Prospettive Assistenziali - n. 163/2008
Il
dispiacere era forte anche perché era evidente che sarebbero trascorsi molti
anni prima che maturassero le condizioni culturali e
politiche indispensabili per una positiva riconsiderazione delle
questioni concernenti i diritti della fascia più bisognosa e più debole della
popolazione.
Altre
preoccupazioni provenivano dalla assoluta assenza di
iniziative volte a contrastare i provvedimenti assunti dalle istituzioni
(Governo, Parlamento, Corte costituzionale), diretti alla privatizzazione delle
Ipab (Istituzioni pubbliche di assistenza e
beneficenza), privatizzazione consistente nella cessione, a titolo
assolutamente gratuito, ad organizzazioni private dei loro ingenti patrimoni
destinati ai poveri[2].
Da
notare che la consistenza dei beni mobili e immobili delle Ipab
era stata valutata dall’On. Marisa Galli, nella seduta della Camera dei
Deputati del 17 febbraio
Un
altro duro colpo ci era stato inferto dalla votazione della Camera dei Deputati
che, accogliendo la richiesta dell’allora Ministro per la solidarietà sociale,
Livia Turco, nella seduta del 18 gennaio 2000, aveva respinto un emendamento
presentato dagli Onorevoli Diego Novelli e Tiziana Valpiana così formulato: «Come stabilito dagli articoli seguenti, gli interventi e servizi
sociali si distinguono in obbligatori e facoltativi».
Secondo
i presentatori lo scopo era quello di garantire nell’ambito degli interventi obbligatori
«i servizi sociali a coloro i quali, se
non ricevono anche le prestazioni assistenziali, non possono vivere o sono
inevitabilmente condannati all’emarginazione sociale».
L’On.
Novelli aveva precisato che «i soggetti
che necessitano anche di prestazioni di assistenza sociale sono, fra l’altro, i
minori in tutto (figli di ignoti) o in parte privi delle indispensabili cure
familiari, gli handicappati intellettivi totalmente o gravemente privi di
autonomia e senza alcun valido sostegno familiare, le gestanti e madri in gravi
difficoltà personali alle quali va altresì fornita la necessaria consulenza
psico-sociale per il loro reinserimento e per il riconoscimento o meno dei loro
nati, le persone che vogliono uscire dalla schiavitù della prostituzione, gli
ex carcerati ed i loro congiunti, i soggetti senza fissa dimora».
I sostenitori dei diritti inesistenti
Alla
sofferenza e alle preoccupazioni si è aggiunto lo sconcerto quando abbiamo
appreso che alcuni esperti avevano individuato nella legge 328/2000 diritti
esigibili, in realtà del tutto inesistenti[4].
Sul
numero 14/2000 di Prospettive sociali e
sanitarie, commentando il testo trasmesso dalla Camera dei Deputati al
Senato, Emanuele Ranci Ortigosa aveva individuato «tra le previsioni più innovative» la «affermazione di un vero e proprio diritto
dei cittadini a usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema
integrato».
Fra
gli aspetti «più innovativi» aveva
inoltre segnalato la «ribadita competenza
generale dei Comuni per le prestazioni assistenziali», dimenticando che il
5° comma dell’articolo 8 del disegno di legge licenziato dalla Camera dei
Deputati (rimasto inalterato nel testo definitivo) prevedeva (e prevede) la
conservazione alle Province delle competenze relative all’assistenza, non solo
delle gestanti e madri in gravi difficoltà, ma anche – creando una intollerabile discriminazione – dei minori nati fuori
del matrimonio[5],
nonché dei «ciechi e dei sordi poveri
rieducabili»[6].
A
sua volta Maurizio Giordano, noto esponente dell’Uneba,
sul n. 7-8/2000 della Rivista del
volontariato aveva scritto che «il
testo che è adesso in esame del Senato [prevede] l’affermazione di un vero e proprio diritto soggettivo del cittadino,
come tale esigibile sul piano giurisdizionale, e servizi e prestazioni
rientranti tra i “livelli essenziali”»[7].
Imprecisioni
e omissioni del tutto analoghe a quelle precedenti, erano state compiute da
Paola Rossi, presidente nazionale dell’Ordine degli assistenti sociali, che nel
n. 2, aprile-giugno 2000 della rivista Rassegna
di servizio sociale, aveva sostenuto che nel testo di riforma
dell’assistenza e dei servizi sociali approvato dalla Camera dei Deputati «viene finalmente riconosciuto lo status del
cittadino e i diritti che vi si connettono».
Nel
n. 3/2000 di Nuova proposta, rivista
dell’Uneba, la potente organizzazione cattolica a cui
aderiscono centinaia di organizzazioni private e di Ipab,
era stato riportato un articolo di Alessia Fossi Fiaschetti in cui, travisando
la realtà, aveva sostenuto che nel testo di riforma «si riconoscono alle persone e alle famiglie diritti sociali a fronte dei quali si mettono in campo risposte più adeguate e
moderne, più flessibili e personalizzate, fatte di servizi, prestazioni
economiche, buoni servizio».
Sulla
rivista Cittadini in crescita, n.
1/2000, diretta dal compianto Alfredo Carlo Moro, Franco Della Mura aveva
sostenuto che «quando la legge quadro
sarà stata approvata, avverrà ciò che con la riforma degli anni settanta era avvenuto per quelli sanitari: l’affermazione
dell’esigibilità dei diritti alla risposta dei bisognosi».
Un
forte appoggio al testo Turco-Signorino era stato fornito dal settimanale Vita nel numero del 21 aprile 2000: Edoardo
Patriarca, portavoce del Forum del terzo settore, aveva rilevato che gli emendamenti
presentati dagli On. Novelli e Viapiana alla Camera
dei Deputati erano «senza dubbio
peggiorativi», senza precisare che lo scopo era quello di rendere esigibili
i servizi indispensabili per le persone in reale condizione di bisogno.
Anche
il settimanale Avvenimenti aveva
pubblicato notizie fuorvianti sul testo di legge. Sul numero del 2-9 gennaio
2000, Franco Marzocchi, altro portavoce del Forum del terzo settore, era giunto
a sostenere che il testo all’esame del Parlamento era fondato «sui servizi e sulle prestazioni di assistenza necessari a garantire a tutti un dignitoso
livello di assistenza».
A
sua volta il Ministro per la solidarietà sociale, on. Livia Turco, aveva rilasciato dichiarazioni gravemente imprecise.
Nell’intervista pubblicata su
Anche
I positivi ripensamenti di Emanuele Ranci Ortigosa
Come
risulta dall’articolo di Emanuele Ranci Ortigosa
“Diritti sociali e livelli assistenziali: una sintesi” e dal volume Diritti sociali e livelli assistenziali
delle prestazioni curato dallo stesso Ranci Ortigosa[10],
a distanza di ben otto anni dalla promulgazione della legge 328/2000, Prospettive sociali e sanitarie e
l’Osservatorio nazionale sull’attuazione della legge 328/2000 hanno finalmente
preso atto che il testo di riforma dell’assistenza non prevede alcun diritto
esigibile per cui «ritengono che la
definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali costituisce
la priorità fra le azioni che il Governo deve promuovere nel campo delle
politiche del welfare».
Allo
scopo, dopo aver richiamato quanto previsto dalla lettera m) del 2° comma
dell’articolo 117 della Costituzione[11],
Ranci Ortigosa sostiene giustamente la necessità che vengano
assunte dal Parlamento le occorrenti iniziative per «la definizione dei livelli essenziali e la
chiarificazione di diritti e di “prestazioni” atte a garantirli», senza
tuttavia ricordare che detti diritti potevano (anzi dovevano) essere previsti
dalla legge 328/2000[12].
Un
altro ripensamento significativo riguarda il riconoscimento che il settore
socio-assistenziale deve intervenire esclusivamente nei confronti dei cittadini
che presentano una situazione di bisogno[13].
A
questo proposito la principale accusa rivolta dal Csa
e da Prospettive assistenziali ai principi
generali della legge 328/2000 (cfr. il 2° comma dell’articolo 1) riguardava e
riguarda tuttora l’estensione della sua applicabilità a «tutte le attività previste dall’articolo 128 del decreto legislativo
31 marzo 1998 n. 112», attività che avrebbero dovuto comprendere tutte le
prestazioni sociali gratuite o a pagamento «escluse
soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario,
nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia».
Pertanto,
aspetto del tutto illogico, la legge 328/2000 avrebbe dovuto operare non solo
nel settore socio-assistenziale, ma anche in quelli riguardanti la scuola, la
casa, i trasporti, il tempo libero, ecc.[14].
tuttavia resta ancora aperta la necessità di definire che
cosa si intenda per “situazione di bisogno” e quali siano le relative
competenze istituzionali a cui il cittadino può far riferimento, argomenti che,
nonostante la loro enorme importanza sul piano teorico e sotto il profilo
operativo, non sono stati affrontati né nell’articolo di Emanuele Ranci Ortigosa, né dagli autori del citato volume Diritti sociali e livelli esenziali delle prestazioni.
Ad
esempio, se si vogliono fornire adeguate prestazioni alle persone colpite da
patologie invalidanti e da non autosufficienza, occorre rapportarsi alla primaria
competenza sanitaria e non a quella socio-assistenziale[15],
in quanto le esigenze primarie riguardano la cura delle malattie, la
prevenzione degli aggravamenti e la massima riduzione possibile del dolore.
Per
quanto riguarda i soggetti più deboli, il nostro riferimento continua ad essere
il principio contenuto nella seconda pagina di copertina di questa rivista
secondo cui «solo riconoscendo alle
persone incapaci di autodifendersi le stesse esigenze e gli stessi diritti
degli altri cittadini, si può vincere l’emarginazione sociale. Eventuali
interventi assistenziali devono essere aggiuntivi e non sostitutivi delle
prestazioni della sanità, della casa, della scuola e delle altre attività di
interesse collettivo».
Campo di applicazione dei livelli essenziali di assistenza
sociale
Secondo
Ranci Ortigosa[16] e
l’Osservatorio nazionale la fonte normativa per la definizione dei livelli
essenziali di assistenza sociale[17] è il secondo comma dell’articolo 22 della legge 328/2000 che
prevede i seguenti interventi: «a) misure
di contrasto della povertà e di sostegno al reddito e servizi di
accompagnamento, con particolare riferimento alle persone senza fissa dimora;
b) misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio
di persone totalmente dipendenti o incapaci di compiere gli atti propri della
vita quotidiana; c) interventi di sostegno per i minori in situazioni di
disagio tramite il sostegno al nucleo familiare di origine e l’inserimento
presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo
familiare e per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza; d)
misure per il sostegno delle responsabilità familiari, ai sensi dell’articolo
16, per favorire l’armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare; e)
misure di sostegno alle donne in difficoltà per assicurare i benefici disposti
dal regio decreto-legge 8 maggio 1927, n. 798, convertito dalla legge 6
dicembre 1928, n. 2838, e dalla legge 10 dicembre 1925, n. 2277, e loro
successive modificazioni, integrazioni e norme attuative; f) interventi per la
piena integrazione delle persone disabili ai sensi dell’articolo 14,
realizzazione, per i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5
febbraio 1992, n. 104, dei centri socio-riabilitativi e delle comunità-alloggio
di cui all’articolo 10 della citata legge n. 104 del 1992, e dei servizi di
comunità e di accoglienza per quelli privi di sostegno familiare, nonché
erogazione delle prestazioni di sostituzione temporanea delle famiglie; g)
interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a
domicilio, per l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie
di accoglienza di tipo familiare, nonché per l’accoglienza e la socializzazione
presso strutture residenziali e semiresidenziali per coloro che, in ragione
della elevata fragilità personale o di limitazione dell’autonomia, non siano
assistibili a domicilio; h) prestazioni integrate di tipo socio-educativo per
contrastare dipendenze da droghe, alcol e farmaci, favorendo interventi di
natura preventiva, di recupero e reinserimento sociale; i) informazione e
consulenza alla persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi e
per promuovere iniziative di auto-aiuto».
Come
risulta evidente le suddette attività riguardano non solo, e nemmeno
principalmente, il settore socio-assistenziale, ma – se svolte in un modo
adeguato e quindi anche non emarginante – concernono soprattutto la sanità[18],
la casa, la scuola, la formazione professionale e prelavorativa,
i trasporti, nonché gli altri settori sociali (rivolti cioè a tutti i cittadini
compresi i soggetti più deboli e indifesi) e il lavoro[19].
Dunque
c’è il reale pericolo che le organizzazioni promotrici dell’Osservatorio
nazionale sull’attuazione della legge 328/2000 propongano nei fatti la
creazione di un ambito socio-assistenziale destinato a tutte
le prestazioni occorrenti per i soggetti più indifesi, sottraendo quindi
ad essi, in tutto o in parte, il diritto esigibile di beneficiare dei servizi
di competenza della sanità e degli altri settori sociali[20].
In
questo caso si tratterebbe di una iniziativa che emargina
i soggetti più deboli dal vivo del contesto sociale.
I livelli essenziali riguardanti le persone non
autosufficienti
Nel
già citato volume Diritti sociali e
livelli essenziali delle prestazioni, Cristiano Gori
affronta le questioni relative alle persone non autosufficienti ed è
stupefacente rilevare come l’Autore non proponga alcuna definizione per
precisare detti soggetti: si riferisce ai non autosufficienti totali o parziali
e comprende i minorenni?
A
nostro avviso si tratta di una carenza gravissima perché non si tiene conto
delle differenti esigenze degli individui coinvolti e delle diverse competenze istituzionali
che dovrebbero garantire le necessarie prestazioni.
Ne
consegue – altro fatto gravissimo – che non vengono analizzati i bisogni delle
persone non autosufficienti, né sono individuati i necessari interventi.
Allo
scopo di poter intervenire a loro difesa, anni fa il Csa
aveva precisato che fra i soggetti non autosufficienti dovevano essere
considerate «le persone (non solo anziane, ma anche adulte e giovani) colpite da malattie
le cui conseguenze si prolungano nel tempo e determinano limitazioni notevoli
della loro autonomia (impossibilità di camminare, incapacità di alimentarsi da
sole, incontinenza urinaria e/o sfinterica, ecc.)» aggiungendo che «si tratta dunque di persone che, a causa
della gravità delle loro condizioni fisiche e/o psichiche, hanno bisogno di
cure e nello stesso tempo non sono in grado di provvedere a se stesse se non
con l'aiuto totale e permanente di altri soggetti. Nei casi più gravi il malato
cronico non autosufficiente ha bisogno dell'intervento di altre persone per
soddisfare esigenze che non è nemmeno in grado di manifestare (fame, sete, caldo, freddo, ecc.»[21].
Veniva,
altresì, puntualizzato che «fra le
persone colpite da malattie invalidanti e da non autosufficienza vi sono anche
i malati di Alzheimer ed i soggetti sofferenti a causa di altre forme di
demenza pre-senile e senile» e che «come
è evidente per tutti i cittadini in buona fede, gli anziani cronici non
autosufficienti sono individui nei cui confronti, proprio perché si tratta di
malati, deve intervenire il Servizio sanitario nazionale e non, come purtroppo
avviene, il settore dell'assistenza/beneficenza, poiché non riguarda persone o
nuclei familiari in situazione di disagio economico e sociale».
Occorre
inoltre considerare che le persone non autosufficienti, soprattutto se anziane,
a causa delle loro precarie condizioni di salute, sono più
colpite delle altre da patologie acute. Pertanto, allo scopo di evitare
trasferimenti costosi per la sanità e spesso traumatici per gli anziani, le Rsa devono essere organizzate, come avviene in Piemonte per
quelle gestite dalle Asl, in modo da essere in grado di curare anche le
affezioni acute, salvo i rari casi in cui non c’è l’esigenza del ricovero
ospedaliero.
A questo riguardo,
nell’ottimo documento del Ministero della salute “Prestazioni residenziali e
semiresidenziali per gli anziani non autosufficienti” approvato il 30 maggio
2007 dalla Commissione nazionale per la definizione e l’aggiornamento dei
livelli essenziali di assistenza, viene giustamente rilevato che «un anziano affetto da una patologia cronica
invalidante non potrà essere definito stabile in senso assoluto» e che «le strutture residenziali devono essere in
grado di affrontare la relativa instabilità clinica connessa alla patologia, o polipatologia, che accompagna le condizioni di non
autosufficienza nell’anziano, nonché problematiche intercorrenti, anche acute,
gestibili in ambiente extra-ospedaliero».
In detto documento
viene altresì precisato che «la
prestazione “residenziale” non si differenzia necessariamente da quella
“ospedaliera” per un minore gradiente di assistenza» in quanto sussistono «condizioni di cronicità che impongono
significativi e continui trattamenti di natura sanitaria, anche per il supporto
alle funzioni vitali (respirazione, nutrizione), nelle quali il gradiente
assistenziale globale richiesto può risultare anche superiore a quello di
alcune prestazioni di ricovero in condizioni di acuzie»[22].
Le
attività svolte dalle Asl del Piemonte, che gestiscono direttamente Rsa (Residenze sanitarie assistenziali), confermano che è
necessario assicurare agli adulti e agli anziani cronici non autosufficienti
prestazioni sanitarie di prevenzione dagli aggravamenti e dall’insorgere di
altre patologie, di cura, di riabilitazione (quando necessario), nonché
interventi volti a ridurre in tutta la misura del possibile il dolore.
Queste
attività vanno garantite non solo nelle strutture residenziali, ma anche a
livello domiciliare.
Altra
preoccupante “dimenticanza” di Cristiano Gori è l’assenza nel
suo articolo di riferimenti alle leggi vigenti (la prima, la 692, risale
addirittura al 1955 le cui norme sono state confermate dall’articolo 54 della
legge 289/2002) che prevedono diritti esigibili a favore di tutti i malati,
compresi quelli colpiti da patologie inguaribili e da non autosufficienza[23].
si tratta di diritti facilmente esigibili, com’è dimostrato
dalle migliaia di opposizioni alle dimissioni da ospedali e da case di cura private
convenzionate presentate dai congiunti di anziani e adulti cronici non
autosufficienti (compresi i malati di Alzheimer) che, con la semplice
spedizione di quattro raccomandate A/R (costo euro 15,20), ottengono sempre,
senza alcuna eccezione, seguendo correttamente le indicazioni del Comitato per
la difesa dei diritti degli assistiti[24],
la prosecuzione delle prestazioni sanitarie presso la stessa struttura o il
trasferimento a cura e spese dell’Asl in una Rsa[25].
I tre gruppi delle persone non autosufficienti
riteniamo che debbano essere considerate non autosufficienti
le persone di età superiore ai 18 anni che, come precisa la legge 11 febbraio
1980 n. 18, istitutiva dell’assegno di accompagnamento, «non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita,
abbisognano di un’assistenza continua»[26].
Sulla
base delle nostre esperienze sono tre i
gruppi delle persone ultradiciottenni completamente e definitivamente non
autosufficienti, portatrici di esigenze e di diritti profondamente differenti[27]:
a)
il primo
gruppo è costituito da coloro (la stragrande maggioranza) la cui non
autosufficienza è causata da malattie, in particolare da ictus, infarti, pluripatologie invalidanti, morbo di Alzheimer e altre
forme di demenza senile. Poiché si tratta di malati che alternano fasi acute e
croniche, la competenza prioritaria è sicuramente della sanità. La vigente normativa
sui Lea (Livelli essenziali di assistenza) stabilisce
che questi soggetti hanno il diritto esigibile alle cure sanitarie e
socio-sanitarie senza limiti di durata (articolo 54 della legge 289/2002 e
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2001).
Gli
interventi devono quindi essere diretti alla cura delle patologie evitando o
almeno limitandone l’aggravamento, nonché a prevenire l’insorgere di altre
infermità e ad assicurare le opportune prestazioni volte a contrastare il
dolore fisico e psichico.
Una
specifica attenzione andrebbe rivolta a quei pazienti che non sono in grado di
esprimere le loro fondamentali esigenze: fame, sete, caldo,
freddo, ecc.;
b)
il secondo
gruppo è composto dalle persone con gravi handicap di natura intellettiva,
e quindi con notevoli difficoltà a segnalare i propri bisogni vitali. Se non vi
sono patologie associate, questi soggetti necessitano di essere supportati,
soprattutto al termine della scuola dell’obbligo, mediante la frequenza di
appositi centri diurni (strutture indispensabili per la loro permanenza in
famiglia) o, nei casi di impossibilità della permanenza nella famiglia di
origine o affidataria, tramite l’accoglienza presso comunità alloggio di 8-10
posti, essendo sempre sconsigliabile il ricovero in istituti a carattere di
internato. In questi casi l’esperienza ormai ultratrentennale dimostra la
validità della competenza dei servizi socio-assistenziali, mentre il settore
sanitario è tenuto, come per tutti i cittadini, ad intervenire a livello
preventivo e nei casi di insorgenza di malattie, oltre che per le attività di
accertamento della presenza dell’handicap e del suo livello di gravità. Ai sensi degli ancora vigenti articoli 154 e 155 del regio
decreto 773/1931 i soggetti con handicap intellettivo invalidante hanno il
diritto esigibile di ottenere dai Comuni, su loro richiesta o dei loro tutori o
amministratori di sostegno, il ricovero presso strutture residenziali. La retta
è a carico dei ricoverati nei limiti delle loro personali risorse economiche ai
sensi dei decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, senza alcun onere per i
congiunti conviventi o non conviventi;
c) il terzo gruppo comprende i soggetti
non in grado di svolgere autonomamente le funzioni essenziali. Tuttavia,
essendo integre le loro capacità intellettive, sono capaci di individuare le
loro necessità e di informare compiutamente le persone addette al loro sostegno
materiale. Com’è noto, gli interventi necessari sono quelli riguardanti la “Vita
indipendente”. Al riguardo è molto significativa l’esperienza di Gianni Pellis «tetraplegico
dal 1986 con conseguenti gravi limitazioni alla possibilità di essere autosufficiente nello svolgimento
delle più essenziali funzioni della
vita», che descrive la sua situazione come segue: «Molte azioni della mia giornata, come l’essere alzato e coricato, le
operazioni di igiene personale, l’essere imboccato per i pasti, come l’essere
accompagnato per gli spostamenti sia in casa che all'esterno, solo per indicare i più importanti bisogni
primari, non trovano nessun aiuto o
beneficio nemmeno dalla tecnologia più sofisticata»[28].
Sulla base della legge 162/1998, il Cisap, Consorzio
intercomunale per i servizi alla persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco
(Torino), ha predisposto un apposito progetto consentendo al signor Pellis, che viveva da solo, di lavorare presso la ditta
Alenia Spazio.
Per l’effettiva priorità delle
prestazioni domiciliari
Per ottenere un significativo sviluppo delle prestazioni
domiciliari riguardanti i soggetti succitati, è indispensabile, a nostro
avviso, provvedere al riconoscimento del volontariato intrafamiliare
nei confronti dei congiunti, nonché dei conviventi o di terze persone[29].
Dette persone, infatti, svolgono attività di competenza
del Servizio sanitario nazionale per quanto concerne gli adulti e gli anziani
cronici non autosufficienti e dei Comuni in merito alle prestazioni rivolte agli
individui con handicap gravemente invalidanti sul piano intellettivo[30].
ad esse dovrebbe
essere fornito un rimborso forfetario delle spese vive sostenute, anche perché
non è eticamente corretto che i volontari, garantendo la permanenza in famiglia
dei loro congiunti, debbano non solo operare gratuitamente, spesso con pesanti
ripercussioni a livello fisico e psichico (si pensi ad esempio a coloro che
accolgono i malati colpiti da demenza senile), ma anche sopportare i relativi oneri
economici[31]. A questo proposito ricordiamo
che, se i malati o le persone con handicap venissero ricoverati, i congiunti
non avrebbero alcun obbligo a contribuire economicamente.
D’altra parte la permanenza a domicilio di persone non
autosufficienti determina una riduzione, spesso notevole, dei costi a carico del
Servizio sanitario nazionale e dei Comuni[32].
Ignorata l’esperienza della Regione
Piemonte riguardante le persone non autosufficienti
Nell’articolo di Ranci Ortigosa
e nel volume Diritti sociali e livelli
essenziali delle prestazioni non vengono mai citate le iniziative assunte dalla
Regione Piemonte a favore dei tre gruppi di persone non autosufficienti, indicate
in precedenza.
Questa grave omissione riguarda anche l’articolo di georgia casanova “I fondi regionali per i non autosufficienti”
pubblicato sul n. 14, 1°-15 agosto 2008 di Prospettive
sociali e sanitarie, in cui viene segnalato che «a fine aprile 2008, sono sei i fondi sulla non autosufficienza già
operativi (Emilia Romagna, Friuli
Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Sardegna e Veneto)».
Per quanto riguarda il primo gruppo da noi precedentemente indicato, la delibera della
Giunta della Regione Piemonte 30 marzo 2005 n. 17-15226 relativa al nuovo
modello integrato di assistenza residenziale socio-sanitaria a favore delle
persone anziane non autosufficienti, prevede la creazione del Fondo regionale
per la gestione del sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali «finalizzato esclusivamente a concorrere
alla copertura della tariffa giornaliera a carico dei cittadini [non autosufficienti, n.d.r.]
la cui situazione reddituale sia tale da
non potervi totalmente far fronte».
Circa gli altri oneri,
La creazione di un fondo specifico per gli anziani con malattie
invalidanti e da non autosufficienza, di cui ricordiamo nuovamente la notevole
frequenza dell’insorgere di patologie acute, significa non riconoscere la
condizione di persona malata avente gli stessi diritti alle cure sanitarie degli
altri soggetti[33].
Nelle pubblicazioni sopra citate non viene nemmeno
ricordato che, mediante la delibera 23 luglio 2007 n. 37/6500,
Come per gli adulti e gli anziani non autosufficienti,
anche per quanto riguarda le persone del secondo gruppo (e cioè i soggetti con
grave handicap intellettivo), occorre evitare la creazione di un fondo
specifico che favorirebbe l’emarginazione degli utenti più deboli.
Ad esempio, com’è illogico sottrarre al Servizio sanitario
nazionale e al relativo Fondo le competenze che garantiscono le necessarie
prestazioni a tutti i malati, compresi quelli non autosufficienti, così è
irragionevole togliere competenze e oneri economici ai numerosi settori (casa,
istruzione, formazione professionale, lavoro, assistenza, ecc.) i cui interventi
rispondono anche alle esigenze degli individui con handicap intellettivo di
rilevante entità.
la richiesta
delle Regioni, dei Comuni e di altre organizzazioni di finanziamenti aggiuntivi
sotto forma di fondi specifici, cela la finalità di escludere dalla piena
competenza della sanità i malati cronici non autosufficienti[35]
e dai vari settori sopra elencati i soggetti con grave
handicap intellettivo.
come era stabilito
nel disegno di legge “Delega al Governo a definire un sistema di prestazione
sociale per le persone non autosufficienti e di sostegno alla famiglia.
Disposizioni in materia di politiche sociali”, predisposto dall’allora Ministro
Paolo Ferrero e presentato alla Camera dei Deputati il 3 dicembre 2007, prevedeva
l’emarginazione delle persone incapaci di autodifendersi attribuendo al
comparto socio-assistenziale competenze spettanti ad altri settori sociali[36].
Si tratta del tentativo di riprodurre situazioni emarginanti presenti nei
decenni scorsi, tipiche di quando i malati psichiatrici erano di competenza del
settore assistenziale e cioè fino all’entrata in vigore della legge 180/1978.
In merito al secondo
gruppo ricordiamo che, anche per le pressioni esercitate dal Csa,
Infatti sia gli uni che gli altri sono ammessi negli
stessi centri diurni e nelle stesse comunità alloggio. Inoltre l’assistenza
economica, gli affidamenti familiari e le altre prestazioni socio-assistenziali
sono di competenza dei relativi uffici ed i fondi sono utilizzati da tutti i
beneficiari, compresi i soggetti con handicap. Parimenti compete agli
assessorati alla casa, ai trasporti, al tempo libero ed agli altri settori
sociali intervenire con il proprio personale ed i propri finanziamenti anche in
merito alle esigenze delle persone con handicap gravissimi.
Inoltre, è molto positivo l’accordo – che supera correttamente la stessa nozione di non
autosufficienza – in base al quale è prevista nella misura dal 50% al 70% la
copertura sanitaria della retta di ricovero di tutti i soggetti dichiarati inoccupabili dai competenti servizi per il lavoro. In
questo modo si è evitato di porre a carico degli utenti e dei Comuni i costi
onerosi previsti dal decreto Berlusconi-Sirchia-Tremonti
del 29 novembre 2001.
Infine, con la legge regionale piemontese n. 43/1997, sono
state realizzate 35 comunità alloggio socio-assistenziali da 10 posti letto, 19
gruppi appartamento da 4-6 posti letto, 14 edifici con un nucleo residenziale
di 10 posti e un centro diurno, 45 centri diurni assistenziali con un massimo
di 20 utenti, il che dimostra che le Regioni possono intervenire in modo valido
sulla base delle attuali competenze. Anche in questo caso c’è la necessità di
finanziamenti aggiuntivi, ma non di fondi specifici[37].
Circa il terzo
gruppo segnaliamo le delibere della Giunta della Regione Piemonte n. 32-6868
del 5 agosto 2002 e n. 22-8775 del 25 marzo 2003 riguardanti la sperimentazione
su tutto il territorio regionale di progetti di “Vita indipendente”, la n.
48-9266 del 21 luglio 2008 concernente l’approvazione delle linee guida per la
predisposizione delle iniziative in materia, nonché la determinazione n. 255
del 6 agosto
Contributi economici posti a carico dei
congiunti dei soggetti non autosufficienti
Nell’articolo in oggetto, Cristiano Gori
ammette – finalmente – che l’attuale suddivisione dei costi (quota sanitaria
interamente a carico della sanità e quota sociale a carico del ricoverato) «produce effetti negativi sulle condizioni
economiche di molti utenti e dei loro familiari, poiché la quota sociale
comporta una spesa troppo elevata da sostenere», ma dimentica che dal 2001
sono in vigore l’articolo 25 della legge 328/2000 ed i decreti legislativi
109/1998 e 130/2000 in base ai quali è a carico dei Comuni la parte della quota
sociale non coperta dalle risorse economiche: nessun contributo economico può
essere richiesto ai congiunti degli assistiti, qualora si tratti di ultrasessantacinquenni non autosufficienti o di soggetti
con handicap in situazione di gravità.
A nostro avviso non è assolutamente vero, come sostiene
Cristiano Gori, che l’ammontare della quota sociale
sia troppo elevato; sono invece numerosi i Comuni che non rispettano le sopra
citate norme di legge.
A
conferma dell’applicabilità delle disposizioni sopra citate, segnaliamo
nuovamente i seguenti provvedimenti dell’autorità giudiziaria[38]:
·
sentenza del Giudice di Pace di
Bologna n. 3598/2006 del 13 aprile 2006, depositata in Cancelleria il 12
ottobre 2006;
·
sentenza n. 42/2007 della Sezione di Catania
del Tar della Sicilia del 6 dicembre 2006, depositata in Cancelleria l’11
gennaio 2007;
·
ordinanza del Tar della Toscana n.
733/2007 del 6 settembre 2007, depositata in Segreteria il 7 settembre 2007;
·
ordinanza del Tar delle Marche n.
521/2007 del 18 settembre 2007;
·
• sentenza del Tar
della Lombardia n. 291/2008 del 5-19 dicembre 2007 depositata in Segreteria il
7 febbraio 2008;
·
sentenza del Tribunale di Lucca n. 174/2008
del 13 ottobre 2007, depositata in Cancelleria il 1° febbraio 2008;
·
ordinanza del Tar della Toscana n.
43/2008 del 16 gennaio 2008, depositata in Segreteria il 17 gennaio 2008;
·
ordinanza del Tar della Sicilia, sede
di Palermo n. 372/2008 del 1° aprile 2008, depositata in Cancelleria il 2
aprile 2008;
·
• ordinanza del Tar
della Lombardia n. 602/2008 del 16 aprile 2008, depositata in segreteria nella
stessa data.
Di particolare rilievo la recente
ordinanza del Consiglio di Stato n. 2494/2008 del 16 maggio 2008 che ha
respinto il ricorso presentato dal Comune di Firenze contro la sopra citata
ordinanza del Tar della Toscana n. 43/2008.
Occorre,
altresì, osservare che il Garante per la riservatezza dei dati personali nella Newsletter n.
276 del 12 maggio
Fra le iniziative più deplorevoli, vi sono quelle dei Comuni
che, ignorando scientemente le leggi vigenti, impongono ai congiunti degli
adulti e degli anziani cronici non autosufficienti (e dei soggetti con gravi
handicap intellettivi) di sottoscrivere l’impegno al versamento dell’intera
quota alberghiera, quale condizione sine qua non per
ammettere il soggetto nella struttura residenziale[40].
Questo preoccupante abuso dovrebbe in primo luogo essere
denunciato (che cosa ne pensano i responsabili dell’Osservatorio nazionale
sull’attuazione della legge 328/2000?) fornendo la consulenza per le facili
contromisure (disdetta delle impegnative assunte nei confronti dei Comuni e
richieste agli stessi Comuni di assumere gli oneri economici a loro carico come
stabilito dalla normativa in vigore, ecc.)[41].
Fra le illegalità praticate da molti Comuni, c’è anche
quella di non considerare le disposizioni relative agli obblighi alimentari nei
confronti del coniuge. Ad esempio, nel caso del ricovero del marito, unico
percettore di reddito, non vengono applicati gli articoli 143, 147 e 433 del
Codice civile in base ai quali questi è tenuto a
corrispondere gli alimenti alla moglie, il cui importo va calcolato in modo da
garantire la conservazione del tenore di vita precedente al ricovero[42].
Occorre infine rilevare che vi sono alcune Regioni che non
rispettano l’articolo 54 della legge 289/2002 e il decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri del 29 novembre
[1] Ci riferiamo in particolare:
a) al regio decreto 6535/1889 in base al quale erano poste a carico dei Comuni le spese di ricovero degli inabili al lavoro e cioè delle «persone dell’uno e dell’altro sesso, le quali per infermità cronica o per insanabili difetti fisici o intellettuali non possono procacciarsi il modo di sussistenza»;
b) agli ancora vigenti articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 che, richiamandosi al sopra citato regio decreto, attribuiscono alla pubblica sicurezza il compito di affidare ai Comuni gli inabili al lavoro privi dei mezzi necessari per vivere, affinché li assistano presso istituti di ricovero pubblici o privati.
[2] In base alla legge 6972/1890 i beni ed i redditi delle Ipab dovevano e devono essere destinati esclusivamente a favore delle persone e dei nuclei familiari in gravi condizioni socio-economiche. Inoltre, al fine di evitare la loro dissoluzione, i patrimoni mobiliari e immobiliari non potevano e non possono essere utilizzati per la copertura delle spese di gestione.
[3] La legge 328/2000 ha sottratto alla destinazione della fascia più
debole della popolazione patrimoni delle Ipab per un
ammontare di 107-140 mila miliardi di lire. Cfr. Maria Grazia Breda, Donata Micucci e
[4] A nulla sono serviti i seguenti editoriali pubblicati su Prospettive assistenziali con lo scopo di richiamare l’attenzione non solo dei parlamentari, ma anche dei centri di ricerca, delle organizzazioni sindacali e dei gruppi sociali sulla necessità di assicurare diritti esigibili ai soggetti più bisognosi e più deboli, nonché sull’esigenza di evitare la sottrazione ai poveri delle ingenti risorse delle Ipab: “La riforma dell’assistenza all’esame della Camera dei Deputati: una proposta di legge gravemente immorale”, n. 127, 1999; “Il testo di legge sui servizi sociali calpesta le esigenze dei più deboli e ignora la prevenzione dell’emarginazione”, n. 128, 1999; “Cinico no della Camera dei Deputati e del Governo al riconoscimento del diritto esigibile alle prestazioni di assistenza sociale indispensabili per le persone più deboli”, n. 129, 2000; “Scandalosamente iniquo il testo sui servizi sociali approvato dalla Camera dei Deputati: tolti ai più deboli diritti e risorse. Un appello ai Senatori, al Governo e al volontariato”, n. 130, 2000; “Abbondano le notizie false sul testo di riforma dell’assistenza e dei servizi sociali”, n. 131, 2000; “La legge 328/2000, sui servizi sociali è iniqua e truffaldina”, n. 132, 2000.
[5] Per i nati nel matrimonio la competenza era (ed è) dei Comuni. La discriminazione dell’assistenza ai nati fuori del matrimonio può essere conservata dalla Regioni che, ai sensi del sopra citato 5° comma dell’articolo 8 della legge 328/2000, possono tuttora mantenere dette competenze alle Province o trasferirle ai Comuni o, addirittura, ad altri enti locali (ad esempio a Consorzi fra Comuni e Province).
[6] Così definiti dal regio decreto 383/1934.
[7] Da rimarcare che anche nell’articolo di Maurizio Giordano non era stato fatto cenno alcuno alla discriminazione fra l’assistenza ai nati nel e fuori dal matrimonio, nonché alla dispersione dei patrimoni delle Ipab.
[8] Come abbiamo già ricordato, nella seduta del 18 gennaio 2000, il Ministro Livia Turco, prendendo la parola a nome del Governo aveva chiesto (e purtroppo ottenuto), dai Deputati di respingere l’emendamento, presentato dagli on. Novelli e Valpiana, da noi riportato in precedenza, che prevedeva diritti esigibili per le persone in gravi difficoltà.
[9] Cfr. Avvenire del 25 marzo 2000.
[10] Cfr. Prospettive sociali e sanitarie, n. 11/12, 2008. Nell’articolo è riprodotto il primo capitolo del volume Diritti sociali e livelli delle prestazioni, edito da I quid, che raccoglie la ricerca promossa dall’Osservatorio nazionale sull’attuazione della legge 328/2000. Detto Osservatorio è costituito da: Anci (Associazione nazionale Comuni italiani), Cgil, Cisl Uil, Legautonomie, Forum del terzo settore e Upi (Unione Province italiane).
[11] Il secondo comma dell’articolo 117 della Costituzione stabilisce quanto segue: «Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: … m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Dunque, ad eccezione della determinazione di detti livelli nazionali, le Regioni hanno competenza esclusiva in materia di assistenza.
[12] La mancata definizione dei diritti esigibili nella legge 328/2000 ha causato gravi e spesso irreparabili conseguenze negative a decine di migliaia di persone e di nuclei familiari in condizioni di disagio socio-economico.
[13] Dopo aver richiamato il primo comma dell’articolo 38 della
Costituzione («Ogni cittadino inabile al
lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e
all’assistenza sociale»), Ranci Ortigosa afferma
che «i livelli essenziali si collocano entro
politiche e interventi sociali a carattere universalistico, rivolti cioè a
tutta la popolazione che presenta quel bisogno e la necessità di
quell’intervento, a prescindere dalle caratteristiche, storie, collocazioni
personali e lavorative dei destinatari …».
[14] Il Csa e Prospettive assistenziali avevano preso una chiara e ferma posizione in merito al decreto legislativo 112/1998. Si veda l’editoriale del n. 122, 1998 “Il Governo nega le esigenze e i diritti dei cittadini più deboli: occorre salvare il salvabile a livello parlamentare e aprire vertenze nei confronti delle Regioni e dei Comuni”.
[15] Analoghe considerazioni valgono per gli asili nido (la competenza non
dovrebbe essere esercitata dal settore socio-assistenziale ma dall’istruzione,
come ha anche affermato
[16] Nell’articolo in oggetto, Emanuele Ranci Ortigosa afferma giustamente che «nessuna norma impedisce a Regioni e Comuni di disciplinare e realizzare loro livelli essenziali, che non avranno ovviamente forza e gli effetti di quelli previsti dalla Costituzione, ma solo quelli degli atti normativi con cui vengono applicati». Purtroppo solo la legge della Regione Piemonte n. 1/2004 prevede diritti esigibili, ma condiziona le relative prestazioni alle «modalità previste dall’ente gestore». Nonostante le numerose iniziative assunta dal Csa, finora hanno recepito la legge suddetta solo due consorzi socio-assistenziali (quello riguardante i Comuni di Collegno e Grugliasco e quello comprendente i Comuni di Beinasco, Bruino, Orbassano, Piossasco, Rivalta e volvera).
[17] Ranci Ortigosa e l’Osservatorio nazionale hanno scelto la denominazione Livelli essenziali delle prestazioni sociali (Leps) favorendo in questo modo la deleteria confusione fra gli interventi sociali (casa, scuola, sanità, ecc.) e quelli socio-assistenziali definiti dal già richiamato primo comma dell’articolo 38 della Costituzione.
[18] Il secondo comma dell’articolo 22 della legge 328/2000 stabilisce che restano ferme «le competenze del Servizio sanitario nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, nonché le disposizioni in materia di integrazione socio-sanitaria di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502», ma è noto che detta norma viene quasi sempre violata per quanto concerne gli adulti e gli anziani cronici non autosufficienti, i malati di Alzheimer, nonché, soprattutto al compimento del sessantacinquesimo anno di età, nei confronti della stragrande maggioranza delle persone colpite da patologie psichiatriche.
[19] La prioritaria competenza dei settori della sanità, della casa, della scuola e degli altri settori sociali appare molto evidente esaminando i vari capitoli del citato volume Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni con particolare riguardo ai capitoli relativi alle politiche di contrasto della povertà, ai servizi essenziali per la prima infanzia e alle prestazioni per le persone non autosufficienti. Tuttavia questa scelta non è espressa dagli Autori.
[20] Per quanto concerne i livelli essenziali, siamo lieti di prendere atto
che Emanuele Ranci Ortigosa e l’Osservatorio
nazionale hanno assunto come riferimento per la loro definizione i criteri (gli
aventi diritto, i soggetti che devono fornire il servizio, il contenuto degli
interventi, le modalità organizzative, il luogo di erogazione dei servizi e di
presentazione delle relative istanze, i tempi ed i costi) individuati nel
volume A scuola di diritti - Come
difendersi da inadempienze e abusi della burocrazia socio-sanitaria, di
Roberto Carapelle, Giuseppe D’Angelo e
[21] Cfr. Francesco Santanera e Maria Grazia Breda, Come difendere i diritti degli anziani malati, Utet Libreria.
[22] Il documento è stato integralmente pubblicato sul n. 159, 2007 di Prospettive assistenziali.
[23] Analoga dimenticanza è riscontrabile nel più volte citato articolo di Emanuele Ranci Ortigosa.
[24] Cfr. il sito www.fondazionepromozionesociale.it
[25] Come risulta anche dalla petizione in corso, il Csa sostiene da anni la priorità delle cure domiciliari. Ad esempio il servizio di ospedalizzazione a domicilio, funzionante ininterrottamente dal 1985 e che finora ha provveduto alla cura di oltre 10mila malati acuti e cronici, è stato istituito a seguito di iniziative congiunte assunte dalla facoltà di geriatria dell’Università di Torino e dal Csa.
[26] Tenuto conto delle condizioni evolutive dei minori, a nostro avviso, appare sconsigliabile l’introduzione di criteri finalizzati al riconoscimento della loro non autosufficienza. Occorrerebbe, invece, prevedere, se necessario con appositi provvedimenti, norme specifiche volte a favorire il loro sviluppo, riconoscendone i relativi diritti esigibili attualmente spesso inesistenti. In particolare è urgente la definizione dei diritti esigibili diretti ad assicurare la crescita in una famiglia, prioritariamente in quella di origine, oppure, a seconda dei casi, in un nucleo adottivo o affidatario.
[27] Si tenga presente che la legge 12 ottobre
2006 n. 296 (Finanziaria 2007) prevede all’articolo 1, comma 1264,
l’istituzione del “Fondo per le non autosufficienze” (al plurale) e non, come
comunemente si ritiene, il “Fondo per la non autosufficienza” (al singolare).
[28] Cfr. l’articolo di Gianni Pellis “L’assistenza personale autogestita: una realtà innovativa per le persone con handicap fisico molto grave”, Prospettive assistenziali n. 137, 2002.
[29] La posizione del Csa in merito alle cure sanitarie domiciliari è precisata, fra i numerosi altri articoli, nell’editoriale del n. 161, 2008 di questa rivista.
[30] Poiché, come segnalato in precedenza, in base agli ancora vigenti articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 i Comuni sono obbligati a provvedere al ricovero in istituto dei soggetti inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere, detti enti dovevano fin dal 1934 e devono tuttora assicurare i necessari finanziamenti, che attualmente dovrebbero essere destinati alle alternative al ricovero e, occorrendo, all’accoglienza presso comunità alloggio di 8-10 posti al massimo. La richiesta avanzata dalle Regioni e dai Comuni allo Stato per l’erogazione di fondi specifici per lo svolgimento di detta attività comprovano il pluridecennale mancato rispetto della legge da parte di quasi tutti i Comuni.
[31] Il diritto dei volontari al rimborso delle spese sostenute è previsto anche dalla legge 266/1991.
[32] Nell’articolo di Mauro Perino, Direttore del Cisap, Consorzio intercomunale dei servizi alla persona di Collegno e Grugliasco “Volontariato intrafamiliare: dalla sperimentazione alla regolamentazione definitiva”, Prospettive assistenziali, n. 144, 2003, viene precisato che l’affido intrafamiliare di cinque soggetti con handicap gravissimo «è risultato conveniente – anche dal punto di vista economico – fin dal primo anno di sperimentazione».
[33] in Piemonte numerose sono le Rsa gestite direttamente dalle Asl.
[34] L’importo della somma stanziata dimostra che le regioni sono sicuramente in grado di sostenere gli oneri dei Comuni riguardanti le somme attualmente pretese – illegalmente – dai congiunti degli ultrasessantacinquenni non autosufficienti ricoverati presso Rsa. Il Csa si sta adoperando per ottenere uno stanziamento (prevedibile in 1-2 milioni di euro all’anno) per un analogo intervento riguardante i parenti degli infrasessantacinquenni malati cronici non autosufficienti ricoverati presso Rsa ed i congiunti dei soggetti assistiti con handicap in situazione di gravità..
[35] Cfr. l’articolo “Inquietanti le delibere delle Regioni Emilia-Romagna e Toscana sulle non autosufficienze”, Prospettive assistenziali, n. 162, 2008.
[36] Si osservi che nelle prime pagine del più volte citato articolo “ Quali livelli essenziali per i non autosufficienti?”, Crisiano Gori cita per oltre trenta volte la parola “assistenza” e quasi mai l’espressione “sanità”. A nostro avviso anche i fondi per la non autosufficienza delle Regioni Emilia-Romagna e Toscana hanno lo scopo di creare le premesse per trasferire all’assistenza il maggior numero possibile di competenze riguardanti le persone non autosufficienti.
[37] Cfr. Maria Grazia Breda “Come affrontare in modo efficace le questioni relative al ‘Dopo di noi’, Prospettive assistenziali, n. 161, 2008.
[38] Le sentenze finora emanate dalla Corte di Cassazione in cui è richiamata la legge 1580/1931 riguardano questioni antecedenti l’entrata in vigore della legge 328/2000. Per quanto riguarda i provvedimenti assunti da alcuni Tribunali, in cui i congiunti sono stati condannati al versamento dell’intera quota alberghiera, va tenuto conto che riguardavano persone che avevano sottoscritto una impegnativa di pagamento, che detto atto non era stato tempestivamente disdetto e che non era stata avanzata una puntuale richiesta al Comune di provvedere alla corresponsione della quota di sua competenza.
[39] Come viene segnalato in questo numero di Prospettive assistenziali nella rubrica “Specchio nero”, è stato presentato in data 17 giugno 2008 un esposto alla Procura di Firenze in merito alla inosservanza da parte di detto Comune delle richieste avanzate dal Garante per la riservatezza dei dati personali.
[40] L’adesione acritica di numerosi assistenti sociali alle illegittime richieste delle istituzioni è un elemento che dovrebbe essere preso in considerazione da coloro che si occupano della formazione degli operatori e della loro tutela sindacale e morale.
[41] Cfr. il sito www.fondazionepromozionesociale.it.
[42] Allo scopo di evitare i ricatti da parte dei Comuni inadempienti, il Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti consiglia ai mariti dei nuclei familiari monoreddito di sottoscrivere la seguente dichiarazione: «Cara moglie, ti confermo quanto concordato e cioè che per il tuo mantenimento puoi prelevare dai miei redditi la somma mensile di euro… a partire dal giorno del mio ricovero presso una struttura residenziale per persone non autosufficienti». È opportuno che sotto la dichiarazione di cui sopra venga apposto un francobollo di euro 0,60 timbrato dall’Ufficio postale in modo da comprovare la data in cui il documento è stato sottoscritto.