Prospettive assistenziali
n. 166 aprile
giugno 2009
Famiglia e handicap:
un’esperienzA
Giuseppe D’Angelo
Proverò di seguito a portare la mia esperienza di
familiare di una persona con handicap intellettivo grave. L’intento è semplice:
tratteggiare la problematica, offrendo un quadro di essa
seppur parziale e magari di parte. Nell’esprimere un’esperienza diretta – realtà importante e
pesante – vorrei anche fornire spunti di riflessione, approfondimento ed
eventualmente aprire un confronto.
Premessa
Da un punto di vista “evolutivo”, credo che
l’esperienza di una famiglia che ha la sorte di avere un figlio o una figlia
handicappata grave, possa essere sinteticamente raccolta in tre fasi:
• la prima, relativa al momento della nascita,
ovverossia al momento in cui i genitori vengono a conoscenza
della realtà dell’handicap;
• la seconda fase, riferita a quel periodo temporale, più o meno ampio, in cui il nucleo familiare – facendosi
carico del nuovo “fardello” – si pone alla ricerca di una soluzione (tipicamente
medica) con l’intento di far recuperare al soggetto handicappato una
condizione, il più possibile, di normalità;
• la terza parte, quando ad
un certo punto subentra una sorta di “passiva accettazione”.
Si tratta di una divisione temporale forse un po’
semplicistica, ma che trova riscontri concreti; e qui appare utile esporla per
evidenziare in maniera più chiara alcune necessità.
La prima
fase
Come accennato, la prima fase dell’esperienza, è
riferibile al momento in cui l’evento entra prepotentemente a far parte della
propria vita.
Personalmente
non ricordo esattamente quando ho realizzato, in qualche modo, che mio fratello
– più giovane di me di un paio d’anni – avesse problemi di natura intellettiva,
con compromissione delle principali autonomie (ad eccezione della
deambulazione). Probabilmente ritenevo “normale” che lui fosse così (era quasi sempre stato così). E difatti il pensiero del futuro
non mi preoccupava più di tanto.
Ricordo,
invece, che i miei genitori consultavano specialisti, professori, i quali in
genere richiedevano accertamenti diagnostici e altre visite, nonché
provavano terapie. Ma queste probabilmente sono
esperienze ascrivibili già alla fase successiva.
Pur non
potendo rammentare direttamente il vissuto dei miei genitori, so che mio padre,
a seguito della sventura della grave non autosufficienza di
mio fratello (quasi quarant’anni fa) a detta di chi lo conosceva bene era molto
cambiato, dicevano che si era chiuso. Mia mamma invece
viveva l’evento come una terribile sventura, un’ingiustizia che si era
abbattuta sulla sua vita; e non se n’è mai fatta una ragione.
Dal vissuto, appreso anche dalla realtà di altre
famiglie, posso confermare come la conoscenza dell’evento abbia in genere un
impatto tragico e sentito come assai avverso.
Questo avvenimento in primo luogo fa crollare le aspettative
che, legittimamente, un nucleo familiare può nutrire nei confronti di un figlio
atteso. Tramontate subito le aspettative, si pone
innanzi un mondo irto di difficoltà e fino allora, in genere, sconosciuto.
Difficoltà che il nucleo genitoriale dovrà affrontare nel prosieguo
della vita e che appaiono quasi subito insormontabili.
Rapporti
sociali
Il trauma è grande. A volte subentrano sensi di colpa
di varia natura. Ci si domanda “perché proprio a me?” Il cambiamento di vita,
l’adattamento necessario dei componenti del nucleo
familiare ha un impatto pesante. La stessa vita di coppia è accantonata, quasi
non esiste più.
Mia madre,
mai rassegnata abbastanza, si faceva totalmente carico del peso (fisico e
psichico) del problema. Mio padre, sempre più chiuso in se stesso, bruciava
sigarette e alcool; dopo il lavoro, la tv era la sua principale occupazione.
I parenti
lontani si limitavano ad un contatto telefonico ogni
tanto. Quelli vicini erano più che altro di conforto morale. A dire il vero
facevano attenzione a non gravare ulteriormente su una situazione familiare che
riconoscevano essere assai critica (se c’era da assistere qualcuno non chiedevano la nostra collaborazione…). Ma
per il resto ciascuno rimaneva stabilmente nella propria ristretta cerchia
familiare, nel proprio mondo; un confine chiaro e ritenuto sufficiente a
giustificare la mancanza di tempo e le difficoltà per intervenire adeguatamente
a supporto. Effettivamente non ricordo che si siano mai proposti per sgravare
per qualche giorno mia madre dal peso dell’accudire mio fratello; probabilmente
mia madre non si sarebbe separata da mio fratello neanche per qualche ora… ma
tant’è. Eppure per mia madre anche solo la presenza dei parenti era una importante valvola di sfogo; quando ci si incontrava si
confidava senza timori, tirava fuori ciò che l’assillava dentro (seppur
ripetendo spesso le stesse cose); ma ciò era utile per poter continuare ad
andare avanti.
Per quanto
riguarda i rapporti sociali, questi erano per lo più coltivati con famiglie che
condividevano il problema, ossia tenevano anche loro il fardello. In
quell’ambito ci si sentiva veramente compresi e si sapeva che quel figlio
handicappato era accettato, o almeno non dava fastidio. Un mondo nel mondo, che
forse – a dire il vero – nonostante il mutuo-aiuto che forniva, contribuiva ad isolare ancor di più.
Prevenzione
Ma se il nucleo familiare rimane solo, in genere non ce
la fa. Non poche sono le coppie che in seguito all’evento handicap aprono
conflitti familiari forti e giungono persino alla separazione.
A questo proposito è importante richiamare il positivo
servizio di consulenza educativa domiciliare attivato qualche anno fa dal
Comune di Torino (1).
Sapere di avere un figlio con handicap al giorno d’oggi può ovviamente avvenire ancor prima della
nascita, cioè già nel grembo materno. Tecniche diagnostiche opportune
consentono di accertare precocemente la presenza di alcune tipologie di
problematiche. In questo ambito è importante la
prevenzione neo-natale (esami clinici, terapia farmacologica, ecc.), sino ad
arrivare alla possibilità di ricorrere all’aborto terapeutico, riconosciuto
dalla legge ma che personalmente non sarei d’accordo a scegliere come
soluzione.
Per contro occorre evidenziare la presenza di alcune
famiglie, rare ma ne esistono, che davvero con coraggio (e forse un po’ di sana
incoscienza), si fanno carico di affidamenti o di adozioni di bimbi con gravi
problemi di handicap. Una scelta da ammirare (ma anche
da cercare di comprendere nelle ragioni più profonde) che ha consentito e consente a bambini soli di crescere in una famiglia (2).
Sicuramente, nei primi anni, un bambino con handicap ed un bambino normodotato hanno in genere bisogno entrambi
di attenzioni importanti, trattandosi di soggetti ambedue non autosufficienti.
E sotto diversi punti di vista i primi anni forse sono quelli meno pesanti per
il nucleo familiare, quelli forieri di speranza, la speranza che prima o poi, in qualche modo, si perverrà ad una soluzione.
Questa situazione si colloca in una fascia temporale
che, come una sorta di fascia protetta, di limbo, prosegue grosso
modo fino all’età della scuola dell’obbligo, nell’età dello sviluppo.
La seconda
fase
La seconda fase è quella ove, affrontato l’impatto
iniziale ed in qualche modo accettata la nuova
situazione, si intraprendono, con un certo carico d’ansia, tutta una serie di
ricerche, di peregrinazioni per trovare una cura, un rimedio, una soluzione,
insomma, che possa riportare alla normalità o quasi la situazione.
Ciò comporta, in genere, la frequentazione di medici e
di centri specializzati; ci si spinge fuori città, magari fuori regione o
all’estero; si provano terapie e si esperimentano farmaci nuovi… Alla ricerca,
a volte, di un miracolo.
Ricordo
quando alcuni conoscenti ci consigliarono un nuovo specialista. Dicevano che
era un luminare. Allora, anche se un po’ lontano, fissammo un appuntamento per
una visita (ovviamente a pagamento) e andammo. Papà smontò da lavoro
eccezionalmente a metà turno. Mamma preparò i panini da consumare durante il
viaggio e una borsa piena di esami e referti da mostrare. Però
il professore disse che questi accertamenti erano vecchi e non sufficienti. Ci
informò dell’esistenza di una nuova tecnica di indagine,
all’avanguardia nell’approfondire la conoscenza del cervello del bambino. Ma l’apparecchiatura
era presente solo presso una clinica privata, ed era all’epoca unica nella
nostra Regione. Nonostante che l’esame fosse assai caro, lo facemmo lo stesso.
L’accertamento confermò le indicazioni precedenti. E purtroppo il professore
disse che non c’erano molte speranze per una “guarigione”. Occorreva aver
fiducia sullo “sviluppo”, al termine del quale avrebbero potuto forse
consolidarsi dei miglioramenti. Nel frattempo consigliava di provare delle
terapie, utili quanto meno a contenere eventuali
aggravamenti o evitare sintomatologie indesiderate.
Dopo qualche
tempo mio fratello prese a camminare malamente, appoggiava i piedi in maniera
irregolare, claudicante. A volte cadeva sulle
ginocchia. Il medico di base diceva che aveva bisogno di una correzione
plantare. Acquistammo le scarpe ortopediche ma il problema non rientrava, anzi.
Erano giorni assai cupi. Problema su problema.
Prendemmo appuntamento per un’altra visita (a pagamento) dal luminare: la causa
– affermò il professore – doveva ascriversi ad un
effetto collaterale dei nuovi farmaci. Occorreva dunque sospendere subito la
terapia prescritta. Il tempo dello sviluppo passò, progressi però non se
n’erano visti. Il luminare ci disse che non c’era niente da fare, occorreva
rassegnarsi. A meno di qualche futura e straordinaria novità
in campo medico.
La terza
fase
Dopo aver accettato in qualche modo l’infausto evento
e successivamente ricercata senza grossi successi una
soluzione (medica), spesso, il nucleo familiare vive una profonda disillusione.
Questa nuova esperienza il più delle volte si
riconduce ad una “accettazione passiva”, ovverosia a
quel compromesso tra apparente accettazione e rifiuto inconscio.
Non sapendo più dove sbattere
la testa rimangono alcune strade e alcune illusioni. In genere vane speranze (e
spese). Tra queste addirittura il soprannaturale, magari col
pranoterapeuta di turno.
Andammo pure
noi dal pranoterapeuta. Anzi, era una pranoterapeuta. L’idea nacque leggendo un
quotidiano. In un articolo di cronaca locale si esaltavano le doti di una
guaritrice, una signora che riceveva in Torino. I miei presero contatti e vi
portarono mio fratello. La guaritrice alla prima visita era accompagnata anche
da un medico che, onestamente, disse subito che secondo lui c’era poco da fare.
Ma ci si aggrappò al miraggio di un eventuale miracolo e si concordarono
comunque una mezza dozzina di sedute. Si pagava alla fine di ogni trattamento,
ma non ricordo quanto costasse. So solo che dopo tre o quattro incontri senza
esiti i miei, presi dunque da un’altra delusione, troncarono lì.
Questa terza fase accentua di norma una chiusura della
famiglia (o di ciò che rimane di essa). Una chiusura peraltro fortemente
alimentata da tutta una serie di forti ed oggettive
difficoltà.
Difficoltà
oggettive
È assai pesante accudire una
persona non autosufficiente: lavarla, vestirla, imboccarla, assisterla, non
lasciarla mai sola, ogni giorno e ogni notte, ogni istante dell’anno (un eterno
bambino).
Ciascuna persona ha poi un suo carattere, le sue
abitudini, le sue manie, delle sue esigenze che vogliono essere soddisfatte. A
volte, alle necessità assistenziali, sono associate
malattie croniche che concorrono chiaramente ad aggravare ancora di più la
situazione.
La disillusione ereditata a seguito degli scarsi o
inefficaci risultati di cure e terapie, unita alla difficoltà ad intravedere prospettive future, con la consapevolezza che
il figlio avrà sempre bisogno di qualcuno accanto, rendono assai gravosa la
giornata passata ad accudire il figlio, unito alla madre con un cordone
ombelicale mai reciso. E quando il legame si spezzerà?
Il “dopo di
noi”
Il problema del “dopo di noi”, forse il problema dei
problemi, si affaccia perentoriamente nella terza fase e diventa sempre più
insistente con l’avanzare dell’età dei componenti del
nucleo familiare.
Ricordo che mia madre, quando ne aveva
occasione, esternava le sue preoccupazioni (possibilmente di nascosto da me)
per quel tempo in cui non avrebbe potuto più accudire suo figlio. Che ne sarà
di lui? si chiedeva. Se dentro di sé, forse, confidava
in un mio futuro intervento, era però assolutamente decisa a non condizionare,
a compromettere la mia vita. Pertanto il suo desiderio (a parte la speranza di
ricevere una “grazia”, per cui ricordo più di un viaggio a Lourdes) era quello
di poter morire solo dopo suo figlio. Ma ciò non si è
avverato. È mancata relativamente giovane, spegnendosi lucidamente, con
l’angoscia nel cuore per il figlio bisognoso che, volontà del destino, doveva
abbandonare. Nessuna madre dovrebbe morire come è
morta mia madre. Il problema del “dopo di noi” dovrebbe essere affrontato
prima!
È vero che questo è di per sé un tema ostico. Mette necessariamente in evidenza sia la questione della
morte – così tanto inconfessata nella nostra società – sia quella
dell’abbandono del proprio figlio. Ma ciò che rende in genere più pesante la
questione è la carenza di risposte adeguate da parte
delle istituzioni. Peraltro, informazioni carenti o
scorrette in merito ai servizi assistenziali o sanitari erogati nonché ai
diritti esistenti, costituiscono un elemento di aggravio al problema.
Quando anni
fa mia madre ebbe necessità di subire un intervento chirurgico, con conseguente
esigenza di una assistenza residenziale temporanea –
solo qualche giorno – per mio fratello, l’assistente sociale di turno
interpellata rispose che la comunità alloggio, l’unica del nostro territorio,
era piena e bisognava aspettare che si liberasse un posto. In sostanza
occorreva rimandare l’intervento o arrangiasi in altro modo.
Il comportamento dei servizi sociali fu evidentemente
biasimevole. Una risposta del genere è riprovevole. Non solo verso il problema
immediato che non viene soddisfatto, ma per il
messaggio che veicola: «guarda famiglia che il “dopo di noi”
non è garantito, devi occupartene tu».
La realtà per fortuna non è sempre così. Ma ciò lo imparai solo più tardi, grazie ad alcune
associazioni di volontariato che si battono veramente per la difesa dei diritti
delle fasce più deboli.
Peraltro, non avremmo dovuto agire chiedendo solo a
voce ma anche attraverso uno scritto: avremmo dovuto pretendere il ricovero di
mio fratello, ai sensi degli articoli 154 e 155 del regio decreto 773 del 1931
(3). Ma ciò non lo sapevamo e, nonostante un preciso
diritto, non ci fu neanche suggerito (4).
Diversi anni dopo, in occasione della necessità di un
ricovero di emergenza, tale procedura fu messa in atto
con esito positivo (5).
L’integrazione
Possibili e non rari problemi di integrazione,
frutto di ignoranza e preconcetti, costituiscono, altresì, ulteriori difficoltà
e sofferenze per le famiglie.
Ricordo
quando ci trasferimmo in un piccolo Comune della provincia di Torino. Mio
fratello fu iscritto alle scuole elementari. Il futuro maestro, che peraltro
era anche parroco del paese, non voleva che stesse nella sua classe. Diceva che
avrebbe dato fastidio. Era convinto che disturbasse gli altri bambini e non ne
voleva proprio sapere! La sua decisione però sollevò per fortuna un vespaio
dentro e fuori la scuola, tanto che si mossero il sindaco e vari politici
locali. Dopo alcuni incontri e varie rassicurazioni il problema si sistemò e
mio fratello poté frequentare la scuola: in un’altra sezione, però.
Dopo la
scuola
Terminato il periodo dell’obbligo scolastico,
garantito per tutti i bambini, si va incontro all’incertezza dei servizi assistenziali. Se oggi è abbastanza estesa
(almeno in Torino e provincia) la presenza di strutture diurne che
quotidianamente accolgono i ragazzi con gravi handicap per consentire loro di
socializzare e alla famiglia di respirare un po’, fino a qualche anno addietro
questo indispensabile servizio, volto a mantenere il ragazzo il più possibile
in famiglia, non era affatto diffuso.
Al termine
dell’obbligo scolastico, e dopo tutte le ripetizioni possibili, a mio fratello
toccò di rimanere a casa: nessun servizio assistenziale
a supporto della famiglia era disponibile. Furono anni difficili. Peraltro, dei
nostri amici avevano deciso di sistemare il loro figlio handicappato grave in
una struttura residenziale, in un istituto lontano. Nella mente della mia
famiglia la tentazione di una soluzione del genere si faceva ogni tanto spazio,
anche se vinceva su tutto l’affetto, il forte legame, rispetto alla decisione
di segregarlo. Paradossalmente il posto in un istituto c’era, mentre il centro
diurno territoriale, che avrebbe dato alla famiglia quel sostegno
indispensabile per continuare ad accogliere il proprio figlio, no.
Dopo qualche
tempo mio fratello fu seguìto saltuariamente a domicilio. Un educatore (o una educatrice) veniva a casa per qualche ora alla settimana
a fargli fare delle attività. Il turn-over degli operatori era frequente.
Alcuni riuscivano a conquistare la nostra fiducia e si rendevano
conto che era la famiglia ad aver bisogno di rifiatare e le attività che
svolgevano erano soprattutto attività esterne (passeggiate, utilizzo del
pullman, ecc.). Altri un po’ meno. Comunque sia,
l’educatore in casa impegnava anche la famiglia, che non poteva contare su quel
necessario sollievo.
Diversi anni
più tardi arrivò l’ambìto posto in centro diurno,
seppur inizialmente a tempo parziale e non per
tutti i giorni della settimana e con vari problemi soprattutto per il
trasporto. Ci vollero poi altri anni e lunghe battaglie perché il servizio si
trasformasse finalmente in tempo pieno.
L’aspetto
economico
Chiaramente pure l’aspetto economico ha la sua
importanza. Ma la situazione è disastrosa.
È evidente come una famiglia con una persona con
handicap grave sostenga maggiori spese: cure mediche, vestiario e calzature che
si usurano più in fretta del normale, ausili, attrezzature, alimenti
particolari... E la pensione di inabilità, erogata dal
diciottesimo anno di età, è scandalosamente insufficiente per vivere (nel 2008
è pari a 247 euro al mese per le persone totalmente inabili al lavoro), così
come l’indennità per chi non è in grado di deambulare autonomamente o di
espletare le funzioni essenziali della vita (465 euro al mese).
Senza contare che si riscontra quasi
sempre la forzata rinuncia al lavoro di un componente della famiglia per
accudire il figlio handicappato, il cui carico assistenziale gran parte delle
volte pesa sulla mamma.
Tutte queste difficoltà fanno sovente da concausa al
fallimento del rapporto matrimoniale. Per non parlare di casi di tragedie
familiari, che purtroppo con cadenza costante, con più o meno
risalto, possiamo leggere sui giornali.
Opportunità
Parallelamente a tutto ciò il problema handicap,
spesso drammatico e sconvolgente, può rappresentare per il nucleo familiare una opportunità di approfondimento del significato
dell’esistenza. E ciò per il nucleo familiare può apparire quasi una necessità
al fine di ritrovare una motivazione di fondo che
consenta di sopportare il peso. Una sorta di sublimazione, insomma.
Laddove, in alcuni casi, si arriva ad accettare
pienamente l’evento, la coppia si salda di più, trova un collante forte.
Trasformare interiormente un evento di per sé disgraziato in un’opportunità è
comunque una svolta non da tutti. Se la capacità di approfondire una nuova
particolare realtà è per taluni una questione di fede, per tutti è sicuramente
legata alla maturazione di una sensibilità nuova, acquisita grazie all’infausto
evento, che permette un’apertura e una maggiore attenzione alle esigenze del
prossimo.
Questo “frutto”, derivato dall’approfondimento di
un’esperienza personale, rimette in discussione le priorità e relativizza la
scala dei valori del proprio progetto di vita. Esso
può costituire un importantissimo approdo a livello personale, perché
probabilmente risolve – per quella coppia o per quel singolo – il problema alla
radice.
Ma purtroppo questo percorso è molto “intimo” e non
automaticamente ripetibile.
Conclusioni
Senza la pretesa di aver effettuato
un’analisi esaustiva e in modo quasi aneddotico, ho provato – sulla base della
mia esperienza – a tratteggiare il percorso di un nucleo familiare che si
imbatte direttamente nell’esperienza handicap.
Con ciò ho cercato di evidenziare una serie di
problematiche e difficoltà oggettive che contribuiscono, in ciascuna delle fasi
schematizzate (il momento in cui i genitori vengono a
conoscenza della realtà dell’handicap, la ricerca di una soluzione con
il proposito di far recuperare al soggetto handicappato una condizione il più
possibile di normalità, il periodo in
cui, ad un certo punto, prevale una sorta di “passiva accettazione”), a far
ripiegare drammaticamente su se stesso il nucleo familiare già pesantemente
colpito dall’evento.
Le necessità, mostrate più o meno
esplicitamente nell’articolo, appaiono abbastanza chiare, e forse potrebbero
essere in buona parte anticipate e risolte se solo si potesse contare su
diritti esigibili e sulla predisposizione di interventi appropriati e certi da
parte delle istituzioni.
(1) Ulteriori informazioni sono
presenti nell’articolo di Enza Lavagna, “Consulenza educativa domiciliare: un
servizio per la primissima infanzia colpita da handicap”, Prospettive assistenziali, n. 142, 2003.
(2) Si veda il “Notiziario
Anfaa”, Ibidem, n. 162, 2008.
(3) Dall’articolo del noto
giurista Massimo Dogliotti “I minori, i soggetti con handicap, gli anziani in
difficoltà… ‘pericolosi per l’ordine pubblico’ hanno ancora diritto ad essere
assistiti”, pubblicato sul numero 135, 2001 di Prospettive assistenziali, risulta che i Comuni sono obbligati, ai
sensi degli articoli 154 e 155 del regio decreto 773 del 1931 (testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza) e del relativo regolamento (regio
decreto 635/1940), ad assistere i soggetti con handicap inabili a qualsiasi
lavoro proficuo, nonché i minori e gli anziani in difficoltà che non abbiano i
mezzi di sussistenza sufficienti per vivere. Ricordiamo che l’obbligo di
provvedere ai minori può essere disposto dal Tribunale per i minorenni.
(4) A questo proposito è utile
ribadire che se i soggetti con handicap con limitata o nulla autonomia, i loro
tutori e le associazioni costituite per la difesa delle loro esigenze e dei
loro diritti lo volessero, potrebbero pretendere dai Comuni le prestazioni
occorrenti per assistere coloro che non sono capaci di provvedere a se stessi.
Pertanto, il “dopo di noi” potrebbe essere risolto.