LA NUOVA CONVENZIONE EUROPEA SULL’ADOZIONE DEI MINORI

PIER GIORGIO GOSSO *

 

Il 27 novembre 2008 è stato aperto alla firma dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa il testo di una nuova Convenzione sull’adozione dei minori, destinata a sostituire la precedente Convenzione sulla stessa materia recante la data del 24 aprile 1967 (e ratificata dallo Stato italiano con legge n. 357 del 22 maggio 1974) (1).

L’obiettivo perseguito dai redattori di tale testo (elaborato tra il 2003 e il 2008 da un gruppo di esperti in diritto di famiglia) (2) è estremamente ambizioso. Infatti nel suo preambolo si trova scritto che – in coerenza con gli enunciati della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo e della Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 sulla protezione dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale – la nuova Convenzione si propone, nel superiore interesse del minore, di promuovere un insieme di regole comuni destinate ad armonizzare la legislazione dei diversi Stati europei per quanto riguarda la procedura adozionale e gli effetti giuridici dell’adozione, e ciò alla luce delle evoluzioni sociali e giuridiche intervenute nel corso degli ultimi anni.

In particolare, nella Fiche d’information redatta il 12 febbraio 2008 dall’addetta stampa del Consiglio d’Europa (3), è tra l’altro spiegato che la “revisione” della precedente Convenzione «risponde agli imperativi della modernità» e si adegua alla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu), della quale vengono espressamente citate due sentenze: la n. 76240/01 del 28 giugno 2007 (Jeanne Wagner e J.M.W.L. contro Lussemburgo) e la n. 43546/02 del 22 gennaio 2008 (Emmanuelle B. contro Francia). Merita, perciò, soffermarsi sul contenuto di queste decisioni:

1. Il primo caso preso in esame dalla Corte europea aveva riguardato il rifiuto opposto dai giudici lussemburghesi alla richiesta di delibazione (c.d. exequatur) presentata nel 1996 da una nubile ventinovenne che in quello stesso anno aveva ottenuto in adozione dalle autorità peruviane una bambina di tre anni in stato di abbandono conclamato curandone poi l’ingresso nella propria dimora nel Granducato (rifiuto motivato dal fatto che la legislazione interna ammette all’adozione piena di un minore solamente le coppie sposate) (4). Con decisione presa all’unanimità, i sette giudici della prima sezione della Corte avevano dichiarato che tale rifiuto aveva concretato la violazione degli articoli 6 (5), 8 (6) e 14 (7) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (Cedu), in quanto: a) i giudici lussemburghesi non avevano dato alcuna risposta alla doglianza della ricorrente circa il fatto che l’ordine pubblico avrebbe dovuto indurli ad accordare l’exequatur al provvedimento delle autorità peruviane (violazione del diritto a un processo equo); b) tale rifiuto, negando di dare riconoscimento ai legami familiari venutisi a creare de facto in virtù dello stato giuridico conferito alla minore dal provvedimento straniero, non aveva tenuto in alcun conto la realtà sociale del caso concreto (violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare); c) il mancato inserimento a pieno titolo della minore nella famiglia della ricorrente (che nel frattempo, pur restando nubile, aveva dato alla luce tre bambini, e aveva poi chiesto e ottenuto l’adozione semplice della minore) aveva costituito un’ingiustificabile disparità di trattamento nei confronti della stessa minore, che si trovava così svantaggiata rispetto a tutti gli altri minori di origine straniera, la cui adozione piena era stata riconosciuta nello Stato (violazione del divieto di discriminazione) (8);

2. Nel secondo caso, un’insegnante di scuola materna di 35 anni, omosessuale dichiarata e convivente da otto anni con la sua partner trentaduenne, si era vista rifiutare l’idoneità all’adozione internazionale di un minore da parte delle autorità, le quali, pur dando atto che la legislazione francese consente l’adozione a chiunque – anche se single o non coniugato – abbia compiuto i ventotto anni (9), avevano individuato nella mancanza di una figura paterna un impedimento  ostativo all’accoglimento della domanda, presentata nel 1998, soprattutto in considerazione del fatto che la convivente della ricorrente non si era associata alla domanda di adozione, così dando a vedere la propria indifferenza al riguardo, o quanto meno un atteggiamento ambiguo. Anche questo ricorso, discusso davanti alle sezioni unite (“Grande Chambre”) della Corte europea, aveva trovato accoglimento dopo un procedimento durato quasi sei anni (e in esito a una sofferta camera di consiglio, sfociata in una decisione maggioritaria approvata da dieci giudici e con l’opinione dissenziente degli altri sette giudici), sulla base della violazione del citato divieto di discriminazione sancito dall’articolo 14 della Cedu in riferimento all’articolo 8 della stessa Convenzione, in quanto si era ritenuto che, per negare nel caso di specie il diritto di una persona singola ad adottare (diritto ammesso, come si è visto, dalla legislazione francese), era stata posta in essere una indebita intrusione nella sua vita privata sindacandone l’orientamento sessuale e così attuando nei suoi confronti una valutazione arbitrariamente discriminatoria (10).

In margine a quest’ultima decisione merita di essere sottolineata, perché particolarmente incisiva, l’osservazione espressa da uno dei giudici dissenzienti, là dove si trova giustamente affermato che, così come non esiste il diritto a vincere il premio Nobel, certamente non esiste un “diritto ad adottare”, poiché l’essere ammessi a questa scelta non può essere considerato come una pura e semplice concessione, ma bensì come l’esercizio di un privilegio, che in quanto tale non può essere rivendicato se non se ne dimostrano le capacità (11). È lecito domandarsi, allora,  se – al di là delle affermazioni di principio – nelle due decisioni in argomento non abbia forse giuocato un peso determinante una certa qual propensione ad accondiscendere alle aspettative degli adulti.

Un interrogativo non dissimile sorge spontaneo dopo una lettura integrale del testo della Convenzione ora aperta alla firma degli Stati europei (12). E invero, sebbene a più riprese venga fatto riferimento al “superiore interesse del minore” (cfr., oltre al preambolo, gli articoli 4, 6, 9, 14 e 19), non sono davvero molte le innovazioni nelle quali sia dato di intravedere un salto qualitativo in grado di inserire nella disciplina dell’adozione un effettivo rafforzamento della tutela dell’infanzia in difficoltà. Infatti l’impianto della precedente Convenzione del 1967 ne esce sostanzialmente confermato (e, in alcuni punti, addirittura peggiorato) in tutti i suoi difetti e in tutte le sue lacune. È quanto si verifica per quel che riguarda:

a) la matrice consensuale (attuale articolo 5, sulla falsariga del medesimo articolo della precedente versione) che si continua ad attribuire all’adozione, perpetuando una dimensione privatistica di stampo negoziale definitivamente superata che mette in secondo piano il diritto preminente del minore a una valida famiglia degli affetti e ignora completamente la necessità di una forte presenza delle pubbliche istituzioni per quanto riguarda la prevenzione e l’accertamento delle situazioni di disagio familiare e le relative prestazioni di sostegno: è d’altronde estremamente significativo che nessun accenno venga circa il ruolo determinante da assegnarsi alla dichiarazione di adottabilità dei minori privi di cure familiari;

b) la revocabilità dell’adozione (attuale articolo 14, a confronto con il precedente articolo 13);

c) la possibilità che la domanda di adozione sia presentata da uno solo dei componenti della coppia (articolo 10, comma 2°, lettera c), a confronto con il vecchio articolo 9);

d) la regolamentazione dell’età degli adottanti, che all’articolo 9 continua  inspiegabilmente – così come il vecchio articolo 7 – a non porre alcun limite massimo all’età degli adottanti e alla differenza di età tra gli stessi e l’adottato, concentrandosi altrettanto inspiegabilmente sulla sola età minima degli adottanti (da fissare, a discrezione dei singoli Stati, in una fascia compresa tra i 18 e i 30 anni!). Come tutto ciò possa coincidere con gli «imperativi della modernità» sopra enfatizzati e assicurare una risposta efficace alle esigenze affettive dei minori, riesce davvero arduo immaginare.

A tutte queste conferme in negativo vengono ad aggiungersi alcune innovazioni che dilatano sensibilmente, senza essere accompagnate da adeguate motivazioni, le zone di accesso all’adozione, aprendo dei varchi gravidi di pericoli. Così è da dire per l’ammissibilità generalizzata di «altre forme di adozione ad effetti più limitati» (articolo 11, comma 4°), che così apre indiscriminatamente all’introduzione in tutto il circuito europeo vuoi della “adozione mite” e vuoi della “adozione aperta”. Altrettanto dicasi per il catalogo completo delle persone abilitabili all’adozione contenuto all’articolo 7, che comprende ormai ogni sorta di situazioni giuridiche e di fatto (dalle coppie eterosessuali e omosessuali coniugate a quelle unite da un partenariato registrato o da una stabile convivenza, alle persone singole) (13), senza che sia operata alcuna distinzione o che sia disposto alcun ordine di priorità tra le stesse. In proposito va tenuto presente che il campo di applicazione della Convenzione riguarda la sola adozione nazionale, con esclusione di quella internazionale (14): un simile allargamento, ove venisse introdotto nelle legislazioni dei singoli Stati, dilaterebbe ulteriormente il già rilevante divario esistente tra le domande di adozione e il numero dei minori adottabili, che, pur presente nel settore delle adozioni internazionali, è particolarmente elevato per quanto riguarda le adozioni nazionali (15), e determinerebbe un forte incrementando di domande di adozione destinate a non trovare accoglimento, dando così luogo ad aspettative prive di sbocco e aggravando inutilmente il campo di azione delle istituzioni addette alla valutazione degli aspiranti all’adozione.

A fronte di queste connotazioni di segno fortemente negativo, va dato atto ai redattori della Convenzione di aver introdotto qualche nuova regola in grado di indurre tutti gli Stati europei a uniformarsi nella materia adozionale a uno standard minimo di garanzie:

1) gli articoli 1, comma 2° e 11, comma 1° meglio precisano, rispetto alla precedente Convenzione (articolo 10), gli effetti legittimanti da riconoscere all’adozione piena, affermando il legame di filiazione che consegue alla sua pronuncia, unitamente alla cessazione dei rapporti giuridici con la famiglia di origine che ne deriva (16);

2) viene introdotto l’obbligo di subordinare la pronuncia di adozione al consenso del minore che abbia raggiunto una sufficiente capacità di discernimento e che, in ogni caso, abbia raggiunto i 14 anni di età (articolo 5, comma 1°, lettera b), nonché la raccomandazione di sentirlo comunque, a prescindere dalla sua età (articolo 6);

3)  si dispone che la pronuncia di adozione sia altresì subordinata all’esito positivo di un congruo periodo di affidamento probatorio (articolo 19);

4) è affermato il diritto dell’adottato che ha raggiunto la maggiore età ad essere informato sulle proprie origini, compatibilmente con il diritto al segreto assicurato alle partorienti (17) e sotto il controllo delle autorità (articolo 22).

Peraltro queste regole (che sono ormai, da tempo, patrimonio comune delle legislazioni più progredite in materia, in quanto finalizzate alla realizzazione di alcuni diritti fondamentali dei minori) vengono enunciate in termini assolutamente generici, senza venir inserite in un preciso contesto organico e senza essere coordinate con altre disposizioni della stessa Convenzione con le quali si pongono in evidente posizione di conflitto: così è da dire per quanto concerne l’effetto legittimante riconosciuto all’adozione che, in quanto tale, appare del tutto inconciliabile con la revocabilità della stessa (ammessa, come si è visto, dall’articolo 14 sopra richiamato).

Lacunosa appare, poi, la regolamentazione relativa all’accesso alla conoscenza delle proprie origini da parte dell’adottato delineata dall’articolo 22 della Convenzione: infatti non soltanto non vi è fatto alcun cenno al prioritario dovere degli adottanti di informare nei tempi e nei modi più opportuni i figli adottivi della loro condizione (a differenza di quanto dispone sul punto la legislazione italiana, all’articolo 28 comma 1° della legge 4 maggio 1983 n. 184), ma non viene precisato in alcun modo quale debba essere il criterio da seguire per far sì che venga comunque tutelato il diritto all’anonimato della donna che non ha riconosciuto il proprio nato (18).

Nel tirare le somme di questa complessiva ricognizione, non sembra proprio che le poche migliorie apportate dalla presente Convenzione al testo del 1967 valgano a far venir meno le gravi e pericolose incongruenze da cui è costellata e che appaiono in netta controtendenza rispetto alle conquiste che i Paesi più avanzati hanno realizzato per far fronte al disagio infantile. Stupisce, in particolare, che in nessun passaggio della Convenzione e dei documenti esplicativi che la corredano si sia avuto il coraggio di affermare a chiare lettere che il diritto del minore a una valida famiglia degli affetti deve sempre prevalere sul preteso diritto degli adulti ad adottare, di talché il reiterato richiamo al superiore interesse del minore che vi si legge rischia di suonare come una mera formula di stile, una figura retorica priva di pregnanza concreta, allo stesso modo di quei vocaboli  che – per dirla con le parole di uno scrittore del passato, ma valide ancora oggi – «A forza di servire per tutti gli usi  finiscono per non dire più niente, come progresso, ordine, democrazia, legalità» (19).

Stupisce, infatti, che non sia stato dedicato un solo rigo per affermare che il diritto di ogni minore a una famiglia deriva dalla centralità di questa istituzione, “nucleo fondamentale della società e ambiente naturale per la crescita e il benessere di tutti i suoi membri e in particolare dei bambini e per il pieno e armonioso sviluppo della sua personalità”, come si trova affermato nella Convenzione delle Nazioni Unite del 1950 sui diritti dell’infanzia alla quale la Convenzione di Strasburgo intende ispirarsi e come è stato recentemente proclamato con particolare enfasi dal Bureau International Catholique de l’Enfance nel celebrare il ventesimo anniversario di quella Convenzione, in un documento di 49 pagine e nel collegato appello mondiale per una nuova mobilitazione per l’infanzia (20). La mancanza di una premessa di questo tenore ha comportato, di conseguenza, l’omissione di qualsiasi riferimento agli indispensabili interventi pubblici di sostegno alle famiglie in difficoltà (specialmente a quelle monoparentali) improntati al principio di sussidiarietà e ai valori della solidarietà sociale, che sono i cardini sui quali deve imperniarsi la prevenzione delle situazioni di abbandono (21), e alla esigibilità giuridica delle relative prestazioni (22), così come nulla è stato disposto in merito ai criteri minimali cui uniformarsi nella gestione delle delicatissime fasi che riguardano le modalità di accertamento dello stato di adottabilità e alle procedure preordinate alla dichiarazione di adottabilità, al fine di assicurare la effettività della difesa sia nei confronti delle famiglie di origine che dei minori (23).

Priva di giustificazione appare, poi, la totale mancanza di un qualsiasi riferimento al dovere degli organismi istituzionalmente competenti di promuovere iniziative indirizzate a sensibilizzare la pubblica opinione sulle tematiche legate alla cultura dell’infanzia e di organizzare corsi di formazione nei confronti degli aspiranti all’adozione (sulla falsariga di quanto prevede – ad esempio – la legislazione italiana) (24), così come va censurata la mancata responsabilizzazione di tali organismi per quanto riguarda gli obblighi di segnalazione alle autorità delle presumibili situazioni di adottabilità dei minori.

Tutto ciò considerato, ci si deve infine interrogare su quale posizione debba collocarsi lo Stato italiano nei confronti di questa nuova Convenzione, nella consapevolezza che accogliere l’invito ad aderirvi contenuto nella parte finale del testo (articoli 24 e 25) comporta – in conformità a quanto è disposto nell’articolo 2 (25) – l’assunzione dell’obbligo di adeguare la propria legislazione interna alle direttrici di fondo della Convenzione stessa, gran parte delle quali, come si è cercato di chiarire, si pone in profondo contrasto con la ben più progredita normativa vigente in Italia: contrasto che non verrebbe certamente meno anche se ci si avvalesse delle clausole di riserva contemplate dall’articolo 27 della Convenzione, che sono prive di un apprezzabile margine di incisività. Se è vero, infatti, che l’articolo 18 della Convenzione dispone che gli Stati che vi aderiscono «conservano la facoltà di adottare delle disposizioni più favorevoli al minore adottato», tale concessione – essendo collocata nella parte del testo dedicata agli effetti dell’adozione – ha una portata estremamente limitata e non vale certamente a scongiurare il rischio che, ove recepite dall’Italia, le tendenze adultocentriche che permeano il testo di Strasburgo possano diventare il veicolo per reclamare l’introduzione nella nostra legislazione interna delle modifiche tali da incrinarne il rigore.

A modesto avviso di chi scrive, non resta allora che auspicare che lo Stato italiano, quale unica scelta coerentemente praticabile, comunichi al Consiglio d’Europa la propria decisione negativa circa la firma e la conseguente ratifica della Convenzione, e – avvalendosi della facoltà consentita dal dettato dell’articolo 29 (26) – ne denunci il contenuto del tutto insoddisfacente, in quanto superficiale e potenzialmente dannoso, invitando nel contempo gli estensori della Convenzione a porre mano a un testo di più alto profilo, che sia in linea con i progressi maturati nella società civile nel settore della protezione dell’infanzia.

 

 

* Giurista, già Consigliere di Cassazione.

(1) Consultabile su www.conventions.coe.int.

(2) Cfr. Rapport explicatif  (Stce n. 202) (www.conventions. coe.int/Treaty).

(3) E. Steiner, Vers une procédure d’adoption européenne (www.coe.int/t/DC/Files/Source/FS_children_adoption_fr.doc).

(4) Art. 367 code civil: «L’adoption peut être demandée par deux époux non séparés de corps, dont l’un est âgé de vingt-cinq ans, l’autre de vingt et un ans au moins, à condition que les adoptants aient quinze ans de plus que l’enfant qu’ils se proposent d’adopter et que l’enfant soit âgé de moins de seize ans».

(5) Art. 6 comma 1°, prima parte, Cedu (Diritto ad un processo equo): «1. Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, costituito dalla legge, che deciderà sia in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale elevata contro di lei».

(6) Art. 8 Cedu (Diritto al rispetto della vita privata e familiare): «1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. 2. Non può aversi interferenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di questo diritto a meno che  questa ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una  misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà degli altri».

(7) Art. 14 Cedu (Divieto di discriminazione): «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti  nella presente Convenzione deve essere garantito, senza alcuna distinzione, fondata soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, sui beni di fortuna, nascita o ogni altra condizione».

(8) La sentenza, molto articolata, è consultabile in www.echr.coe.int.

(9) Art. 343-1, comma 1° code civil: «L’adoption peut être aussi demandée par toute personne âgée de plus de vingt-huit ans».

(10) Anche tale sentenza è consultabile su www.echr.coe.int.

(11) Cfr., sul punto, E. Falletti, “La Corte europea dei Diritti dell’Uomo e l’adozione da parte del single omosessuale”, in Famiglia e Diritto, n. 3/2008, pp. 224 ss.

(12) Finora hanno firmato nove Stati (Norvegia, Islanda, Ucraina, Gran Bretagna, Finlandia, Danimarca, Belgio, Armenia, Romania): cfr.www.familylawineurope.eu/it/news/consiglio_europa.htm#convenzioneadozioni.

(13) Si noti che, ai sensi dell’articolo 27 della nuova Convenzione, gli Stati che vi aderiranno non potranno apporre alcuna riserva in ordine all’accesso all’adozione delle coppie omosessuali sposate o che hanno stipulato un partenariato registrato o che convivono nel quadro di una relazione stabile, così come analoga inibizione è disposta per l’accesso all’adozione delle coppie eterosessuali unite da una stabile convivenza. Tale riserva è invece limitata – chissà perché – all’accesso adozionale delle persone singole e delle coppie eterosessuali.

(14) Così trovasi precisato sia nel Rapport explicatif  che nella Fiche d’information della Convenzione, sopra citati. L’applicazione della Convenzione solo all’adozione nazionale introduce una inaccettabile differenziazione rispetto alla normativa riguardante le adozioni internazionali.

(15) Cfr., per tutti, Francesco Santanera, “Gravemente inadeguate le proposte di legge presentate al Parlamento in materia di adozione e di affidamento di minori a scopo educativo”, in Prospettive assistenziali, n. 156, 2006, pagina 4.

(16) Si ricorda che, come già segnalato, l’articolo 4 della Convenzione prevede la revocabilità dell’adozione.

(17) Il riferimento è a un’importante sentenza emessa il 13 febbraio 2003 dalla Grande Chambre della Corte europea dei Diritti dell’Uomo nella causa n. 42326/98 (Pascale Odièvre contro Francia, in www.echr.coe.int).

(18) Non è inutile ricordare che per tale evenienza la legge italiana (articolo 28, comma 7°, così come modificato dall’articolo 177, comma 2° del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196) preclude all’adottato adulto l’accesso alle informazioni riguardanti l’identità di colei che lo ha generato: scelta confermata, da ultimo, dalla sentenza n. 425 del 16 novembre 2005 della Corte costituzionale (secondo la quale tale norma «mira evidentemente a tutelare la gestante che – in situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale – abbia deciso di non tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura medica appropriata e di mantenere al contempo l’anonimato nella conseguente dichiarazione di nascita: e in tal modo intende – da un lato – assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e – dall’altro – distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi. L’esigenza di perseguire efficacemente questa duplice finalità spiega perché la norma non preveda per la tutela dell’anonimato della madre nessun tipo di limitazione, neanche temporale. Invero la scelta della gestante che la legge vuole favorire – per proteggere tanto lei quanto il nascituro – sarebbe resa oltremodo difficile se la decisione di partorire in una struttura medica adeguata, rimanendo anonima, potesse comportare per la donna, in base alla stessa norma, il rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall’autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di volontà»). In maniera ancora più pregnante, inoltre, la nostra legislazione (articolo 28, comma 6° della legge 4 maggio 1983 n. 184) subordina la conoscenza delle proprie origini e dell’identità dei genitori biologici da parte dell’adottato ad un’istruttoria che comprenda l’audizione di tutte le persone il cui ascolto sia ritenuto utile e l’assunzione di tutte le informazioni di carattere psicologico e sociale, che consentano di escludere che il possesso di tale conoscenza comporti un grave turbamento all’equilibrio psicofisico del richiedente.

(19) La provocazione la si può leggere nel romanzo di Honoré de Balzac, Les Petits Bourgeois (1844), in Œuvres complètes, vol. VIII, p. 50.

(20) Bureau international catholique de l’enfance (Bice), Document de référence à une nouvelle mobilisation pour l’enfance, 4 giugno 2009, in www.bice.org/ewb.

(21) Cfr., sul punto, le precise disposizioni contenute agli articoli 18 e 27 della Convenzione Onu del 1950 sui diritti dell’infanzia, oltre ai rilievi formulati alle pagine 9 e 20 del documento del Bureau international catholique de l’enfance sopra menzionato.

(22) Cfr., ancora, il documento del Bureau international catholique de l’enfance, citato nella nota precedente, pagina 4.

(23) Come, invece, si trova dettagliatamente disciplinato nella legislazione italiana vigente (articoli 8 e ss. della legge 4 maggio 1983 n. 184, così come modificata dalla legge 24 marzo 2001 n. 149).

(24) Si vedano gli articoli 1 comma 3° e 29 bis della legge 4 maggio 1983 n. 184 nella sua ultima formulazione.

(25) «Ogni Stato che aderisce adotta le misure legislative e tutte le altre misure necessarie ad assicurare la conformità della propria legislazione alle disposizioni della presente Convenzione, e notifica al Segretario generale del Consiglio d’Europa le misure adottate a tal fine». Si veda anche, al riguardo, quanto enunciato nel sopra citato Rapport explicatif della Convenzione.

(26) «Ogni Stato membro può in qualsiasi momento denunciare la presente Convenzione con notifica diretta al segretario generale del Consiglio d’Europa. La notifica avrà effetto dal primo giorno successivo alla scadenza del terzo mese dalla ricezione della notifica».