulti e gli anziani non autosufficienti, anche per quanto riguarda le persone del secondo gruppo (e cioè i soggetti con grave handicap intellettivo), occorre evitare la creazione di un fondo specifico che favorirebbe l’emarginazione degli utenti più deboli.

Ad esempio, com’è illogico sottrarre al Servizio sanitario nazionale e al relativo Fondo le competenze che garantiscono le necessarie prestazioni a tutti i malati, compresi quelli non autosufficienti, così è irragionevole togliere competenze e oneri economici ai numerosi settori (casa, istruzione, formazione professionale, lavoro, assistenza, ecc.) i cui interventi rispondono anche alle esigenze degli individui con handicap intellettivo di rilevante entità.

la richiesta delle Regioni, dei Comuni e di altre organizzazioni di finanziamenti aggiuntivi sotto forma di fondi specifici, cela la finalità di escludere dalla piena competenza della sanità i malati cronici non autosufficienti[35] e dai vari settori sopra elencati i soggetti con grave handicap intellettivo.

come era stabilito nel disegno di legge “Delega al Governo a definire un sistema di prestazione sociale per le persone non autosufficienti e di sostegno alla famiglia. Disposizioni in materia di politiche sociali”, predisposto dall’allora Ministro Paolo Ferrero e presentato alla Camera dei Deputati il 3 dicembre 2007, prevedeva l’emarginazione delle persone incapaci di autodifendersi attribuendo al comparto socio-assistenziale competenze spettanti ad altri settori sociali[36]. Si tratta del tentativo di riprodurre situazioni emarginanti presenti nei decenni scorsi, tipiche di quando i malati psichiatrici erano di competenza del settore assistenziale e cioè fino all’entrata in vigore della legge 180/1978.

In merito al secondo gruppo ricordiamo che, anche per le pressioni esercitate dal Csa, la Regione Piemonte ha finora provveduto ai finanziamenti per le persone con handicap intellettivo senza creare alcuna separazione fra gli utenti totalmente non autosufficienti e quelli aventi una limitata autonomia.

Infatti sia gli uni che gli altri sono ammessi negli stessi centri diurni e nelle stesse comunità alloggio. Inoltre l’assistenza economica, gli affidamenti familiari e le altre prestazioni socio-assistenziali sono di competenza dei relativi uffici ed i fondi sono utilizzati da tutti i beneficiari, compresi i soggetti con handicap. Parimenti compete agli assessorati alla casa, ai trasporti, al tempo libero ed agli altri settori sociali intervenire con il proprio personale ed i propri finanziamenti anche in merito alle esigenze delle persone con handicap gravissimi.

Inoltre, è molto positivo l’accordo – che supera correttamente la stessa nozione di non autosufficienza – in base al quale è prevista nella misura dal 50% al 70% la copertura sanitaria della retta di ricovero di tutti i soggetti dichiarati inoccupabili dai competenti servizi per il lavoro. In questo modo si è evitato di porre a carico degli utenti e dei Comuni i costi onerosi previsti dal decreto Berlusconi-Sirchia-Tremonti del 29 novembre 2001.

Infine, con la legge regionale piemontese n. 43/1997, sono state realizzate 35 comunità alloggio socio-assistenziali da 10 posti letto, 19 gruppi appartamento da 4-6 posti letto, 14 edifici con un nucleo residenziale di 10 posti e un centro diurno, 45 centri diurni assistenziali con un massimo di 20 utenti, il che dimostra che le Regioni possono intervenire in modo valido sulla base delle attuali competenze. Anche in questo caso c’è la necessità di finanziamenti aggiuntivi, ma non di fondi specifici[37].

Circa il terzo gruppo segnaliamo le delibere della Giunta della Regione Piemonte n. 32-6868 del 5 agosto 2002 e n. 22-8775 del 25 marzo 2003 riguardanti la sperimentazione su tutto il territorio regionale di progetti di “Vita indipendente”, la n. 48-9266 del 21 luglio 2008 concernente l’approvazione delle linee guida per la predisposizione delle iniziative in materia, nonché la determinazione n. 255 del 6 agosto 2008 in base alla quale sono stati finanziati 174 progetti per l’importo complessivo di euro 2.730.715, 27 prelevati dal Fondo regionale per i servizi socio-assistenziali.

 

Contributi economici posti a carico dei congiunti dei soggetti non autosufficienti

Nell’articolo in oggetto, Cristiano Gori ammette – finalmente – che l’attuale suddivisione dei costi (quota sanitaria interamente a carico della sanità e quota sociale a carico del ricoverato) «produce effetti negativi sulle condizioni economiche di molti utenti e dei loro familiari, poiché la quota sociale comporta una spesa troppo elevata da sostenere», ma dimentica che dal 2001 sono in vigore l’articolo 25 della legge 328/2000 ed i decreti legislativi 109/1998 e 130/2000 in base ai quali è a carico dei Comuni la parte della quota sociale non coperta dalle risorse economiche: nessun contributo economico può essere richiesto ai congiunti degli assistiti, qualora si tratti di ultrasessantacinquenni non autosufficienti o di soggetti con handicap in situazione di gravità.

A nostro avviso non è assolutamente vero, come sostiene Cristiano Gori, che l’ammontare della quota sociale sia troppo elevato; sono invece numerosi i Comuni che non rispettano le sopra citate norme di legge.

A conferma dell’applicabilità delle disposizioni sopra citate, segnaliamo nuovamente i seguenti provvedimenti dell’autorità giudiziaria[38]:

·       sentenza del Giudice di Pace di Bologna n. 3598/2006 del 13 aprile 2006, depositata in Cancelleria il 12 ottobre 2006;

·       sentenza n. 42/2007 della Sezione di Catania del Tar della Sicilia del 6 dicembre 2006, depositata in Cancelleria l’11 gennaio 2007;

·       ordinanza del Tar della Toscana n. 733/2007 del 6 settembre 2007, depositata in Segreteria il 7 settembre 2007;

·       ordinanza del Tar delle Marche n. 521/2007 del 18 settembre 2007;

·       sentenza del Tar della Lombardia n. 291/2008 del 5-19 dicembre 2007 depositata in Segreteria il 7 febbraio 2008;

·       sentenza del Tribunale di Lucca n. 174/2008 del 13 ottobre 2007, depositata in Cancelleria il 1° febbraio 2008;

·       ordinanza del Tar della Toscana n. 43/2008 del 16 gennaio 2008, depositata in Segreteria il 17 gennaio 2008;

·       ordinanza del Tar della Sicilia, sede di Palermo n. 372/2008 del 1° aprile 2008, depositata in Cancelleria il 2 aprile 2008;

·       ordinanza del Tar della Lombardia n. 602/2008 del 16 aprile 2008, depositata in segreteria nella stessa data.

Di particolare rilievo la recente ordinanza del Consiglio di Stato n. 2494/2008 del 16 maggio 2008 che ha respinto il ricorso presentato dal Comune di Firenze contro la sopra citata ordinanza del Tar della Toscana n. 43/2008.

Occorre, altresì, osservare che il Garante per la riservatezza dei dati personali nella Newsletter n. 276 del 12 maggio 2006 ha precisato che i Comuni non possono richiedere dati di alcun genere ai congiunti degli assistiti, qualora si tratti di ultrasessantacinquenni non autosufficienti o di soggetti con handicap in situazione di gravità[39].

Fra le iniziative più deplorevoli, vi sono quelle dei Comuni che, ignorando scientemente le leggi vigenti, impongono ai congiunti degli adulti e degli anziani cronici non autosufficienti (e dei soggetti con gravi handicap intellettivi) di sottoscrivere l’impegno al versamento dell’intera quota alberghiera, quale condizione sine qua non per ammettere il soggetto nella struttura residenziale[40].

Questo preoccupante abuso dovrebbe in primo luogo essere denunciato (che cosa ne pensano i responsabili dell’Osservatorio nazionale sull’attuazione della legge 328/2000?) fornendo la consulenza per le facili contromisure (disdetta delle impegnative assunte nei confronti dei Comuni e richieste agli stessi Comuni di assumere gli oneri economici a loro carico come stabilito dalla normativa in vigore, ecc.)[41].

Fra le illegalità praticate da molti Comuni, c’è anche quella di non considerare le disposizioni relative agli obblighi alimentari nei confronti del coniuge. Ad esempio, nel caso del ricovero del marito, unico percettore di reddito, non vengono applicati gli articoli 143, 147 e 433 del Codice civile in base ai quali questi è tenuto a corrispondere gli alimenti alla moglie, il cui importo va calcolato in modo da garantire la conservazione del tenore di vita precedente al ricovero[42].

Occorre infine rilevare che vi sono alcune Regioni che non rispettano l’articolo 54 della legge 289/2002 e il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2001, in base ai quali la quota sanitaria relativa al ricovero presso Rsa di individui non autosufficienti non può essere inferiore al 50% della retta totale.



[1] Ci riferiamo in particolare:

a)    al regio  decreto 6535/1889 in base al quale erano poste a carico dei Comuni le spese di ricovero degli inabili al lavoro e cioè delle «persone dell’uno e dell’altro sesso, le quali per infermità cronica o per insanabili difetti fisici o intellettuali non possono procacciarsi il modo di sussistenza»;

b)    agli ancora vigenti articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 che, richiamandosi al sopra citato regio decreto, attribuiscono alla pubblica sicurezza il compito di affidare ai Comuni gli inabili al lavoro privi dei mezzi necessari per vivere, affinché li assistano presso istituti di ricovero pubblici o privati.

[2] In base alla legge 6972/1890 i beni ed i redditi delle Ipab dovevano e devono essere destinati esclusivamente a favore delle persone e dei nuclei familiari in gravi condizioni socio-economiche. Inoltre, al fine di evitare la loro dissoluzione, i patrimoni mobiliari e immobiliari non potevano e non possono essere utilizzati per la copertura delle spese di gestione.

[3] La legge 328/2000 ha sottratto alla destinazione della fascia più debole della popolazione patrimoni delle Ipab per un ammontare di 107-140 mila miliardi di lire. Cfr. Maria Grazia Breda, Donata Micucci e Francesco Santanera, La riforma dell’assistenza e dei servizi sociali - Analisi della legge 328/2000 e proposte alternative, Utet Libreria. Nel volume è contenuta (cfr. l’appendice IV) una breve storia delle Ipab. Per un approfondimento in materia si veda il volume di Mario Tortello e Francesco Santanera, L’assistenza espropriata - I tentativi di salvataggio delle Ipab e la riforma dell’assistenza, Nuova Guaraldi Editrice, Firenze.

[4] A nulla sono serviti i seguenti editoriali pubblicati su Prospettive assistenziali con lo scopo di richiamare l’attenzione non solo dei parlamentari, ma anche dei centri di ricerca, delle organizzazioni sindacali e dei gruppi sociali sulla necessità di assicurare diritti esigibili ai soggetti più bisognosi e più deboli, nonché sull’esigenza di evitare la sottrazione ai poveri delle ingenti risorse delle Ipab: “La riforma dell’assistenza all’esame della Camera dei Deputati: una proposta di legge gravemente immorale”, n. 127, 1999; “Il testo di legge sui servizi sociali calpesta le esigenze dei più deboli e ignora la prevenzione dell’emarginazione”, n. 128, 1999; “Cinico no della Camera dei Deputati e del Governo al riconoscimento del diritto esigibile alle prestazioni di assistenza sociale indispensabili per le persone più deboli”, n. 129, 2000; “Scandalosamente iniquo il testo sui servizi sociali approvato dalla Camera dei Deputati: tolti ai più deboli diritti e risorse. Un appello ai Senatori, al Governo e al volontariato”, n. 130, 2000; “Abbondano le notizie false sul testo di riforma dell’assistenza e dei servizi sociali”, n. 131, 2000; “La legge 328/2000, sui servizi sociali è iniqua e truffaldina”, n. 132, 2000.

[5] Per i nati nel matrimonio la competenza era (ed è) dei Comuni. La discriminazione dell’assistenza ai nati fuori del matrimonio può essere conservata dalla Regioni che, ai sensi del sopra citato 5° comma dell’articolo 8 della legge 328/2000, possono tuttora mantenere dette competenze alle Province o trasferirle ai Comuni o, addirittura, ad altri enti locali (ad esempio a Consorzi fra Comuni e Province).

[6] Così definiti dal regio decreto 383/1934.

[7] Da rimarcare che anche nell’articolo di Maurizio Giordano non era stato fatto cenno alcuno alla discriminazione fra l’assistenza ai nati nel e fuori dal matrimonio, nonché alla dispersione dei patrimoni delle Ipab.

[8] Come abbiamo già ricordato, nella seduta del 18 gennaio 2000, il Ministro Livia Turco, prendendo la parola a nome del Governo aveva chiesto (e purtroppo ottenuto), dai Deputati di respingere l’emendamento, presentato dagli on. Novelli e Valpiana, da noi riportato in precedenza, che prevedeva diritti esigibili per le persone in gravi difficoltà.

[9] Cfr. Avvenire del 25 marzo 2000.

[10] Cfr. Prospettive sociali e sanitarie, n. 11/12, 2008. Nell’articolo è riprodotto il primo capitolo del volume Diritti sociali e livelli delle prestazioni, edito da I quid, che raccoglie la ricerca promossa dall’Osservatorio nazionale sull’attuazione della legge 328/2000. Detto Osservatorio è costituito da: Anci (Associazione nazionale Comuni italiani), Cgil, Cisl Uil, Legautonomie, Forum del terzo settore e Upi (Unione Province italiane).

[11] Il secondo comma dell’articolo 117 della Costituzione stabilisce quanto segue: «Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: … m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Dunque, ad eccezione della determinazione di detti livelli nazionali, le Regioni hanno competenza esclusiva in materia di assistenza.

[12] La mancata definizione dei diritti esigibili nella legge 328/2000 ha causato gravi e spesso irreparabili conseguenze negative a decine di migliaia di persone e di nuclei familiari in condizioni di disagio socio-economico.

[13] Dopo aver richiamato il primo comma dell’articolo 38 della Costituzione («Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale»), Ranci Ortigosa afferma che «i livelli essenziali si collocano entro politiche e interventi sociali a carattere universalistico, rivolti cioè a tutta la popolazione che presenta quel bisogno e la necessità di quell’intervento, a prescindere dalle caratteristiche, storie, collocazioni personali e lavorative dei destinatari …».

[14] Il Csa e Prospettive assistenziali avevano preso una chiara e ferma posizione in merito al decreto legislativo 112/1998. Si veda l’editoriale del n. 122, 1998 “Il Governo nega le esigenze e i diritti dei cittadini più deboli: occorre salvare il salvabile a livello parlamentare e aprire vertenze nei confronti delle Regioni e dei Comuni”.

[15] Analoghe considerazioni valgono per gli asili nido (la competenza non dovrebbe essere esercitata dal settore socio-assistenziale ma dall’istruzione, come ha anche affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 370 del 17 dicembre 2003 commentata nell’editoriale del n. 148, 2004 di questa rivista), per la preparazione al lavoro dei soggetti con handicap (materia da assegnare alla formazione professionale), per il sostegno anche economico ai disoccupati e agli inoccupati (attività da conferire al settore lavoro). Prospettive assistenziali, fin dal secondo numero uscito nel 1968, si è sempre adoperata affinché le competenze del settore socio-assistenziale fossero quelle indicate dal primo comma dell’articolo 38 della Costituzione (riportato nella prima parte di questo editoriale). Per un approfondimento, si veda l’articolo di Mauro Perino “Per una corretta ridefinizione del ruolo nel settore socio-assistenziale”, Prospettive assistenziali, n. 154, 2006.

[16] Nell’articolo in oggetto, Emanuele Ranci Ortigosa afferma giustamente che «nessuna norma impedisce a Regioni e Comuni di disciplinare e realizzare loro livelli essenziali, che non avranno ovviamente forza e gli effetti di quelli previsti dalla Costituzione, ma solo quelli degli atti normativi con cui vengono applicati». Purtroppo solo la legge della Regione Piemonte n. 1/2004 prevede diritti esigibili, ma condiziona le relative prestazioni alle «modalità previste dall’ente gestore». Nonostante le numerose iniziative assunta dal Csa, finora hanno recepito la legge suddetta solo due consorzi socio-assistenziali (quello riguardante i Comuni di Collegno e Grugliasco e quello comprendente i Comuni di Beinasco, Bruino, Orbassano, Piossasco, Rivalta e volvera).

[17] Ranci Ortigosa e l’Osservatorio nazionale hanno scelto la denominazione Livelli essenziali delle prestazioni sociali (Leps) favorendo in questo modo la deleteria confusione fra gli interventi sociali (casa, scuola, sanità, ecc.) e quelli socio-assistenziali definiti dal già richiamato primo comma dell’articolo 38 della Costituzione.

[18] Il secondo comma dell’articolo 22 della legge 328/2000 stabilisce che restano ferme «le competenze del Servizio sanitario nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, nonché le disposizioni in materia di integrazione socio-sanitaria di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502», ma è noto che detta norma viene quasi sempre violata per quanto concerne gli adulti e gli anziani cronici non autosufficienti, i malati di Alzheimer, nonché, soprattutto al compimento del sessantacinquesimo anno di età, nei confronti della stragrande maggioranza delle persone colpite da patologie psichiatriche.

[19] La prioritaria competenza dei settori della sanità, della casa, della scuola e degli altri settori sociali appare molto evidente esaminando i vari capitoli del citato volume Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni con particolare riguardo ai capitoli relativi alle politiche di contrasto della povertà, ai servizi essenziali per la prima infanzia e alle prestazioni per le persone non autosufficienti. Tuttavia questa scelta non è espressa dagli Autori.

[20] Per quanto concerne i livelli essenziali, siamo lieti di prendere atto che Emanuele Ranci Ortigosa e l’Osservatorio nazionale hanno assunto come riferimento per la loro definizione i criteri (gli aventi diritto, i soggetti che devono fornire il servizio, il contenuto degli interventi, le modalità organizzative, il luogo di erogazione dei servizi e di presentazione delle relative istanze, i tempi ed i costi) individuati nel volume A scuola di diritti - Come difendersi da inadempienze e abusi della burocrazia socio-sanitaria, di Roberto Carapelle, Giuseppe D’Angelo e Francesco Santanera, edito dall’Utet Libreria nel 2005, anche se questa fonte non viene citata.

[21] Cfr. Francesco Santanera e Maria Grazia Breda, Come difendere i diritti degli anziani malati, Utet Libreria.

[22] Il documento è stato integralmente pubblicato sul n. 159, 2007 di Prospettive assistenziali.

[23] Analoga dimenticanza è riscontrabile nel più volte citato articolo di Emanuele Ranci Ortigosa.

[24] Cfr. il sito www.fondazionepromozionesociale.it

[25] Come risulta anche dalla petizione in corso, il Csa sostiene da anni la priorità delle cure domiciliari. Ad esempio il servizio di ospedalizzazione a domicilio, funzionante ininterrottamente dal 1985 e che finora ha provveduto alla cura di oltre 10mila malati acuti e cronici, è stato istituito a seguito di iniziative congiunte assunte dalla facoltà di geriatria dell’Università di Torino e dal Csa.

[26] Tenuto conto delle condizioni evolutive dei minori, a nostro avviso, appare sconsigliabile l’introduzione di criteri finalizzati al riconoscimento della loro non autosufficienza. Occorrerebbe, invece, prevedere, se necessario con appositi provvedimenti, norme specifiche volte a favorire il loro sviluppo, riconoscendone i relativi diritti esigibili attualmente spesso inesistenti. In particolare è urgente la definizione dei diritti esigibili diretti ad assicurare la crescita in una famiglia, prioritariamente in quella di origine, oppure, a seconda dei casi, in un nucleo adottivo o affidatario.

[27] Si tenga presente che la legge 12 ottobre 2006 n. 296 (Finanziaria 2007) prevede all’articolo 1, comma 1264, l’istituzione del “Fondo per le non autosufficienze” (al plurale) e non, come comunemente si ritiene, il “Fondo per la non autosufficienza” (al singolare).

 

[28] Cfr. l’articolo di Gianni Pellis “L’assistenza personale autogestita: una realtà innovativa per le persone con handicap fisico molto grave”, Prospettive assistenziali n. 137, 2002.

[29] La posizione del Csa in merito alle cure sanitarie domiciliari è precisata, fra i numerosi altri articoli, nell’editoriale del n. 161, 2008 di questa rivista.

[30] Poiché, come segnalato in precedenza, in base agli ancora vigenti articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 i Comuni sono obbligati a provvedere al ricovero in istituto dei soggetti inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere, detti enti dovevano fin dal 1934 e devono tuttora assicurare i necessari finanziamenti, che attualmente dovrebbero essere destinati alle alternative al ricovero e, occorrendo, all’accoglienza presso comunità alloggio di 8-10 posti al massimo. La richiesta avanzata dalle Regioni e dai Comuni allo Stato per l’erogazione di fondi specifici per lo svolgimento di detta attività comprovano il pluridecennale mancato rispetto della legge da parte di quasi tutti i Comuni.

[31] Il diritto dei volontari al rimborso delle spese sostenute è previsto anche dalla legge 266/1991.

[32] Nell’articolo di Mauro Perino, Direttore del Cisap, Consorzio intercomunale dei servizi alla persona di Collegno e Grugliasco “Volontariato intrafamiliare: dalla sperimentazione alla regolamentazione definitiva”, Prospettive assistenziali, n. 144, 2003, viene precisato che l’affido intrafamiliare di cinque soggetti con handicap gravissimo «è risultato conveniente – anche dal punto di vista economico – fin dal primo anno di sperimentazione».

[33] in Piemonte numerose sono le Rsa gestite direttamente dalle Asl.

[34] L’importo della somma stanziata dimostra che le regioni sono sicuramente in grado di sostenere gli oneri dei Comuni riguardanti le somme attualmente pretese – illegalmente – dai congiunti degli ultrasessantacinquenni non autosufficienti ricoverati presso Rsa. Il Csa si sta adoperando per ottenere uno stanziamento (prevedibile in 1-2 milioni di euro all’anno) per un analogo intervento riguardante i parenti degli infrasessantacinquenni malati cronici non autosufficienti ricoverati presso Rsa ed i congiunti dei soggetti assistiti con handicap in situazione di gravità..

[35] Cfr. l’articolo “Inquietanti le delibere delle Regioni Emilia-Romagna e Toscana sulle non autosufficienze”, Prospettive assistenziali, n. 162, 2008.

[36] Si osservi che nelle prime pagine del più volte citato articolo “ Quali livelli essenziali per i non autosufficienti?”, Crisiano Gori cita per oltre trenta volte la parola “assistenza” e quasi mai l’espressione “sanità”. A nostro avviso anche i fondi per la non autosufficienza delle Regioni Emilia-Romagna e Toscana hanno lo scopo di creare le premesse per trasferire all’assistenza il maggior numero possibile di competenze riguardanti le persone non autosufficienti.

[37] Cfr. Maria Grazia Breda “Come affrontare in modo efficace le questioni relative al ‘Dopo di noi’, Prospettive assistenziali, n. 161, 2008.

[38] Le sentenze finora emanate dalla Corte di Cassazione in cui è richiamata la legge 1580/1931 riguardano questioni antecedenti l’entrata in vigore della legge 328/2000. Per quanto riguarda i provvedimenti assunti da alcuni Tribunali, in cui i congiunti sono stati condannati al versamento dell’intera quota alberghiera, va tenuto conto che riguardavano persone che avevano sottoscritto una impegnativa di pagamento, che detto atto non era stato tempestivamente disdetto e che non era stata avanzata una puntuale richiesta al Comune di provvedere alla corresponsione della quota di sua competenza.

[39] Come viene segnalato in questo numero di Prospettive assistenziali nella rubrica “Specchio nero”, è stato presentato in data 17 giugno 2008 un esposto alla Procura di Firenze in merito alla inosservanza da parte di detto Comune delle richieste avanzate dal Garante per la riservatezza dei dati personali.

[40] L’adesione acritica di numerosi assistenti sociali alle illegittime richieste delle istituzioni è un elemento che dovrebbe essere preso in considerazione da coloro che si occupano della formazione degli operatori e della loro tutela sindacale e morale.

[41] Cfr. il sito www.fondazionepromozionesociale.it.

[42] Allo scopo di evitare i ricatti da parte dei Comuni inadempienti, il Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti consiglia ai mariti dei nuclei familiari monoreddito di sottoscrivere la seguente dichiarazione: «Cara moglie, ti confermo quanto concordato e cioè che per il tuo mantenimento puoi prelevare dai miei redditi la somma mensile di euro… a partire dal giorno del mio ricovero presso una struttura residenziale per persone non autosufficienti». È opportuno che sotto la dichiarazione di cui sopra venga apposto un francobollo di euro 0,60 timbrato dall’Ufficio postale in modo da comprovare la data in cui il documento è stato sottoscritto.