Prospettive assistenziali n. 164 ottobre-dicembre 2008
L’ASSISTENZA AI MINORI NEGLI ANNI ’60: DALLA PRIORITà DEL RICOVERO IN ISTITUTO ALLA PROMOZIONE DEL DIRITTO ALLA FAMIGLIA
Francesco Santanera
Come ho precisato nel precedente articolo (1), negli anni ’60 più di 300mila minori erano ricoverati in istituti; le funzioni assistenziali nei confronti dei cittadini in condizioni di disagio (bambini, adolescenti, adulti, anziani, soggetti con handicap, ecc.) erano attribuite (e molto spesso non correttamente svolte) a oltre 50mila enti, organi e uffici; numerosi e particolarmente crudeli erano gli episodi di violenza subiti da fanciulli istituzionalizzati (2); le leggi dello Stato e il codice canonico contenevano norme gravemente lesive della dignità delle persone nate al di fuori del matrimonio (3).
Inoltre erano ben 21.113 i minori non riconosciuti ricoverati in istituti nonostante che gli enti pubblici potessero (anzi dovessero) affidarli a scopo di adozione o di affiliazione, non esistendo impedimenti giuridici al riguardo. Gli enti assistenziali privati godevano, a scapito degli assistiti, di notevoli privilegi: la vigilanza di fatto era inesistente e il personale addetto ai minori istituzionalizzati era spesso senza alcuna preparazione e quindi sottopagato. Succedeva altresì che la costruzione di istituti di ricovero avesse lo scopo di ottenere dai Comuni la messa a gratuita disposizione delle opere (strade, trasporti pubblici, luce, acqua, ecc.) da utilizzare per l’urbanizzazione della zona in vista della programmata edificazione di edifici dell’edilizia speculativa privata.
Le più importanti funzioni di direzione e di coordinamento dell’assistenza pubblica e privata erano attribuite al Ministero dell’interno, le cui considerazioni sui soggetti deboli erano ferme al Medioevo, come risulta dalla relazione al bilancio dello Stato del 1968 in cui detto Ministero così si esprimeva: «L’assistenza pubblica ai bisognosi (…) racchiude in sé un rilevante interesse generale, in quanto i servizi e le attività assistenziali concorrono a difendere il tessuto sociale da elementi passivi e parassitari».
L’adozione al servizio degli adulti
Nel 1960 la configurazione giuridica dell’adozione è orientata al soddisfacimento delle esigenze delle persone adulte (coniugate, celibi, nubili o vedove), purché prive di discendenti e quindi senza figli e senza nipoti (figli dei figli). L’adozione è concessa alle persone con più di 50 anni. L’età può essere ridotta ai 40 anni nei casi di accertata sterilità. Dunque, un neonato può essere adottato da un ottantenne, ma non da un trentenne.
Con lo stesso atto si possono adottare anche numerosi minori (o adulti) ma, adottato uno o più soggetti, le ulteriori adozioni erano precluse, in quanto l’adottante aveva acquisito suoi discendenti mediante il primo provvedimento.
L’adottato può essere senza famiglia o circondato dall’affetto dei suoi genitori o di altri congiunti. L’adozione è anche consigliata e praticata allo scopo di ridurre le tasse di successione (4) o per trasmettere la gestione di attività (ad esempio le farmacie) (5).
Anche in tema di successioni la legge sull’adozione presentava gravi e sconcertanti incongruenze.
Non solo gli adottati erano estranei alla successione dei parenti degli adottanti, non sussistendo con essi alcun rapporto giuridico (articolo 300 del Codice civile), ma poteva perfino verificarsi che i beni degli adottanti venissero assegnati alla persona che aveva lasciato il suo nato totalmente privo di cure. Infatti, alla morte dell’adottante i beni venivano trasmessi all’adottato. Se a sua volta questi decedeva senza avere discendenti o senza avere lasciato disposizioni (si noti che durante tutta la minore età non è possibile testare), i beni non ritornavano ai congiunti dell’adottante, ma andavano alla famiglia di origine se esisteva e, in caso contrario, allo Stato.
Inoltre, se per disposizione testamentaria l’adottato ereditava dalla famiglia dell’adottante, era tenuto a pagare le tasse di successione come estraneo e cioè, per un patrimonio di 30 milioni ben il 76% e per beni di 300 milioni (incredibile, ma vero) ben il 111% (dati tratti da Carlo Manera, Eredità senza tasse, La Tipografica Varese).
Vi è anche chi, come Amilcare Cicotero (6), all’epoca Commissario straordinario della Federazione provinciale di Torino dell’Onmi e Direttore amministrativo dell’Istituto provinciale dell’infanzia della stessa città, proponeva che le problematiche dei bambini senza famiglia fossero risolte con l’attribuzione dei cognomi depositati in una apposita “banca” da persone disponibili, specie se famose: riteneva così di aiutare concretamente i neonati figli di ignoti, anche se continuavano ad essere istituzionalizzati.
Negli anni ’60 i genitori avevano un vero e proprio diritto di “proprietà” dei loro figli, per cui anche quando si verificava un totale e definitivo disinteresse, detenevano il diritto di consentire o negare l’adozione.
Per l’inserimento presso famiglie adottive, l’autorità giudiziaria non aveva alcun potere di intervento nei confronti dei minori, compresi quelli senza famiglia, e non poteva svolgere alcuna attività per inserirli presso nuclei adottivi, né era tenuta ad accertare l’idoneità educativa del o degli adottanti: si limitava a ratificare le decisioni prese dagli enti di assistenza e dagli aspiranti adottanti.
Con l’adozione, gli adottanti esercitavano i poteri parentali, ma l’adottato conservava il suo status originario (figlio di ignoti, figlio legittimo o illegittimo), non stabiliva alcun rapporto di parentela con gli adottanti ed i loro parenti e lasciava inalterati i rapporti giuridici con la propria famiglia d’origine. Ad esempio l’esenzione dal servizio militare degli adottati era valutata sulla base delle condizioni della famiglia d’origine, non di quella adottiva (cfr. l’allegato 2).
Negli anni ‘60 e in quelli precedenti solo alcune amministrazioni provinciali avevano disposto affidamenti a scopo adottivo di minori non riconosciuti. Per quelli riconosciuti o legittimi, anche se totalmente privi di sostegno da parte dei loro congiunti, l’adozione poteva essere pronunciata solamente con il consenso dei genitori. In ogni caso, a parte rarissimi casi, la situazione dei bambini senza famiglia era assai drammatica per le nefaste conseguenze della carenza di cure familiari, aggravate in non pochi istituti dalle violenze inferte da “educatori” aguzzini, come era stato documentato nei numerosi processi di cui nel precedente articolo ho ricordato alcune dolorose vicende.
Occorre anche tener presente che, se non era ancora stata pronunciata l’adozione dall’autorità giudiziaria, ad esempio per il mancato raggiungimento dei limiti minimi di età degli adottanti (50 anni oppure 40 in casi eccezionali), il bambino poteva essere strappato alla famiglia in cui era stato inserito, ad esempio, a seguito di un tardivo riconoscimento da parte del o dei suoi procreatori.
Infine ricordo che gli affidamenti a scopo educativo o effettuati in attesa di adozione o di affiliazione erano disposti quasi sempre senza alcuna valutazione delle capacità educative degli affidatari per cui numerosi erano gli abusi (si vedano gli allegati 3, 4, 5 e 6).
L’affidamento dei neonati non riconosciuti
da parte degli uffici dello stato civile
Prima dell’entrata in vigore della legge sull’adozione speciale n. 431/1967, vi erano in Italia enti privati che garantivano la massima riservatezza alle donne nubili o coniugate che non intendevono riconoscere i loro nati e non volevano partorire in ospedale per non lasciare traccia della gravidanza.
Detti enti provvedevano, altresì, a soddisfare le richieste avanzate da coppie o da persone singole, quasi sempre prive di figli biologici, che desideravano accogliere un bambino o una bambina a scopo di adozione.
Per garantire la riservatezza richiesta il parto aveva luogo nella sede dell’ente o presso l’ambulatorio di una ostetrica.
Al momento della denuncia della nascita l’ostetrica dichiarava all’addetto dello stato civile che la persona, alla quale il neonato era già stato consegnato, era presente al parto.
Detta dichiarazione veniva inserita nell’atto di nascita e di fatto legittimava l’avvenuto affidamento che poteva restare tale e quale (nessun obbligo aveva l’ufficiale di stato civile di informare né gli enti assistenziali né i tribunali per i minorenni) o essere la base, decorsi tre anni, per l’affiliazione o, al raggiungimento dei limiti di età, dell’adozione per i soggetti privi di discendenti.
L’affiliazione
Negli anni ‘60 era ancora vigente l’affiliazione, istituto giuridico creato dal fascismo con lo scopo di soddisfare «un doppio bisogno giuridico individuale, il bisogno, anzi il diritto, degli illegittimi perché lo Stato intervenga a cancellare la inferiorità familiare e sociale che loro infligge la colpa dei genitori e il bisogno spirituale, morale e talora economico, specie nel campo agricolo, delle famiglie sterili o fornite di poca prole, di avere un focolare allietato dal sorriso del fanciullo e di reclutare nuove forze di aiuto e di completamento della comunità economica familiare» (7).
L’affiliazione doveva essere preceduta da almeno tre anni di affidamento a scopo educativo.
Questo periodo poteva essere interrotto dal o dai suoi genitori in qualsiasi momento salvo diversa decisione dell’autorità giudiziaria; inoltre era praticabile la revoca in caso di riconoscimento tardivo da parte anche di uno solo dei genitori.
L’affiliazione aveva natura eminentemente assistenziale e si esauriva con il raggiungimento della maggiore età dell’affiliato, salvo la conservazione del cognome assunto o aggiunto.
Su richiesta dell’affiliante, il minore assumeva il suo cognome se figlio di ignoti o riconosciuto da un solo genitore, lo aggiungeva al proprio se figlio legittimo o riconosciuto da entrambi i procreatori.
L’affiliato non aveva diritto alla successione del o degli affilianti.
L’affiliante, purché maggiorenne, poteva avere qualsiasi età, essere celibe, nubile, vedovo o coniugato. Se coniugato, come per l’adozione, era solo necessario l’assenso del coniuge, libero di affiliare il minore oppure no.
Le gravissime carenze dell’affiliazione risultavano evidenti anche dalla relazione della proposta di legge n. 1628 presentata alla Camera dei Deputati il 15 ottobre 1959 dalle parlamentari Luciana Viviani e Laura Diaz in cui si legge quanto segue:
«Il 24 ottobre del 1958 si presentavano dinanzi alla casa dei signori D. F., una famiglia di pescatori di Pozzuoli, 10 agenti, un avvocato, un ufficiale giudiziario e la signora I. F., madre naturale di G., una bimba di 11 anni.
«La famiglia D. F. aveva preso G. dal brefotrofio di Napoli, a soli 8 mesi, e per 10 anni l’aveva cresciuta ed educata come una figlia. La signora I. F., essendo riuscita ad ottenere una sentenza di riconoscimento della patria potestà e quindi l’affidamento della figlia, per superare le gravi resistenze che la famiglia D. F. opponeva alla consegna della piccola G., aveva chiesto ed ottenuto l’appoggio delle forze di polizia per rendere esecutiva la sentenza.
«La bambina fu strappata con la forza dalle braccia della madre adottiva. La scena, tremenda nella sua disumanità, durò per due ore. La piccola G., condotta a Cosenza dalla madre naturale, fu rinchiusa in un istituto assistenziale ove tuttora risiede.
«non occorre essere esperti di psicologia per comprendere come il trauma subito dalla bambina, in età assai delicata per la sua formazione psichica, avrà gravi conseguenze e il ricordo di quel ratto disumano resterà per sempre scolpito nella sua memoria.
«Questo episodio, che suscitò grande impressione in tutta la popolazione di Pozzuoli, non è che uno dei tanti che, forse con minore scalpore, si verificano nel nostro Paese.
«Il dramma di G. dimostra come le leggi che regolano in Italia l’adozione e la affiliazione rendono assai difficile per migliaia e migliaia di bambini “illegittimi” la possibilità di essere accolti in una famiglia e di rimanerci per sempre, sani e felici.
«Dichiarando di voler difendere la famiglia, in realtà questa legge impedisce, in molti casi, che i bimbi nati fuori dal matrimonio ritrovino un focolare sicuro e dimentichino di essere dei “minorati sociali”».
La costituzione dell’Anfaa
Con atto notarile dell’11 dicembre 1962 si costituisce l’Anfaa (Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie) (8), i cui scopi sono così precisati nell’atto costitutivo:
• «affermare che il fine essenziale dell’adozione è quello di dare una famiglia moralmente e materialmente uguale a quella naturale ai bambini che ne sono privi;
• «difendere gli interessi morali e materiali delle famiglie adottive e affilianti o che comunque accolgono in modo stabile i bambini loro affidati;
• «studiare e adoperarsi per una riforma degli istituti giuridici che regolano l’adozione e l’affiliazione, sempre tenendo presente che l’interesse prevalente da tutelare è quello del bambino;
• «sviluppare i contatti fra i soci al fine di poter scambiare le reciproche esperienze;
• «tenere a disposizione dei soci una documentazione sulle questioni legali, psicologiche, pedagogiche relative all’adozione, all’affiliazione e all’infanzia abbandonata;
• «ottenere il concorso di giuristi, psicologi, pedagoghi e di esperti;
• «creare un ufficio di consultazione per le famiglie o le persone che intendono adottare o affiliare minori;
• «svolgere presso i Tribunali, le Preture o altri enti le pratiche richieste dai soci».
Documento base dell’Anfaa per la promozione di una innovativa legge sull’adozione
Sulla base delle sopra citate finalità statutarie, una delle prime iniziative del Consiglio direttivo dell’Anfaa è stata la redazione di un documento base in cui venivano prese in esame le norme allora vigenti in materia di adozione e gli «inconvenienti rilevati dagli stessi genitori adottivi»:
1. «i limiti di età richiesti sono troppo elevati e non ultima conseguenza è l’assurdo per cui molti adottanti più che dei genitori sembrano dei nonni, onde lo stesso bambino si trova davanti a una situazione quasi innaturale, con conseguenze negative per entrambe le parti;
2. «il bambino, inoltre, con l’attuale regolamentazione, viene accolto al raggiungimento dei limiti d’età, per cui molti aspiranti adottanti desistono dal loro proposito temendo di morire prima di aver dato una sistemazione al bambino;
3. «ricorre poi un altro assurdo: l’adozione viene compiuta dal coniuge che ha raggiunto i limiti di età per effettuarla, talché si instaura un rapporto di doveri-diritti tra l’adottato e il coniuge più anziano – che è quasi sempre il padre adottivo – mentre non esiste alcun rapporto, almeno giuridicamente, fra l’adottato e l’altro coniuge che non ha raggiunto tale limite (in genere la madre adottiva!);
4. «il bambino esce dall’istituto generalmente non prima di un anno, quando ha già subito i gravi danni della carenza di cure materne e paterne;
5. «il bambino, se è stato riconosciuto e poi abbandonato (e sono migliaia), è sempre legato al volere della “madre” naturale, anche se questa se ne disinteressa completamente;
6. «avviene pure che quasi tutte le famiglie adottive abbiano un solo bambino e ciò anche per il divieto di più adozioni successive;
7. «il timore di un tardivo riconoscimento provoca in moltissimi adottanti un continuo stato ansioso che si ripercuote negativamente sul bambino;
8. «in caso di riconoscimento tardivo il bambino, se non è ancora definitivamente adottato, può essere strappato alla sua famiglia con conseguenze deleterie sulla sua psiche;
9. «nel caso di riconoscimento tardivo, l’adozione, se è già stata perfezionata, risulta valida, ma l’adottato rischia di essere informato della sua situazione in un momento o in una maniera certo assai poco opportuna. Non si deve neppure escludere che il suo avvenire possa essere turbato o compromesso da manovre pericolose (9);
10. «inoltre il bambino, pur allevato in un ambiente moralmente sano, circondato dalle cure di una famiglia, non modifica il suo stato di illegittimo».
Erano, quindi, richiamate le norme contenute nella stessa Dichiarazione dei diritti del fanciullo approvata all’unanimità dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1959 e in particolare le affermazioni secondo cui «il fanciullo deve godere di una speciale protezione; disposizioni legislative o altri provvedimenti devono garantirgli possibilità e facilitazioni perché egli possa svilupparsi in modo sano e normale fisicamente, intellettivamente, moralmente, spiritualmente e socialmente in condizioni di libertà e di dignità» e che «nell’approvazione di leggi relative questo fine, l’interesse superiore del fanciullo deve essere determinante».
Veniva quindi citato lo studio condotto da John Bowlby per conto dell’Organizzazione mondiale della sanità che, dopo aver discusso con i più autorevoli specialisti sia sui principi direttivi della salute mentale dei bambini, sia sui metodi per assicurarne l’integrità, aveva precisato quanto segue: «L’evidenza dei fatti è tale che non può lasciare adito a dubbi sull’affermazione generale: la carenza prolungata di cure materne provoca nel bambino piccolo dei danni non soltanto gravi, ma anche durevoli, che modificano il suo carattere e intaccano così tutta la sua vita futura» (10).
Aveva inoltre aggiunto che la situazione di cui sopra si riscontrava soprattutto nella seconda metà del primo anno di vita e anche antecedentemente, specie fra i tre e i sei mesi.
Concetto di famiglia adottiva
Nel documento “Istituzione, scopi e finalità dell’Anfaa”, predisposto all’inizio del 1963, veniva precisato che «superato è ormai il concetto, almeno nei paesi civili, dell’adozione come filiazione fittizia, poiché nella realtà si tratta, nei rapporti fra adottante e adottato, della creazione di una famiglia non già adottiva, ma uguale a tutte le altre. È vero che l’istituto stesso non è sempre ben compreso né sufficientemente ben tutelato e che esistono in materia prevenzioni a volte assurde, ma proprio ciò rende maggiormente meritevole l’impegno di quanti operano per porre il problema nella giusta prospettiva, liberandolo dalle remore che a lungo l’hanno ancorato ad una inspiegabile indifferenza (…). Quali sono dunque – in rapida sintesi – gli elementi che contraddistingono l’istituto? Un nuovo status per il fanciullo abbandonato: l’occasione di sviluppare determinate qualità per chi altrimenti ne sarebbe stato impedito; il formarsi di una nuova famiglia: tutti eventi cioè di portata e rilievo pari a quelli che tradizionalmente segnano le tappe della vita dell’uomo, come la nascita, il matrimonio, il definirsi di una naturale predisposizione».
Nello stesso documento viene altresì rilevato che «una coscienza particolare occorre pure che venga formata presso opere religiose e sociali che, pur occupandosi assiduamente e ammirevolmente all’educazione dell’infanzia abbandonata, dovrebbero meglio essere indirizzate sui vantaggi che ai fanciulli derivano dall’essere collocati presso famiglie adottive».
In conclusione viene puntualizzato il diritto di ogni bambino «di avere una vera famiglia, la quale a sua volta, così formata, non ha da essere intesa come una creazione artificiale della legge, bensì come una soluzione naturale al problema creato da una determinata situazione sociale».
Allegato 1
CERCASI ADOTTIVO FARMACISTA
Siamo due coniugi adulti senza figli ed abbiamo a Roma una farmacia bene avviata che, secondo le leggi vigenti, andrebbe perduta se non abbiamo un figlio farmacista a cui lasciarla.
Desideriamo pertanto cercare un giovane, di sani principi morali e religiosi, che sia disposto intraprendere gli studi universitari di farmacia per assicurarsi un avvenire e noi dovremo adottarlo legalmente al fine di assicurargli oltre la proprietà della farmacia anche quanto altro possediamo.
Se voi avete qualche nominativo da segnalarci saremo lieti di compiere questa azione altamente umanitaria e assistenziale.
Potete comunicarci direttamente la Vostra risposta a X, via Y, dove attualmente risediamo.
Vi ringraziamo per il Vostro interessamento e Vi prego gradire i nostri migliori saluti.
(Lettera inviata all’Anfaa il 22 novembre 1963 dai signori D.F. e L.F.P.)
Allegato 2
L’ESONERO DEI FIGLI ADOTTIVI DAL SERVIZIO MILITARE OBBLIGATORIO È CONCESSO SULLA BASE DELLA SITUAZIONE DEI GENITORI BIOLOGICI
Riproduciamo due lettere, ricordando che la legge 19 marzo 1955 n. 104 disponeva quanto segue: «I figli adottivi e gli affiliati possono ottenere l’ammissione all’eventuale congedo anticipato per i titoli relativi alla famiglia d’origine».
Lettera n. 1 del 12 settembre 1964
Per consiglio del Dr. A., dell’Ufficio legale maternità e infanzia (Brefotrofio) di Milano, mi permetto sottoporre a Cod. Associazione il mio caso, fiduciosa di ottenere, da parte Vostra, un valido appoggio.
Siamo due anziani coniugi che nel 1945 abbiamo adottato una creatura di sesso maschile di soli quattro mesi abbandonata dalla madre al Brefotrofio di Milano.
Superfluo parlare degli innumerevoli sacrifici fatti con gioia ed entusiasmo (non siamo mai stati ricchi, solo il nostro quotidiano lavoro ci ha aiutati) per allevare questa creatura; sappiamo solo di aver dato un affettuoso focolare, un nome, un istruzione in ambiente religioso (in luglio ha superato la licenza di maturità classica).
Ora, alla chiamata della visita militare, veniamo informati che il ragazzo non potrà ottenere l’esonero (che viene concesso a coloro che hanno genitori anziani) in quanto la madre, avendo avuto in precedenza altro figlio maschio, il beneficio dell’esonero è stato accordato a questi.
Ma è possibile che ci sia rifiutato un sacrosanto diritto solo perchè siamo genitori adottivi? Non fa l’interessato parte di altro gruppo familiare?
Siamo noi che tutto, tutto abbiamo dato, come ad un vero figlio, ed ora che dovremmo raccogliere un modesto frutto a tanta affettuosa semina ci vediamo esclusi da un diritto che dovrebbe essere legge.
Quante, quante considerazioni sul fatto!! Ma forse a viva voce tutto potrebbe essere semplificato. A questo proposito il Dr. A. mi ha consigliata di scrivervi per ottenere, possibilmente un eventuale, colloquio, col V/s incaricato che spesse volte viene a Milano.
Mi auguro da parte Vostra comprensione e interessamento, tale da ridarci fiducia per il buon esito della ns. umana richiesta, in modo che la nostra creatura non ci venga allontanata proprio in questi ultimi anni della nostra non fiorente vecchiaia, ma ci sia di conforto morale e … purtroppo anche materiale.
Sicuri che la presente avrà un seguito, con deferenza
Padre adottivo: S. P. anni 65, pensionato, pressochè infermo.
Madre adottiva: P. P. anni 67, pensionata
Milano, Via……
Ritengo opportuno informarvi che il ragazzo non è ancora a conoscenza della verità della sua situazione e quindi prego usare, in caso di cortese invito telefonico, molta discrezione al riguardo. Grazie, grazie
Lettera n. 2 del 17 agosto 1966
In un gabinetto medico ho letto su Oggi del 25-8-66 n. 34 un articolo «Leggi Crudeli» un caso, a cui Ella risponde, di una figlia adottiva che viene esclusa da un’eredità. Ora mi permetto sottoporLe il mio caso e vedrà che le nostre leggi sono veramente assurde.
A pochi mesi di vita, mia marito ed io si adottò un figlio di mio fratello. Mio marito è morto di leucemia nel marzo 1964 dopo che mio figlio ed io ci siamo venduti tutto il vendibile nella vana illusione di tenerlo in vita. Mio figlio ora ha 23 anni, è ragioniere ed è iscritto al 4° anno di Economia e Commercio con discreto profitto, nonostante sia costretto a lavorare per poter vivere tutte e due, perché non possediamo altro, ora, che l’appartamento dove viviamo e 15.000 lire al mese perché subaffittiamo. Conseguita la laurea, mio figlio deve prestare servizio militare. E io? Come vivo? E se mi ammalo, data la mia età, sono nata il …, chi mi assiste? Facendomi forza della legge che il figlio di madre vedova viene esentato, ho fatto ricorso al Distretto e mi è stato respinto per mancanza di titoli. Allora mi sono rivolta direttamente al Ministero della Difesa, allora Ministro Andreotti, ed anche da qui è stata respinta la mia supplica sempre per mancanza di titoli, in quanto sono ancora viventi i genitori naturali di mio figlio. Ma la vera famiglia di mio figlio è questa dove è stato allevato ed amato, dove esiste un vero profondo reciproco vincolo affettivo. Perché non deve essere considerato completamente mio figlio? Che c’entrano i genitori naturali? Che ne sanno essi di lui, che non l’hanno più visto, di cui non se ne sono mai interessati? Perché non si fa finalmente una legge vera ed efficiente che tuteli i diritti e i doveri degli adottati ed adottanti?
Come posso fare per trovare la via giusta per far capire a chi di competenza che è indispensabile che mio figlio venga esentato?
La prego di scusarmi e di voler comprendere che chi scrive è una povera anziana donna angosciata.
Le sarei infinitamente grata e riconoscente di un Suo cenno in proposito. Grazie.
Allegato 3
RICHIESTA DI UNA ADOTTATA/SERVA
Egr. Presidente dell’Associazione famiglie adottive ed affilianti.
Avendo letto il suo nome ed incarico nella rubrica epistolare della rivista “Oggi”, mi permetto di esporLe il mio caso personale, per la cui soluzione spero di trovare dalla Sua competenza un aiuto efficace.
Siamo due coniugi sessantenni, rimasti soli dopo che il figlio si è sposato e ben sistemato, ma lontano; e per quanto ci teniamo in buone relazioni con lui e la nuora, sarebbe per me affatto sconveniente staccarmi dalla mia città per recarmi presso di loro.
Con la moglie andiamo abbastanza d’accordo; ma mentre io sono impegnato negli studi (autodidatta, ottenni a … anni la laurea in lettere) ella va subendo una involuzione psichica che la rende sempre più incapace del governo della casa. Ebbimo già per qualche tempo persone di servizio; ma non intendiamo più assumerne, sia perché le nostre risorse non corrispondono alle pretese attuali di costoro, sia perché, in effetti, la funzione che verrebbe ad assumere una terza persona in casa nostra sarebbe proprio quella di convivente come persona di famiglia.
Abbiamo dunque pensato all’eventualità di adottare una giovane, già maggiorenne, libera da impegni di famiglia (anche se fosse in parte invalida) e non avesse la possibilità di sistemarsi o l’intenzione (almeno prossima) di sposarsi; purché, naturalmente, avessimo di lei referenze rassicuranti sulla condotta e, per quanto possibile, sulla bontà del carattere.
Il caso migliore sarebbe quello di una che desiderasse perfezionarsi professionalmente: sarebbe mio e, certo, comune piacere collaborare con lei per una formazione superiore, mentr’ella contribuirebbe un po’ all’andamento della casa.
Abbiamo una stanza libera, riscaldata, dov’ella sarebbe libera, e se le cose procedessero bene – concorde il figlio – potremmo lasciarle un piccolo patrimonio per il suo avvenire.
Comprendo bene che il caso è particolarmente delicato: maggiori spiegazioni potrei darLe a voce s’Ella – vedendo la possibilità d’intervenire – trovasse il tempo per accordarmi un colloquio, nell’ora più opportuna per Lei. Se questo invece non Le fosse possibile, La prego almeno d’indirizzarmi a qualche Istituto di Sua conoscenza dove potessi utilmente indirizzare la mia richiesta.
Di quanto Ella vorrà cortesemente informarmi, La ringrazio fin d’ora vivamente, anche a nome della moglie stessa.
(Lettera inviata all’Anfaa in data 30 aprile 1967 dai signori T. e M.M. abitanti in una importante città del Piemonte).
Allegato 4
Sfruttamento di un minore orfano
Riportiamo integralmente (errori compresi) la lettera inviata da L. O. al Direttore di Oggi, trasmessa all’Anfaa dalla giornalista Neera Fallaci negli anni ’60.
Egregio Direttore,
La prego vivamente di leggere attentamente il contenuto di questa lettera. La prego di non cestinare questa mia perché chi le si rivolge è un orfano di Padre, e di Madre. Premesso, non chiedo sussidi, o impieghi ma soltanto comprensione e di come comportarmi. Appena settenne rimasi orfano nel giro di otto giorni dico otto giorni è precisamente l’anno 1932 dei miei cari genitori. Dietro l’interessamento di terze persone venni ricoverato con i miei fratelli presso l’ospizio di A., mia città natale.
Dopo appena un anno di permanenza in detto Istituto per tramite le figlie della carità, venni affidato temporaneamente al brefotrofio di B. datosi che una famiglia del luogo, è precisamente i coniugi C. D. residenti e domiciliati a B. in Via X, avevano fatto a suo tempo richiesta al brefotrofio di un ragazzo orfano e a suo tempo da adottare o affiliare in modo di essere considerato a tutti i senzi di legge loro figlio.
Il giorno di Pasqua del 1933 feci ingresso nella mia nuova famiglia la quale mi dimostrò subbito poco affetto, e comprensione. Devo in parte citarle che avevo, ed ò dei fratelli anzi il maggiore E. F. venne più volte a trovarmi ed io sebbene ottenne dichiaravo apertamente a mio fratello che stavo in quella casa di malumore. La mia seconda mamma esternava un morboso affetto nei confronti di una sua nipote alla quale regalava delle belle cose ed io risentivo di tutto ciò.
Diciamo subbito che i miei genitori sono dei contadini dunque due cose diverse e cioè: Io figlio di ufficiale di marina mercantile, loro quel che o già citato. I coniugi C. D. sono proprietari di terreni e di fabricati. Come ho detto in precedenza i coniugi C. D. anno sottoscritto una carta nella quale si impegnavano a suo tempo di adottarmi in modo da essere considerato a tutti i senzi di legge come loro figlio.
Questo non lo anno fatto. Appena tredicenne pretesero che mi deticassi ai lavori campestri ed io subbito feci notare che non era cosa per me. infatti sdegnato di tante angherie appena compiuti sedici anni, mi arruolai volontario in marina. Preciso che mai nulla o chiesto ai detti coniugi e nemmeno mi sono appropiato di cose sue malgrado tutta la fiducia che avevano in me. Rientrato dalla prigionia (Germania), a malincuore non avevo dove andare, feci ritorno nella casa dei coniugi C. D. i quali invece di rallegrarsi della mia presenza, mi dissero chiaro che il mio posto se volevo rimanere con loro, era la campagna. Dissi di no e con l’ausilio di buone persone dopo tante sofferenze venni assunto alle … dove attualmente mi trovo. Nel 1959 andai a nozze con una brava ragazza e per l’occasione i coniugi C. D. mi regalarono L. 200.000.
Questa è tutta la mia odissea. Non le posso dire quante umiliazioni ho sopportato e continuo a sopportare solo perché non ho nessuno.
Ora le chiedo umilmente di volermi aiutare attraverso il suo giornale di cui sono un assiduo lettore posso intentare procedimento penale contro i suddetti coniugi per gli impegni assunti e non mantenuti e se esiste una legge la quale tutela gli orfani.
Aggiunco a dirle che prima di me i coniugi C. D. avevano avuto già un’altro ragazzo un certo M. N. al quale dopo tanto lavoro fatto nei suoi campi sol perchè sposò una ragazza a loro non gratita, nulla diedero. Le chiedo scusa Signor Direttore ma e mai possibile che ancora oggi lo Stato Italiano permette a certi farabutti di speculare ai figli di mamma? Ora pare che abbiano espesso le loro volontà testamentarie nei confronti dei loro parenti diretti mettendo da me in disparte.
Gratisca da me distinti saluti.
Allegato 5
AFFILIATA E SfruttAtA
Gentile Signor Santanera,
Le sono veramente grata per la gentile risposta, anche se mi fa sapere che l’affiliazione non mi offre alcun diritto presso le persone che, diciamolo pure mi hanno sfruttata per ben 15 anni.
Come Lei dice l’istituto dell’affiliazione merita davvero d’essere modificato e soprattutto i dirigenti responsabili dovrebbero approfondire le loro indagini sulle persone a cui affidare una creatura e seguire almeno per alcuni anni il loro comportamento nei riguardi dei bambini stessi.
Credo che davvero il mio caso possa servire a spronare maggiore responsabilità e di buon grado desidero esporlo a Lei, che se crede può farlo pubblicare omettendo il mio nome naturalmente.
Quello che le ho scritto nella mia precedente lettera è solo una parte della mia triste odissea mentre l’intera storia la convincerà che ciò che l’associazione a cui Lei appartiene cerca di fare è un opera davvero meritoria.
All’età di tre anni fui affidata dall’Istituto provinciale per la infanzia di A. a due coniugi di B. con i quali mi trasferii poi a C. Erano gente molto povera, lui faceva il calzolaio e stentavano a guadagnare il necessario per vivere, così quando io avevo circa 7 anni ero costretta a chiedere un tozzo di pane alla gente per me e anche per loro.
Mi mandavano a far legna nei boschi con la neve e col gelo, e tante volte approfittando di qualche mia marachella mi lasciavano senza mangiare. Fu la mia maestra ad interessarsi del mio caso e a denunciarlo alle autorità locali, ricordo che un giorno fui invitata al municipio e interrogata a lungo sulla mia situazione; in quella casa naturalmente non avevo con questa famiglia alcun legame legale così dal mio cognome diverso capii che non ero la loro figliola.
Le autorità di C. provvidero a farmi tornare all’istituto per l’infanzia, dove rimasi per qualche mese, dopo di che fui affidata all’età di 10 anni alla famiglia D. con la quale ho vissuto per 15 anni. Quando venni in E. ero convinta di trovare finalmente un papà e una mamma che avrebbero colmato il mio cuoricino avido di affetto, invece mi obbligarono a chiamarli zii e a dar loro del “lei”, non mi fecero nemmeno prendere la licenza elementare (a C. avevo frequentato fino alla 4ª), mi hanno costretta a fare i lavori più pesanti fin da bambina non evitando di rinfacciarmi ad ogni occasione il bene che mi facevano tenendomi in casa e umiliandomi con gli appellativi più brutti, come fosse stata colpa mia la mia origine illegale.
Così ho trascorso la mia giovinezza cercando di donare agli altri ciò che avrei voluto ricevere io, ho lavorato tra le file dell’Azione Cattolica con tutto il mio ardore e li ho trovato un pò di affetto e di comprensione. A 18 anni ero ancora in quella casa come il primo giorno senza alcun legame legale, così dietro consiglio della mia Presidente sollecitai l’istituto per l’infanzia a provvedere nei miei riguardi, presso le persone che mi ospitavano, così fui affiliata e continuai a vivere con loro un pò più contenta perchè almeno speravo che questo legame mi avrebbe ottenuto un pó di affetto.
Invece il giorno che un giovane chiese la mia mano gli risposero che io avevo fatto voto di verginità manifestando così le loro intenzioni contrarie ad una mia sistemazione, il loro egoismo mi negava pure agli affetti che avrei potuto crearmi con una famiglia mia.
Nel 1962 conobbi colui che oggi è mio marito, il Signore finalmente mi apriva una nuova strada. Mi negarono il loro consenso nel modo più assoluto. Allora decisi di lasciarli e di sposarmi con l’uomo che amavo. Fu la mamma di una mia carissima amica ad accogliermi nella sua casa e li preparai il necessario per sposarmi. Qui si usa di prendere la fuga, cioè andare a vivere col fidanzato prima di sposarsi, quando viene negato il consenso.
Ma io volli sposare come si conviene ad una giovane di Azione Cattolica. Ebbi la gioia di salire all’altare con un meraviglioso abito bianco, festeggiata da tutta l’Azione Cattolica della Parrocchia, ebbi una festa e fui circondata da tante manifestazioni di simpatia che poche si sognano di avere. Provvide a tutto mio marito perchè io ero uscita di casa con i soli abiti che portavo addosso.
Poi fecimo un lungo viaggio di nozze ed ebbi la gioia di rivedere la mia A. e le bellezze del mio Piemonte, adesso il Signore mi ha donato un bimbo che è la felicità e il completamento della nostra famigliola. Le amarezze e le umiliazioni della mia infanzia e della mia giovinezza sono ormai un ricordo lontano, ma come vorrei fare qualcosa per evitare che altri bimbi subiscano la mia sorte! Il non avere una famiglia non deve essere considerata una colpa, ma dovrebbe ispirare maggior comprensione e affetto, è questo che molti si ostinano a non voler capire, trattando come colpevoli tanti bimbi che non hanno mai chiesto di venire al mondo...
(Lettera indirizzata all’Anfaa il 20 febbraio 1964).
Allegato 6
CHIESTA LA SOSTITUZIONE DELLA FIGLIA ADOTTIVA CON “ANOMALIE”
Sperando che la sua risposta ci dia uno spiraglio di luce. Abbiamo preso una bambina all’orfanotrofio, aveva un anno. Pochi giorni dopo abbiamo riscontrato delle anomalie e volevamo cambiarla ma il medico dell’istituto, burbero ci disse questo non è un mercato che si piglia e si cambia.
Mio marito nella speranza che la piccola cambi l’ha adottata io non l’ho fatto per il sopra accennato. Ora le anomalie sono aumentate e aggravate (sorride ai giovani con un senso invitante), a nulla è valso picchiarla, le buone parole, il nostro grande affetto.
Ora ha 11 anni ed è stata colta in flagrante con un uomo di 63 anni, denuncia, arresto del maniaco, a giorni processo. Tutte le nostre speranze di farne una signorina sono crollate.
Ora d’accordo con mio marito vorrei intentare causa presso il tribunale dei minori, e dato il grande fatto chiedere che mi venga sostituita con un’altra, perché diversamente mai e poi mai ci sarà pace in casa mia, e ho paura che mio marito faccia una follia avventandosi contro la piccola quando rientrerà dato che ora la questura l’ha ricoverata in un istituto.
Mi dica avvocato a quale legge posso rivolgermi perché non si avvera una tragedia nella mia casa?
Con stima e in grande attesa?
(Lettera inviata all’Anfaa il 10 ottobre 1967 dal signor E.M. titolare di un negozio di calzature di una città capoluogo di Provincia del Nord Italia).
(1) Cfr. Francesco Santanera, “La situazione dell’assistenza negli anni ’60: 50mila enti e 300mila minori ricoverati negli istituti”, Prospettive assistenziali, n. 163, 2008.
(2) Cfr. Bianca Guidetti Serra e Francesco Santanera, Il Paese dei celestini - Istituti di assistenza sotto processo, Giulio Einaudi Editore, 1973.
(3) Come ho già rilevato nel precedente articolo, ai sensi dell’articolo 176 del regio decreto 15 aprile 1926, n. 718 riguardante l’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia «i fanciulli minori di dodici anni compiuti devono essere di regola collocati presso famiglie, possibilmente abitanti in campagna, che offrano serie garanzie di onestà, laboriosità, attitudini educative e amorevolezza verso i bambini e dispongano inoltre di un’abitazione conveniente e di mezzi economici sufficienti per provvedere al mantenimento dei fanciulli ricevuti in consegna. I fratelli e le sorelle debbono essere possibilmente collocati presso la stessa famiglia, o almeno nello stesso Comune». Mentre le sopra riportate disposizioni riguardavano i minori nati nel matrimonio, per quelli nati al di fuori di esso doveva essere applicato l’articolo 32 del regio decreto 29 dicembre 1927, n. 2822 relativo ai servizi di “assistenza dei fanciulli illegittimi, abbandonati o esposti all’abbandono” in cui era previsto che «i divezzi che non vengano ritenuti o ritirati dalle madri, sono di regola ricoverati, sino al terzo anno di età, in un distinto reparto del brefotrofio o in altri istituti, a cura del brefotrofio stesso, e allevati da apposito personale femminile che abbia seguito corsi di puericultura. Dopo il terzo anno, i fanciulli sono preferibilmente collocati in idonei istituti (…). Qualora non siano possibili le predette forme di assistenza, i fanciulli vengono affidati ad allevatori esterni, possibilmente abitanti in campagna, che hanno diritto ad una congrua retribuzione». Dunque, mentre per i fanciulli nati nel matrimonio la priorità era l’inserimento presso famiglie, per quelli nati al di fuori di esso l’affidamento familiare doveva essere praticato solo se non era possibile il ricovero in istituto. Mentre la Chiesa cattolica ha eliminato dal nuovo codice canonico le assurde disposizioni riguardanti l’accesso al sacerdozio delle persone nate fuori del matrimonio, la legge 328/2000 di riforma dell’assistenza, nonostante le ripetute istanze del Csa, non ha rimosso la vergognosa discriminazione fra l’assistenza ai minori nati nel matrimonio (di competenza dei Comuni) e gli interventi concernenti i fanciulli nati al di fuori di esso (attribuiti dal regio decreto 798/1927 alle Province). Compete alle Regioni (comma 5 dell’articolo 8 della legge 328/2000) trasferire le competenze delle Province ai Comuni per togliere la discriminazione, oppure ad altri enti locali per conservarla. Infine si ricorda che le vigenti leggi dello Stato italiano continuano a non riconoscere alcun legame di parentela ai nati fuori dal matrimonio, al punto che i bambini procreati dalle stesse persone non sono fratelli o sorelle fra di loro, né hanno nonni, zii o altri congiunti.
(4) Cfr. Carlo Manera, Eredità senza tasse, La Tipografica Varese.
(5) Si veda l’allegato 1.
(6) Cfr. Amilcare Cicotero, Gli illegittimi. Aspetti sociali, giuridici, assistenziali del problema dei figli illegittimi, Utet.
(7) Relazione presentata il 4 giugno 1937 da Piola Caselli, Di Marzo e Costamagna in merito al progetto di legge sull’affiliazione, allora definita anche “piccola adozione”.
(8) All’epoca la denominazione dell’Anfaa era Associazione nazionale famiglie adottive e affilianti. La sede dell’associazione, costituita da nove persone, era presso l’abitazione dei genitori del presidente.
(9) Da notare che il Tribunale di Lecce, con sentenza del 30 ottobre 1957, aveva dichiarato nulla un’adozione a seguito del riconoscimento del bambino da parte della donna che l’aveva procreato, sulla base di una singolare interpretazione delle norme. Poiché il riconoscimento anche tardivo produce i suoi effetti fin dal momento della nascita, il Tribunale di Lecce aveva osservato che alla pronuncia dell’adozione mancava il consenso della donna di cui sopra, non tenendo conto – incredibile ma vero – che all’epoca il riconoscimento non era stato effettuato e quindi il bambino risultava essere figlio di ignoti.
(10) Anche se la ricerca di John Bowlby, Soins maternels et santé mentale, Oms, Ginevra, era stata tradotta in italiano e pubblicata sotto il titolo Cure materne ed igiene mentale del fanciullo, Editrice universitaria, Firenze, le relative risultanze erano poco diffuse e conosciute anche da parte dei nostri operatori socio-sanitari.