Libri
ROSY
BINDI (intervista di Vittorio Sammarco), La
famiglia, Editrice La Scuola,
Brescia, pag. 110, euro 8,50
Secondo Rosy Bindi la famiglia è «un soggetto fondamentale e vitale della coesione sociale e della
solidarietà fra le generazioni, che ieri potevano essere due, qualche volta tre
e che oggi sempre più spesso sono anche quattro: nonni, genitori, figli,
nipoti».
Inoltre «è la
prima comunità in cui si sperimenta la felicità personale e la realizzazione di
sé. È il luogo privilegiato dove convivono, nella reciprocità, affetti,
progetti, sensibilità, debolezze e potenzialità». Assolve inoltre «compiti indispensabili di cura, educazione,
assistenza».
A proposito della povertà, Rosy Bindi afferma che «povere sono le famiglie che non hanno
lavoro, quelle monoreddito e quelle con più figli, le famiglie con un anziano
non autosufficiente, le famiglie di pensionati e di giovani precari».
Tuttavia
dopo aver rilevato
che «l’Istat ha evidenziato
che le famiglie
in condizioni di
povertà relativa sono 2,6 milioni
e riguardano 7,6 milioni di persone», sorprendentemente si limita a
proporre la necessità di «monitorare con
attenzione l’andamento del costo della vita e tutelare davvero il potere
d’acquisto di salari e pensioni», iniziative che certamente non sono in
grado di eliminare le diverse povertà (ad esempio quelle causate dalla totale
assenza di redditi o dai livelli da fame delle pensioni sociali, di invalidità
e minime degli ex lavoratori) ma nemmeno di attenuare le numerose conseguenze
negative.
Ricordiamo che quando Rosy Bindi era Ministro della
sanità nulla ha voluto fare, nonostante le ripetute sollecitazioni del Csa, per
ricordare alle Regioni e alle Asl il diritto degli anziani cronici non
autosufficienti alle cure sanitarie previste dalle leggi, non impedendo quindi
le dimissioni illegali da ospedali e case di cura convenzionate con i
conseguenti gravosi oneri economici a carico dei vecchi malati e dei loro
congiunti.
Inoltre sono del tutto inaccettabili le proposte
avanzate dall’ex Ministro della famiglia in merito ai nuclei con problemi di
disabilità.
Infatti, dopo aver correttamente riconosciuto che «le famiglie che gestiscono problemi di
salute mentale o disabilità intellettiva o relazionale, grave e gravissima,
sopportano un carico di problemi assistenziali di enorme portata» e che «la loro acuta sofferenza (…) si confronta
con le carenze dei servizi socio-sanitari e ritardi nell’applicazione della
legge di riforma dell’assistenza», Rosy Bindi si limita a proporre il
riconoscimento del «valore sociale del
lavoro di cura di queste famiglie» e la necessità di «alleviare in parte il carico che è insieme finanziario e psicologico,
con la realizzazione di una rete di servizi domiciliari».
Mentre Prospettive
assistenziali rivendica di aver chiesto da anni il riconoscimento, anche
sotto il profilo economico, del volontariato intrafamiliare, è evidente che i
servizi domiciliari rappresentano solo una parte – sia pur importantissima –
delle attività sociali indispensabili per garantire alle persone con handicap
quel che necessitano.
Ci riferiamo, pertanto, alle prestazioni della sanità,
con particolare riguardo agli interventi preventivi, della prescuola e della
scuola, della formazione professionale, del lavoro, delle pensioni per coloro
che, a causa della gravità delle loro condizioni di salute, non sono in grado
di svolgere attività lavorative.
In merito al “Dopo di noi”, l’ex Ministro della
famiglia asserisce genericamente che «andrà
finalmente attuato, in modo permanente e diffuso, il progetto del “Dopo di noi”
completando la presa in carico della persona disabile anche con il progetto del
“Durante noi”» senza però fare alcun cenno alle gravissime inadempienze dei
Comuni che da oltre 70 anni non attuano gli articoli 154 e 155 del regio decreto
773/1931 che li obbliga a provvedere al ricovero degli inabili al lavoro
sprovvisti dei mezzi necessari per vivere. A questo riguardo va ricordato che
le disposizioni succitate erano già presenti nella legge 6535/1889, per cui le
inadempienze dei Comuni durano da oltre cent’anni.
La mancata rilevazione della violazione delle leggi
vigenti costituisce, a nostro avviso, una gravissima responsabilità da parte di
chi aveva, come Ministro della famiglia, anche il compito di farle rispettare.
Infine è assai grave che nel corso di tutta
l’intervista Rosy Bindi non faccia mai cenno alcuno alla necessità del
riconoscimento di diritti esigibili, quale misura indispensabile e
insostituibile per ottenere condizioni accettabili di vita dei soggetti deboli.
AA.
VV., Progettualità e ricerche,
Regione Veneto - Centro regionale di documentazione e analisi sulla famiglia,
2007, pag. 533, senza indicazione di prezzo
Il volume raccoglie gli atti del II Congresso
internazionale “Famiglia e cittadinanza”, svoltosi a Padova il 19-20 ottobre
2007, contiene anche la documentazione concernente la ricerca-intervento “Nati
indesiderati - Campagna di sensibilizzazione a sostegno della maternità e del
bambino”, i cui obiettivi erano i seguenti: «Documentare
nel territorio della Regione Veneto le caratteristiche del fenomeno
dell’abbandono; documentare e diffondere l’attuale assetto dei percorsi nella
rete dei servizi pubblici, del privato sociale e del volontariato; raccogliere
il materiale informativo prodotto, sistematizzarlo e diffonderne la conoscenza;
proporre alla nostra Regione azioni e progetti che potrebbero essere estesi,
come esempio di buone prassi, a tutto il territorio».
Dalla ricerca è emerso che nella Regione Veneto dal 1°
gennaio 2003 al 30 giugno 2007 «su 140
casi di bambini risultati figli di ignoti e dichiarati adottabili: 46 sono
bambini nati da madre straniere; 22 (…) da donne italiane; 63 sono bambini
genericamente definiti di razza caucasica in quanto non sono emersi in atti
dati idonei a chiarirne l’etnia; 9 casi sono stati archiviati».
La ricerca ha confermato «il dato secondo cui la causa primaria dell’abbandono è da rinvenire
nelle precarie condizioni di vita delle giovani madri straniere che arrivano
come clandestine, spesso sfruttate dal racket della prostituzione o del lavoro
nero».
Per quanto riguarda il fenomeno italiano risulta che «è invece collegato ad uno stato di disagio
personale e/o familiare in quanto i dati mettono in evidenza la preponderanza
di madri sole, in stato di salute precario, di giovane età (a volte minorenni
inconsapevoli fino agli ultimi mesi di gestazione del loro stato), con famiglie
di origine che non possono o non vogliono farsi carico del bambino (a volte per
motivi razziali o per non farsi carico di eventuali handicap)».
Sorprendentemente la ricerca-intervento, pur avendo,
come è stato segnalato in precedenza, l’obiettivo di proporre «buone prassi», non contiene alcun
riferimento né alla vigente legge 2838/1928 in base alla quale le Province sono
tenute a fornire assistenza alle gestanti madri in condizioni di disagio
socio-economiche, né segnala la necessità di un corretto e tempestivo sostegno
alle donne sia per dare risposte adeguate alle loro personali esigenze e a
quelle del nascituro, sia per aiutarle ad assumere con la massima
responsabilità possibile la decisione circa il riconoscimento o non
riconoscimento dei loro nati.
Inoltre osserviamo che a nostro avviso è estremamente
negativo che i bambini non riconosciuti siano definiti «nati indesiderati», senza tener conto che vi sono donne che così
agiscono nell’interesse dei loro nati rendendosi conto che non sono in grado di
fornire le cure necessarie, come può capitare per una loro effettiva incapacità
(ad esempio a causa della loro età ancora infantile) o per evitare di essere espulse
dal nostro Paese con la conseguenza, ad esempio, di lasciare gli altri figli
privi di sostentamento, oppure per l’imposizione da parte dei genitori o dei
conviventi.
Al riguardo ricordiamo che Monsignor Giovanni De
Menasce, Direttore della Scuola di servizio sociale Ensiss di Roma, sosteneva
giustamente che il riconoscimento «per
essere saggio, reale e umano deve essere libero e consapevole. Deve essere
valutato con tutte le necessarie ripercussioni che tale atto avrà sul destino
della donna e del neonato» (cfr. Maternità
e infanzia, n. 6-7-8, 1963).
Inoltre occorre tener conto che definendo come «nati indesiderati» tutti i bambini non
riconosciuti, si possono creare sofferenze anche di rilevante entità ai minori
adottati, specialmente durante la fase adolescenziale. È ingiusto, oltre che
professionalmente e umanamente scorretto, condizionare l’esistenza dei
fanciulli non riconosciuti attribuendo la loro situazione a comportamenti
negativi della genitrice, addirittura anche nei casi in cui il mancato riconoscimento
è stato deciso nell’interesse del bambino.