Notizie
L’ANFAA
CHIEDE AL GIORNALE
la Repubblica DI CESSARE
OGNI
DISCRIMINAZIONE
NEI
CONFRONTI DEI FIGLI ADOTTIVI
Riportiamo
il comunicato stampa emesso dall’Anfaa (Associazione famiglie adottive e
affidatarie) del 21 maggio 2009 con il titolo “L’Anfaa dice basta alle
discriminazioni”.
Oggi la
Repubblica ha dato nella cronaca nazionale, con ampio risalto, la notizia
che un quindicenne si è suicidato, precisando che era figlio adottivo.
Riteniamo che dal momento in cui un
bambino diventa figlio ed è amato come figlio, non debba essere descritto come naturale, legittimo, adottivo. Alla
storia privata di ciascuno è dovuto grande rispetto ed ogni fatto che lo
coinvolga e che abbia una rilevanza per la comunità deve essere trattato con la
dovuta correttezza e delicatezza. Lo stesso Garante per la privacy ha ribadito
questo principio.
L’aggettivazione sembra invece veicolare
l’idea che adottivo è associato a uno
stereotipo negativo, come se l’adozione fosse causa o concausa di comportamenti
censurabili. Fa pensare alla cultura che distingue i figli di serie A, quelli
biologici, da quelli di serie B, adottati.
I figli non si distinguono per serie, si
amano ciascuno con il proprio nome e possiamo solo sperare che, nello spazio di
libertà in cui ciascuno gioca la propria vita, ogni figlio costruisca il
massimo di bene per sé e per gli altri. Difficile sapere dove affonda le sue
radici il disagio di un adolescente che lo porta a scelte estreme come il
suicidio.
Ai familiari di questo ragazzo esprimiamo tutta la
nostra vicinanza e solidarietà e chiediamo ancora una volta ai mezzi di
informazione attenzione e riservatezza, non accanimento giornalistico.
IRLANDA:
MIGLIAIA DI BAMBINI
ABUSATI
DA RELIGIOSI
Su La Stampa del 21
maggio 2009 è stato pubblicato l’articolo di Marina Verna che riproduciamo
interamente.
Picchiati, violentati, umiliati dai preti
e dalle suore che avrebbero dovuto occuparsi di loro. È successo dagli anni ’30
alla fine degli anni ’90, a 39mila bambini rinchiusi negli istituti correttivi
d’Irlanda. Bambini che rubacchiavano, marinavano la scuola o semplicemente
erano orfani o venivano da ambienti “disfunzionali”, dizione sotto la quale si
nascondevano per lo più ragazze madri.
Un rapporto della “Child Abuse
Commission”, la Commissione sugli abusi che ha condotto la più grande indagine
della storia sugli istituti in mano agli ordini religiosi irlandesi,
interrogando 2.500 ex allievi di cento istituzioni, inchioda dopo nove anni di
ricerche “centinaia” di preti e di suore cattolici.
Il rapporto – cinque volumi per 3.500
pagine presentati ieri a Dublino – è il seguito di uno studio del 2003, che
aveva raccolto la testimonianza di 700 uomini e donne «picchiati in ogni parte del corpo con ogni tipo di oggetto» o «violentati, alcuni da varie persone
contemporaneamente». A fare scoppiare lo scandalo era stato un documentario
Tv della fine degli anni ’90, quando era stato chiuso l’ultimo di questi
istituti: per la prima volta emergeva la lunga storia delle violenze sui minori
nelle istituzioni gestite da ordini religiosi. Sull’onda dello sdegno, nel
2000, l’allora premier Bertie Ahern aveva voluto creare una commissione
d’inchiesta.
Nelle istituzioni pubbliche per soli
maschi – riformatori, orfanotrofi, scuole per ragazzi difficili, case per
disabili – le violenze erano “endemiche”, secondo la definizione del giudice
che ha coordinato il rapporto, Sean Ryan.
Le scuole «venivano gestite in un modo severo e irreggimentato che imponeva
disciplina oppressiva e irragionevole sui bambini, ma anche sul personale».
Le ragazze affidate alle suore,
soprattutto alle Sorelle della Misericordia, subivano meno abusi sessuali, ma
erano sottoposte ad aggressioni e umiliazioni per farle sentire “inutili”.
C’erano poi pestaggi “rituali” e atti di
pedofilia i cui autori erano protetti da una rete di connivenze e omertà: il
rapporto accusa esplicitamente i responsabili degli ordini religiosi che mai
hanno denunciato i pedofili che erano tra loro, evitando loro il carcere.
Ci sono accuse anche agli ispettori
governativi, che regolarmente chiudevano gli occhi.
Per la Commissione le testimonianze di uomini e donne
ancora traumatizzati, che oggi hanno tra i 50 e gli 80 anni, mostrano come
l’intero sistema li trattasse da carcerati e schiavi, anziché da persone
titolari di diritti. «Questi riformatori
e scuole speciali erano sotto un controllo rigido attuato con punizioni
corporali. La durezza del regime è stata inculcata da varie generazioni di
preti, suore e confratelli. Quello era il sistema e non il risultato di
violazioni individuali da parte di persone che operavano fuori dai confini
legali e accettabili», afferma lo studio.
John Kelly, portavoce dell’associazione “Sopravissuti
agli abusi infantili”, ha detto che molte di queste scuole erano «gulag, non luoghi d’accoglienza». A
volte gli ospiti erano costretti a fabbricare gli strumenti per la propria
tortura. Dovevano lavorare senza mai vedere un soldo: «Facevamo vestiti che facevano guadagnare gli ordini religiosi e lo
Stato». Kelly, che ricorda come si venisse buttati giù dal letto per essere
frustati, era stato ospite di una ex caserma: «Non ero John Kelly, mi chiamavano con un numero, il 253, non me lo
dimenticherò mai».
Per molte vittime, però, il rapporto non fa
abbastanza, perché si limita a confermare che le violenze ci furono, senza
chiedere giustizia.
PRECISAZIONI
DEL CSA SULLE NOTIZIE
INESATTE
PUBBLICATE DA ALTROCONSUMO
Riportiamo
la lettera inviata il 22 maggio 2009 alla rivista Altroconsumo dal
Csa (Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base).
Nella Vostra inchiesta sulle residenze
per anziani viene affermato che molti Comuni continuano a calcolare la quota
alberghiera a carico degli anziani malati cronici non autosufficienti
ricoverati nelle residenze sanitarie assistenziali e analoghe strutture, assumendo
come riferimento non solo le risorse economiche del soggetto ricoverato ma
anche quelle di parenti.
In primo luogo va precisato che, in base
all’articolo 54 della legge 289/2002, l’importo della quota alberghiera non può
essere superiore al 50% della retta totale.
Segnaliamo inoltre che, ai sensi del
comma 2 ter dell’articolo 3 del testo unificato dei decreti legislativi
109/1998 e 130/2000, deve essere presa in considerazione esclusivamente la
situazione economica (redditi e beni) del solo assistito.
Destituito di ogni fondamento giuridico è
il pretesto, avanzato da numerosi Comuni al solo scopo di incassare somme non dovute, della
mancata emanazione di un decreto che, essendo di natura amministrativa, non può
certo bloccare o ritardare l’applicazione di una legge.
D’altra parte detto decreto era ed è del
tutto inutile in quanto, successivamente all’entrata in vigore dei succitati
decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, il Parlamento ha varato la legge
328/2000 di riforma dell’assistenza i cui contenuti affrontano in modo
dettagliato le questioni attribuite al provvedimento non emanato.
Precisiamo, altresì, che il Garante per
la protezione dei dati personali ha informato i Comuni di Bologna, Cologno
Monzese, Firenze, Milano, Parma e altri ancora che detti enti non possono
raccogliere alcuna notizia (generalità, indirizzo dell’abitazione, ammontare
dei redditi e dei beni, ecc.) dei parenti, compresi quelli conviventi, degli
ultrasessantacinquenni non autosufficienti assistiti a livello domiciliare,
semiresidenziale e residenziale.
Ricordiamo che sono numerose le sentenze
dell’Autorità giudiziaria che confermano la validità e applicabilità delle
sopra riportate norme vigenti, che i Comuni dovevano rispettare a partire dal
1° gennaio 2001.
Precisiamo, infine, che in base alle
norme vigenti i parenti non sono tenuti ad accettare le dimissioni da ospedali
e case di cura private convenzionate di congiunti adulti o anziani colpiti da
patologie invalidanti e da non autosufficienza, come dimostra la nostra
esperienza oramai ultratrentennale. Accettare le dimissioni significa, sotto
il profilo giuridico, sottrarre volontariamente il malato cronico dalle
competenze obbligatorie del servizio sanitario nazionale e assumere tutte le relative responsabilità civili e
penali nonché i conseguenti oneri economici.
Grati della pubblicazione della presente,
restiamo a Vostra disposizione per l’eventuale richiesta di ulteriori notizie.
Nota: la lettera del Csa non è
stata pubblicata su Altroconsumo.
UNA
SMENTITA CHE IN REALTÀ
È
UNA CONFERMA
Riportiamo integralmente il testo dell’e-mail
inviataci dal Presidente del Consorzio siciliano di riabilitazione, Francesco
Lo Trovato, in merito all’articolo “Non è un ghetto la struttura prevista
dall’Aias di Catania?”.
Testo della lettera ricevuta
Rispondiamo al Vostro articolo pubblicato
sul n. 165 della rivista Prospettive
assistenziali dal titolo “Non è un ghetto la struttura prevista dall’Aias
di Catania?” che, seppur nel rispetto delle Vostre riflessioni, riteniamo
scorretto nell’utilizzo dei termini, in particolare della parola “ghetto” che
certamente poco si addice alla storia e ai progetti del Csr-Aias, e poco
approfondito nel merito della questione.
Gli oltre cinquant’anni di esperienza
dell’Aias, l’attività svolta dalla Sezione di Catania (che opera dal 1967) e i
tanti progetti realizzati dal Consorzio siciliano di riabilitazione dal 1980
fino ad oggi sono infatti la migliore testimonianza della forte volontà e della
capacità della nostra Associazione di lottare contro l’isolamento delle persone
con disabilità. Chi come me e come molti altri genitori che ebbi la fortuna di
incontrare si ritrovò negli anni ‘60 con un figlio disabile, conosce benissimo
cosa vuol dire abbattere i muri dell’indifferenza della società, combattere le
discriminazioni. Noi abbiamo combattuto a lungo per fare uscire i nostri figli
disabili fuori dai muri di casa, dove una volta dovevano essere relegati, per
“vergogna” e anche per timore. La Società irrideva i nostri figli disabili.
La Società però è cambiata ed il management del Csr ha
capito l’esigenza di approfondire il tema del “Dopo di noi”, proprio per
rispondere alle nuove pressanti richieste di molti disabili e dei loro
familiari: la paura di rimanere soli, senza genitori o con familiari troppo
anziani non più in grado di soddisfare le tante esigenze di un figlio disabile.
Il progetto della “Cittadella della salute” è stato pensato, maturato e
condiviso proprio con quei genitori che vogliono garantire ai propri figli un
futuro sereno. Certamente loro non penserebbero mai di lasciarli in un
“ghetto”, come sostiene la Vostra rivista, ma piuttosto in un luogo tranquillo,
bello, immerso nel verde ma ben collegato con la città. Un posto che sia per
loro una vera e propria casa, dove poter vivere portando i propri mobili, da
cui poter entrare e uscire con la massima libertà. Un posto, inoltre, con la
massima garanzia di assistenza socio-sanitaria, effettuata 24 ore al giorno da
medici e professionisti della riabilitazione. Come sarebbe possibile fare tutto
questo «in modo sparso nel territorio di
appartenenza dei soggetti con handicap?», come Voi sostenete? Non credete,
al contrario, che in quel modo i disabili rimasti soli sarebbero ancora più
ghettizzati? La “Cittadella della salute” che nascerà a Viagrande, in provincia
di Catania, non è una Rsa, non è un ospedale, non è semplicemente un luogo di
cura: sarà una casa, un luogo familiare che, come ogni buona famiglia, sarà
gestito con rispetto e amore. Ma queste strutture si potranno ripetere in ogni
provincia? Vi invitiamo a fare un’indagine sul mondo della disabilità in
Sicilia e a confrontarlo con il poco esistente in Piemonte.
La nostra replica
Ricordiamo che nel nostro articolo
avevamo segnalato che «sono in piena
attività i lavori per il completamento della sede catanese del Consorzio
siciliano di riabilitazione previsto tra poche settimane con l’inaugurazione
del nuovo centro di riabilitazione di Viagrande».
Detto centro è destinato ad essere uno
dei servizi della “Cittadella della salute” «un
complesso di strutture socio-assistenziali costruite per persone disabili (…).
Nascerà su un terreno ampio circa 36mila metri quadrati».
Avevamo aggiunto che detto centro di riabilitazione
comprendeva:
• «una prima
struttura sarà attrezzata per il “Dopo di noi” e accoglierà le persone disabili
rimaste sole»;
• «una
seconda struttura per anziani, che usufruiscono di uguali servizi di quelli
riservati ai disabili con assistenza 24 ore al giorno»;
• «una terza
struttura con sei mini alloggi, in cui la persona disabile potrà trasferirsi
temporaneamente con il familiare ancora in vita, godendo di una assistenza
sanitaria qualificata giorno e notte».
A nostro avviso la concentrazione delle persone sopra
indicate è proprio la caratteristica dei ghetti, compresi quelli moderni.
Questo non è solo il nostro parere ma anche quello
della Sezione di Torino dell’Aias, Associazione italiana assistenza agli
spastici che, fin dalla costituzione (1970) fa parte del Csa, Coordinamento
sanità e assistenza fra i movimenti di base, di cui Prospettive assistenziali è il portavoce.
Ricordiamo inoltre che in Piemonte, proprio grazie
all’azione del Csa, compresa la Sezione di Torino dell’Aias, la questione del
“Dopo di noi” è stata da anni risolta dalle istituzioni pubbliche, che sono
obbligate dalle leggi vigenti (la prima è il regio decreto 773/1931, articoli
154 e 155) a provvedere alle persone con handicap, nonché agli altri soggetti
necessitanti di cure sanitarie e/o di prestazioni socio-assistenziali.
Circa la posizione della Sezione dell’Aias di Torino
riportiamo il testo della lettera inviata dalla Presidente Maria Chiara
D’Agostino a Francesco Lo Trovato in data 13 luglio 2009: «Ho preso visione dello scambio di corrispondenza intercorso tra Prospettive
assistenziali e Lei a proposito delle iniziative
per i disabili siciliani. Confesso che mi era sfuggito l’articolo sulla rivista
Aias. Come Lei certamente già sapeva noi a Torino siamo di un’altra linea che
si è dimostrata finora vincente. Ho specificato “finora” perché bisogna essere
sempre allerta per evitare i colpi di coda delle Amministrazioni, di qualsiasi
colore. Mi dispiace di aver letto ciò che Lei pensa di quanto si è fatto per le
persone con handicap nella Regione Piemonte e cioè “poco”. Sicuramente è male
informato. Per la Sua documentazione la invito a consultare il sito
www.comune.torino.it/servizisociali/rete. Vi troverà un elenco, peraltro non
aggiornato in quanto qualche altro presidio si è aggiunto, della rete dei
servizi socio-sanitari diurni e residenziali per le persone con disabilità. Noi
li conosciamo uno ad uno in quanto abbiamo l’autorizzazione del Comune di
Torino alla verifica delle strutture accreditate e gestite direttamente e Le
posso assicurare che le persone inserite stanno bene ed in generale sono ben
integrate nei quartieri».