Prospettive assistenziali
n. 166 aprile
giugno 2009
Oltre
il caso Englaro
CLAUDIO CIANCIO *
1. Il bipolarismo politico produce i suoi effetti
devastanti estendendosi ad altri ambiti, in particolare a quello del pensiero e
della cultura e a quello religioso. La mancanza di sfumature, l’ostracismo dato
alle posizioni intermedie o a quelle che tentano vie nuove, dominano
non solo il dibattito politico e le rappresentazioni mediatiche, ma anche il
confronto culturale o religioso. È accaduto così che nel caso Englaro un
giornale come Avvenire, che spende
l’autorevolezza di organo della Cei, abbia usato toni alla Sgarbi. I punti di
vista si contrappongono violentemente e soprattutto coloro che si ritengono per
mandato divino depositari di un possesso sicuro della verità non esitano a fare
di questo possesso una clava da usare contro gli avversari senza risparmiare
colpi. Costoro, ma spesso anche i loro avversari, hanno della verità un
concetto dogmatico, che rende impossibile il confronto fra diversi punti di
vista, confronto che non presuppone necessariamente
una visione relativistica, ma piuttosto la convinzione che la verità è più
grande dei nostri punti di vista e come tale li può anche accomunare.
Qualche segnale confortante giunge peraltro da iniziative
e reazioni contrarie a questa bipolarizzazione esasperata, che sorgono
all’interno del mondo cattolico. Vorrei segnalare, anche perché proviene da
Torino (ma iniziative analoghe si sono sviluppate anche in altre città), il
documento sul caso Englaro diffuso dal coordinamento di associazioni e laici
cattolici “Chicco di senape”, che ha raccolto circa 430 firme e che persino un
giornale diocesano ha pubblicato. Ecco qualche stralcio: «[…] Nessuno, neppure la Chiesa, maestra di vita, dispone
di risposte certe in casi delicati come questo, dove il confine tra
accanimento terapeutico e difesa della vita è controverso. Più competenze e più
voci debbono essere prese in considerazione, tutti –
credenti, laici e presbiteri, e non credenti – devono essere ascoltati con
rispetto, e la parola dei pastori deve aprire alla speranza, incoraggiare la
misericordia, sostenere il travaglio delle coscienze. La comunità cristiana
torinese […] susciti un processo serio e impegnativo di riflessione sulle nuove
tecniche alla luce del disegno di Dio sulla creazione, riflessione che non si
arresti a una concezione biologistica della vita, estranea alla Bibbia e alla
tradizione cristiana. La difesa della vita, per noi cristiani, impone di
proteggere, anche nelle leggi, nella politica, nell’economia, prima di tutti le
schiere dei più poveri, oppressi, esclusi, discriminati, scacciati, perché essi
sono le immagini più dirette di Cristo stesso, che si identifica
nel ferito sulla via, come nel samaritano che se ne prende cura. Alta e forte
si faccia sentire la voce dei credenti contro chi, strumentalizzando
le insicurezze, diffonde un clima di intolleranza e di discriminazione e contro
chi accresce il proprio benessere costruendo armi e diffondendo guerre. […] La gerarchia deve evitare di intervenire nella
discussione politica, pretendendo o fingendo di rappresentare i cattolici.
Nelle questioni politiche i credenti si rappresentano da soli e alla gerarchia
spetta l’alto compito di custodire e richiamare i limiti, oltre i quali il
Vangelo è esplicitamente e
chiaramente tradito».
Un documento come questo tenta di uscire dalla stretta
bipolare anzitutto interna alla Chiesa. Sembra infatti
che si possano considerare credenti a pieno titolo solo quelli che su casi come
questo seguono alla lettera le indicazioni della gerarchia ed anzi le
esasperano. È sintomatico che vi sia stata una spinta
all’esasperazione da parte di giornali cattolici come Avvenire e da parte di movimenti e associazioni, che nei toni e
nelle azioni sono persino andati al di là delle posizioni e dei pronunciamenti
del Papa e dei Vescovi. Contro questo tentativo di opporre cattolici e laici e
di dividere i credenti stessi va riaffermata la
responsabilità dei laici nel decidere autonomamente su questioni come quella
che si è posta nel caso Englaro, e cioè se alimentazione e idratazione
artificiale siano o no trattamento terapeutico. Sempre più la gerarchia
ecclesiastica scende nel dettaglio, cioè nella prescrizione di norme
particolari e fondate su una valutazione non di fede, ma di tipo politico o
scientifico. Che il riconoscimento della responsabilità dei laici a decidere
autonomamente tali questioni e quindi della possibilità di posizioni differenziate non appaia oggi ovvio è una prova degli
effetti nefasti del bipolarismo che, anche nella Chiesa, consente di schierarsi
soltanto per una delle due parti. Quel documento citato e molti altri
interventi mostrano che fortunatamente è in atto una resistenza contro questa
tendenza, resistenza che però non trova, come si dice,
molta visibilità, perché non fa spettacolo, come invece lo fa la rissa
bipolarista.
2. Ma veniamo alle questioni di fondo
poste dal caso Englaro e prima dal caso Welby. Le questioni riguardano il
diritto alla cura in qualsiasi condizione, l’accanimento terapeutico e il
diritto all’autodeterminazione riguardo alla propria salute e alla propria
vita. Conviene partire dal secondo, perché molte delle questioni oggi sul
tappeto nascono dall’affinarsi delle tecniche mediche. Teoricamente sono tutti
d’accordo nel rifiuto dell’accanimento terapeutico. Sfortunatamente questo orientamento comune nella pratica si divarica in
tendenze opposte e ciò a causa di due nuovi fattori: da un lato il fatto che la
Chiesa cattolica oggi fa della difesa della vita una questione assolutamente
prioritaria, dall’altro la tendenza della politica a entrare sempre più nelle
questioni della vita.
Ne discendono due conseguenze. La prima è una grande
confusione fra questioni di principio e questioni
tecnico-scientifiche. Non si capisce bene se la divergenza sia sulle prime o
sulle seconde, e si ha l’impressione che le prime siano affermate col pretesto
delle seconde. È una tipica situazione di scontro ideologico, quello cioè in
cui le argomentazioni hanno un puro valore strumentale e non si ha interesse a
una ricerca condivisa della verità (dimenticando che la verità,
se non crea unanimità, è però per sua natura condivisibile). La seconda
conseguenza è che, sovraccaricando gli aspetti tecnico-scientifici di valenze
ideologiche, non pare più possibile trovare soluzioni empiriche e di buon senso, come avveniva in passato. Così non sembra più
accettabile che il concetto di accanimento terapeutico
abbia confini incerti, ma al contrario, nel timore di pur possibili abusi, si
pretende di tagliare i confini con il bisturi, dimenticando che, come
sostengono molti scienziati, è estremamente difficile stabilire quando inizi la
vita e quando subentri la morte. Volendo che tutto sia o bianco o nero viene
del tutto dimenticata quell’esperienza, così centrale nel modo in cui un tempo
si viveva la morte, che è l’agonia. E che cos’è la sopravvivenza vegetativa
dipendente dalle macchine, quando sia ragionevolmente e prudentemente accertata
l’impossibilità di un ritorno alla vita cosciente, se non un prolungamento dell’agonia,
che denota accanimento tecnico e ideologico allo stesso tempo e una completa
mancanza di rispetto per la persona? E accade ancora – segno chiarissimo di
accecamento ideologico – che a favore di questo
accanimento si concentri ogni impegno e ogni energia morale, politica,
organizzativa. Se così non fosse, allora di fronte alle migliaia di bambini che
ogni giorno muoiono affamati e disidratati nei paesi poveri
dovremmo vedere una mobilitazione continua, con manifestazioni, preghiere,
interventi, proclami reboanti, decreti d’urgenza, come è avvenuto per il caso
Englaro. Se poi si vuole accampare la scusa che si tratta di problemi non del
nostro Paese, allora sarà il caso di ricordare almeno il diverso trattamento,
rispetto ai malati in stato vegetativo permanente, a cui
sono sottoposti da noi molti anziani malati cronici che, come dimostrano ad
esempio le denunce della Fondazione promozione sociale, vengono abbandonati
alle famiglie e privati delle cure necessarie, oppure ospitati in strutture i
cui standard di cura e assistenza sono assolutamente insufficienti. Questi
trattamenti sono eutanasia.
Il diritto alla cura non va tanto sbandierato nei casi
estremi, quanto piuttosto concretamente garantito anzitutto nei casi in cui,
pur non essendoci speranza di guarigione, vi sia però
la possibilità di alleviare le sofferenze e di mantenere il paziente in una
condizione umana. Molto diverso è il caso in cui resta solo la possibilità di
prolungare una vita vegetativa: in questo caso non vi è alleviamento delle sofferenze,
ma soltanto prolungamento dell’agonia, ostinazione nell’impedire che la natura
(tante volte invocata a sproposito) faccia il suo corso, un’ipertecnicizzazione
della vita nella quale ogni senso di umanità è perduto. Queste verità
elementari non sono per lo più riconosciute, perché più che la verità sembra
importare l’appartenenza a uno schieramento e la sua esibizione.
3. Ma il caso Englaro, con il richiamo a una pregressa volontà di Eluana, e ancor più il caso Welby,
hanno messo in gioco un’altra questione, la libertà di rifiuto delle cure,
riconosciuto dall’art. 32 della Costituzione, che recita al secondo comma: «Nessuno può essere
obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di
legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto
della persona umana». È chiaro che si tratta di
una norma da interpretare, ma certamente un intervento forzato, che costringa a
subire un trattamento sanitario non voluto, non è conforme, eccettuati i casi di interventi di tutela della salute pubblica come le
vaccinazioni, al “rispetto della persona umana”.
La via che molti propongono per risolvere il problema
è, come noto, quella del testamento biologico. Ora non sono certo che si tratti
di una soluzione, e ciò non soltanto nel caso Englaro, nel quale il riferimento
a una supposta intenzione di Eluana è indubbiamente un argomento un po’ debole.
In realtà non sarebbe molto diverso il caso di chi facesse un testamento
biologico con tutti i crismi. Come si può esser certi che
una persona che abbia fatto quel testamento non possa in un tempo successivo,
quando magari non è più in grado di manifestare la propria opinione, essere di
altro avviso? Mi pare che nei casi estremi, più che il presunto rispetto della
volontà del paziente, sia decisivo il rifiuto dell’accanimento terapeutico,
cioè del semplice prolungamento dell’agonia (che in molti casi è opportuno
abbreviare, per evitare sofferenze atroci, anche nel caso di pazienti
coscienti).
Il cosiddetto partito della vita si è fatto forte del
rischio di scivolare verso una graduale legalizzazione dell’eutanasia. In effetti tra i sostenitori dell’opportunità di
interrompere le cure a Eluana c’era anche chi voleva affermare il diritto
all’eutanasia. Cercherò di argomentare contro questo diritto, ma non senza prima rilevare che anche qui la contrapposizione fra i due
schieramenti è di una rigidità che fa torto alla verità. Per gli uni non c’è
alcuna disponibilità sulla propria vita, per gli altri questa disponibilità
deve essere illimitata. Ora la totale delega allo Stato e al medico riguardo
alla decisione di proseguire le cure è, nel caso del paziente cosciente, una
palese violazione della norma costituzionale; nel caso invece del paziente
incosciente deve trovare un limite nella distinzione che ho proposto, ben
consapevole delle sue difficoltà, fra cura e semplice prolungamento
dell’agonia, distinzione che deve essere discussa e decisa fra medici e
familiari.
A una totale delega allo Stato e al medico non può
tuttavia essere opposta la totale delega al paziente o ai famigliari. Ho
l’impressione che vi sia come una lacuna o forse soltanto un sottinteso negli
ordinamenti giuridici a riguardo degli obblighi che ciascuno ha verso se
stesso. L’articolo 5
del Codice civile stabilisce che «gli
atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una
diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti
contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume». La norma così
formulata si lascia facilmente interpretare, come alcuni fanno, nel senso di
una difesa dell’integrità della razza di ispirazione
fascista. Si potrebbe però assegnare ad essa (a parte
i riferimenti all’ordine pubblico e al buon costume) un altro significato, che
si fonda su tutt’altro principio. Nella sfera morale questo principio è stato
ad esempio affermato da Kant quando ha indicato fra i doveri di virtù la
ricerca della propria perfezione, tanto da considerare il sacrificio della
propria felicità, per procurare la felicità altrui come «una massima in se stessa contraddittoria, se la si
erigesse a legge universale» (1).
Analogamente si potrebbe considerare la cura di se
stessi come un’obbligazione giuridica o meglio, poiché la legge può solo
prescrivere i limiti del lecito, può diventare giuridicamente obbligatorio non
danneggiare se stessi nel senso della norma del Codice civile sopra richiamata.
Beninteso tale norma non può essere estesa al di là della
stretta integrità fisica, altrimenti si finirebbe per imporre un determinato
modello di bene, sconfinando dal giuridico all’etico. Ma qual è il fondamento
di questa obbligazione verso se stessi? L’obbligazione
è giustificabile soltanto se il soggetto tenuto a rispettare la norma è in
certo modo distinto dal soggetto nei confronti del quale tale rispetto si
applica, in altri termini, se noi siamo obbligati verso noi stessi (allo stesso
modo in cui abbiamo obbligazioni verso gli altri). Questa
obbligazione è tutt’altro che scontata e si giustifica sulla base di una
considerazione della persona molto diversa da quella propria del pensiero
radicale-individualistico largamente diffuso, per il quale ognuno è
semplicemente padrone di se stesso. Si tratta qui di una concezione monolitica
della persona, per la quale il sé volente è indistinguibile dal sé oggetto
della volizione e di conseguenza è anche svincolato da ogni limite. Diversa la
concezione secondo la quale la struttura della persona è complessa, nel senso
che è relazione non solo con gli altri ma anche con
sé: «soi-même
comme un autre», per usare una celebre espressione di Ricoeur. Solo questa
concezione mi pare accettabile, anzitutto perché solo essa rende ragione della
coscienza, cioè di ciò che costituisce la specificità dell’essere umano. Ma il fatto che siamo altri rispetto a noi stessi comporta
che la nostra libertà abbia delle obbligazioni, morali e giuridiche, verso noi
stessi come verso gli altri. Quell’altro che noi siamo
esige rispetto da noi stessi così come lo esige dagli altri. Ne consegue la
povertà e rozzezza di slogan come «Il
corpo è mio e lo gestisco io». Su questo tema si potrebbero svolgere
considerazioni molto importanti, ad esempio si potrebbe mostrare come il
rispetto dell’altro e l’incontro con l’altro siano possibili
solo se quella dell’alterità è una dimensione costitutiva dell’identità
dell’io, senza la quale difficilmente si giustificano atteggiamenti diversi da
quello della lotta delle identità. Ma limitiamoci qui
al tema proposto per trarne qualche conseguenza possibile.
In primo luogo dall’obbligo anche giuridico di
rispettare se stessi consegue l’illegittimità del
suicidio (o di gravi mutilazioni), il che non comporta, per ovvi motivi,
l’irrogazione di sanzioni, ma giustifica la legittimità di interventi attivi
per impedire quegli atti. Analogamente non mi pare lecita l’eutanasia, anche
quando richiesta dal paziente. In questi casi la società e l’ordinamento
giuridico devono assumere la difesa e il rispetto della persona, anche contro
la sua volontà. Mi pare importante sottolineare questo
punto, perché nel rifiuto dell’accanimento terapeutico non si devono insinuare
motivazioni improprie, che finirebbero inevitabilmente per giustificare le
opposizioni rigide, che ne limitano l’ambito di applicazione sulla base del
sospetto di eutanasia. Che è precisamente ciò che è avvenuto nel caso Englaro.
A mio avviso il richiamo della Chiesa cattolica alla
difesa della vita non va sottovalutato, se è un richiamo all’indisponibilità
ultima della vita dell’altro (e quindi, come ho detto, anche della propria).
Indisponibilità che, in positivo, significa rispetto e cura, quel rispetto e
quella cura che sono largamente contraddetti da
un’impressionante quantità di omissioni che quotidianamente vengono fatte. E
non si può sempre dire che le omissioni non siano giuridicamente sanzionabili.
Una dimissione forzata di un anziano cronico oppure il lasciare un barbone
morire di freddo o respingere immigrati in condizioni disperate sono atti
facilmente configurabili come omissione di soccorso. E se
anche non fossero giuridicamente sanzionabili, sarebbero moralmente e
politicamente inaccettabili. La qualità morale e politica di una società
la si giudica da questi atteggiamenti e non
dall’accanimento a tenere in vita vegetativa una persona per diciassette anni.
O, se proprio si vuole, solo una società che mostra quella sensibilità può
sensatamente porsi il problema dell’opportunità di una sopravvivenza puramente
vegetativa o dello statuto umano o non umano degli embrioni. Se manca quella
sensibilità, allora è chiaro che le difese assolute della vita sono pura
ideologia o paraventi ideologici. Assistiamo così a una lotta furibonda nella
quale ambedue i contendenti sbagliano obiettivo. Gli uni confondono la difesa
della vita umana con la difesa della sopravvivenza
biologica mostrando scarso rispetto per la dignità della persona ridotta a un
corpo da esibire e da usare come bandiera; mentre il rispetto richiederebbe un
silenzioso e nascosto accompagnamento alla morte. Gli altri confondono la
libertà di autodeterminazione con un diritto senza limiti di disporre
della propria vita.
I tempi non sono favorevoli alla riflessione e
all’approfondimento e non si bada nemmeno al fatto che la contrapposizione
ideologica mette in crisi la democrazia, perché sostituisce il metodo del
confronto, della giustificazione degli argomenti e della reciproca persuasione
con quello della violenza, sia pure verbale e argomentativa. Forse però in un
momento in cui non si è sotto la pressione mediatica del “caso” si può tentare di riprendere il discorso, e soprattutto
cercare di estenderlo a tutte quelle condizioni umane in cui è davvero in gioco
il rispetto della vita umana e della sua dignità.
* Professore
ordinario di filosofia teoretica, Università del Piemonte.