B.1.
L’autoemarginazione richiesta dalle Associazioni di persone con disabilità
Significativo esempio, che ha avuto nefaste conseguenze per migliaia di
persone soprattutto quelle con disabilità grave, è il pronunciamento nel
1970 della Commissione costituita dai Presidenti delle più importanti
organizzazioni allora esistenti nel settore della disabilità (Opera
nazionale mutilati e invalidi di guerra, Associazione nazionale vittime
civili di guerra, Associazione mutilati e invalidi del lavoro, Unione
nazionale mutilati per servizio, Libera associazione mutilati e invalidi
civili) che, dopo aver puntualizzato che «la generalità dei cittadini
invalidi costituisce nel suo complesso un insieme nettamente distinto del
popolo italiano», richiede «come indispensabile e indilazionabile, una
radicale e completa riforma di struttura del settore degli invalidi che,
prescindendo dalla causa invalidante, sia attuata differenziando
chiaramente i cittadini portatori di invalidità permanente dai cittadini
sani o incidentalmente malati», nonché «la delega dello Stato ad un unico
ente di diritto pubblico, di ogni azione di pubblico intervento e quindi
dell’istruzione e dell’addestramento professionale degli invalidi e del
loro collocamento al lavoro, dell'assistenza sanitaria limitatamente agli
esiti dell'invalidità permanente di quella sociale, morale e giuridica e
della cura e di ogni altra provvidenza che possa essere a loro rivolta»,
stabilendo altresì che l'amministrazione di questo ente di diritto
pubblico deve essere «espressione diretta ed esclusiva delle associazioni
di categoria».
Sostenuta dagli emarginatori era
stata l’iniziativa dell’Anthai, Associazione nazionale per la tutela degli
handicappati, che (cfr. il n. 100/1992 di “Prospettive assistenziali”)
intendeva costruire «un complesso polifunzionale, composto da case
protette, residenze speciali, day hospital, nonché da strutture
residenziali, commerciali e sportive». Nel complesso dovrebbero essere
ricoverate «dalle cento alle duemila persone». Secondo l'Anthai «l'area
destinata ad un primo esperimento del genere dovrà consistere in almeno 15
ettari e, con ogni probabilità, la scelta cadrà nel Lazio, sebbene si
preveda di costruire un centro per ogni regione. La spesa iniziale si
aggira intorno ai 100 miliardi per circa 800 posti». Anche se ogni tanto
qualcuno è folgorato dall'idea di eliminare gli handicappati dal vivo del
contesto sociale relegandoli in incivili ghetti, magari di lusso, è
estremamente preoccupante che l'iniziativa dell'Anthai abbia ottenuto il
sostegno dell'Assessorato enti locali e servizi sociali della Regione
Lazio, che ha svolto uno studio specifico al riguardo.
B.2. Assai negative norme del Codice canonico
Il Codice canonico, promulgato da Papa Benedetto XV nel 1917, rimasto in
vigore, salvo alcune modifiche, fino al 1983, non solo oltraggia le
persone nate fuori dal matrimonio (cfr. A.5), ma anche le persone colpite
da disabilità. Infatti il Codice canonico stabilisce che sono irregolari
per difetto: a) coloro che sono colpiti da
menomazioni fisiche e che, a causa della loro deformità, non sono in grado
di adempiere al ministero dell’altare in modo valido;
b) coloro che sono o sono stati epilettici, pazzi o posseduti dal demone.
Però, se dopo aver ricevuto l’ordinazione risulta sicuramente che ne sono
immuni, l’ordinario può nuovamente permettere loro l’esercizio della
normale attività.
B.3.
Arcivescovo di Perugia: i neonati “mongoloidi” possono essere lasciati
morire
Sulla pubblicazione ufficiale del Vaticano
l’Osservatore della domenica del 26 gennaio 1969, Monsignor Ferdinando
Lambruschini, all’epoca noto teologo-moralista e Arcivescovo di Perugia
«circa il dovere o meno di salvare la vita di prole nata precocemente,
mediante ricorso all’incubatrice» aveva sostenuto – incredibile ma vero –
che «l’obbligatorietà di tale ricorso va affermata quando si prevede che
detta prole potrà avere una vita normale» e che «se si tratta invece di
prole anomala, ad esempio mongoloide, non si può interdire, ma neppure
imporre, in nome della coscienza cristiana, il ricorso all'incubatrice,
che prolungherebbe una vita di stenti e di sacrifici».
Monsignor Lambruschini aveva utilizzato non solo
le parole fortemente dispregiative sopra riportate «prole anomala, ad
esempio mongoloide», ma anche i seguenti termini infamanti «prole
anormale», «prole
tarata», «prole deforme». C’era anche un riferimento ai «così
detti mostri umani» (1).
B.4. Ragazzi ammassati come bestie
Durante la
trasmissione televisiva di TV7 del 4 luglio 1969 “I figli di tutti” di
Manuela Chadringer, Mario Tommasini, Assessore all’assistenza, igiene e
sanità di Parma, ha dichiarato quanto segue: «Noi a Sospiro abbiamo
ritirato dei ragazzi della Provincia di Parma perché, in una visita che
abbiamo fatto, sono stati trovati in un modo che... è indescrivibile.
Questi ragazzi erano in uno stanzone, in uno stanzone nudo: ragazzi nudi,
in mezzo a un... in mezzo a dello sterco, a dell'urina, coperti solamente
da uno straccio. Questi ragazzi erano... avevano i piedi gonfi dal
permanere su questo pavimento continuamente lurido e mangiavano lì, in
quel posto, come... come... degli animali. Noi siamo arrivati a vedere
queste cose dopo una... uno scontro violento, anche, con i dirigenti di
questo istituto, perché non volevano... non volevano lasciarci entrare in
questi reparti. Siamo entrati in questo reparto, chiamato dal medico il
reparto dei sudici. Erano irrecuperabili. Diceva che stare vestiti non
potevano perché si laceravano, tener le scarpe se le sarebbero tolte, e
non avevano nessuna capacità né di intendere né di volere. Beh, a un anno
e mezzo di distanza, questi sono i ragazzi che erano a Sospiro:
Francesco...poi chi c'era? Giorgio, Massimiliano. Addirittura,
Massimiliano dicevano che era sordomuto, invece è un bambino che poi, in
un ambiente diverso, ha incominciato a parlare; ed altri ragazzi che in
questo momento sono a lavorare. A Ficarolo di Rovigo, dove abbiamo
ritirato dei nostri ragazzi, se lei vedesse l'organico di questo
istituto, sembra l'organico del più grande istituto... del più perfetto
istituto che mai si sia visto; se poi vede nella realtà, non c'è niente. A
Ficarolo, i ragazzi sono ammassati come tante bestie».
B.5. Bambina di sei anni definita “pericolosa a sé
e agli altri”
Con ordinanza del 23 ottobre 1970, il
Sindaco di C. (Milano) firma il provvedimento «per ricovero di alienati»
della bambina L.P.M.F. nata nel 1964, definita a 6 anni «pericolosa a sé e
agli altri» e indirizzata all’Ospedale psichiatrico di Limbiate.
B.6. Utilizzo di denominazioni emarginanti
Un inaccettabile contributo alla quasi unanime connotazione negativa delle
persone con disabilità è l’utilizzo di definizioni emarginanti. Ad
esempio, l’acronimo dell’Anffas è “Associazione nazionale famiglie di
fanciulli subnormali”, mentre la testata della rivista della Società
italiana di neuropsichiatria infantile è “Infanzia anormale”. A sua volta
l’Istat utilizza i termini “anormali e minorati” per indicare i dati
relativi al numero degli istituti di assistenza e dei ricoverati, come
risulta dall’Annuario statistico dell’assistenza e della previdenza
sociale (cfr. il precedente punto A.3.). Molto usata è la definizione
“minorati psichici” che crea una devastante confusione con i malati
psichici e cioè con le persone con infermità psichiatriche e favorisce il
ricovero di disabili intellettivi in strutture manicomiali, ad esempio la
famigerata “Villa Azzurra” di Grugliasco, Torino. Inoltre, proprio perché
assimilate ai malati psichiatrici, fino alla sentenza della Corte
costituzionale n. 50 del 1990, le persone con disabilità intellettiva sono
escluse dal collocamento obbligatorio al lavoro di cui alla legge
482/1968.
B.7. Cottolengo:
libera imposizione
Negli anni ’60, per essere
ammessi alle strutture di ricovero del Cottolengo di Torino, le persone
con handicap fisico e integre capacità intellettive sono costrette a
sottoscrivere la seguente dichiarazione: «Io sottoscritto faccio
rispettosa domanda alla Direzione della Piccola Casa della Divina
Provvidenza di essere accolto nella Famiglia invalidi, promettendo da
parte mia di accettare liberamente l’ordinamento che mi verrà imposto»
(2).
B.8. Una bruciante
lettera di un ricoverato presso il Cottolengo di Torino
Riportiamo
integralmente la lettera di Roberto Tarditi, pubblicata su n. 1, gennaio
1987, di "ControCittà” «Dilaga, in quest’ultimo periodo, la
tendenza a rivalutare il ruolo e le funzioni degli istituti privati e
pubblici di assistenza. Io cittadino portatore di handicap "cosiddetto
grave", ospite per 35 anni del Cottolengo, vorrei fare alcune
considerazioni. Le prime, di ordine storico, scaturiscono dalla lettura di
alcuni passi di una lettera di Giuseppe Benedetto Cottolengo inviata da
Carlo Alberto nel 1833 per far riconoscere legalmente il suo Istituto: "Da qualche tempo in qua coadunati alcuni letti di ricovero di taluni di
que’ molti miserabili, che altrimenti perirebbero abbandonati, come di
condizioni morbose non ammissibili in alcun venerando ospedale» e poi
«vari generi di persone povere altrimenti potrebbero essere colla loro
infelicità il disturbo della pubblica pace e il peccato in seno ai
sudditi". Emerge evidente l’intenzione di ghettizzare i più deboli in
modo da eliminare la loro presenza dal tessuto sociale e non turbare così
la vita dei «cosiddetti normali».
Nei 150 anni successivi non è stato
modificato il modo di affrontare il problema, contribuendo così a
mantenere e a sviluppare nell’opinione pubblica la tendenza a voler
isolare e nascondere i « diversi».
Ovviamente la responsabilità
principale ricadono sui vari governi via via succedutesi i quali non hanno
affrontato la questione in termini di inserimento di ogni cittadino nella
vita sociale. Di fatto fino a non molti anni fa lo
Stato si è limitato
a lasciare a istituti privati, prevalentemente religiosi, la gestione del
problema. Infatti, nel 1968 il Ministero degli interni cinicamente
affermava che "L’assistenza ai bisognosi racchiude in sé un rilevante
interesse generale, in quanto i servizi e le attività assistenziali
concorrono a difendere il tessuto sociale da elementi passivi e
parassitari".
Quando parlo di mondo cattolico e di società non voglio
generalizzare in quanto, in questi ultimi anni, settori sia cattolici sia
laici hanno lottato e operato per l’inserimento attivo dei soggetti
portatori di handicap nel tessuto sociale e hanno contribuito a combattere
quella parte di società che affronta il problema in puri termini di
assistenzialismo.
A questo punto entro nel merito della mia esperienza.
Ho 41 anni; appena nato, a causa del mio handicap e di una cultura
emarginante che ha spinto mia madre, ragazza madre, a sbarazzarsi di me,
sono stato rinchiuso al Cottolengo, per ben 35 anni. Per moltissimo tempo
ho vissuto una vita vegetale fino al momento in cui ho preso piena
coscienza della mia condizione fisica e ho maturato, in conseguenza, una
visione politica della mia situazione.
Penso che una persona sia tale
se nella sua vita, può affrontare e risolvere tutta una serie di
problematiche (affetti, amicizie, lavoro, studio) e di piccole scelte
(decidere se andare in vacanza al mare od in montagna, se andare al cinema
o fare politica). In istituto tutto ciò non era possibile.
L’ideologia
che ci veniva inculcata era quello secondo la quale noi dovevamo espiare i
peccati altrui e quindi il nostro unico compito era quello di pregare per
meritare il paradiso. Quando uno di noi prendeva coscienza politica della
propria condizione e cercava soluzioni diverse veniva confinato in un
reparto di anziani malati cronici in modo da non poter "turbare" la
vegetatività dei compagni giovani.
Nella grande maggioranza dei casi il
nostro handicap è stato determinato da mancanza di prevenzione o da
responsabilità ben precise (ad esempio l’uso dei talidomide) e non certo
per causa divina. Il farci credere che noi rappresentiamo un disegno di
Dio significa uccidere la nostra capacità di ragionare sulla condizione in
cui viviamo. Conseguenza di lunghi anni "prigione", di isolamento e di
condizionamenti psicologici è che molti di noi temono il mondo reale e
quindi hanno paura a cercare di inserirsi nel tessuto sociale. Secondo una
cultura dominante, io rappresento un soggetto che non può avere relazioni
sociali come tutti ma deve vivere assistito. Al contrario, ormai da sei
anni, vivo in un alloggio affrontando autonomamente i problemi di tutte le
persone. Ho anche costruito rapporti sociali e affettivi come qualsiasi
persona "cosiddetta normale" pur tenendo conto della mia diversità
fisica. La mia crescita sarebbe risultata impossibile se avessi
continuato a vivere in un istituto protetto.
Ora, oltre a sentirmi vivo
e attivo, credo di contribuire alla crescita della società portando la mia
esperienza e lottando per l’inserimento delle persone handicappate, e più
in generale, contro la ghettizzazione di tutte le categoria emarginate e
indifese».
B.9. Esclusione dei
bambini con handicap dalle normali strutture prescolastiche e scolastiche
In quegli anni i bambini con handicap sono quasi sempre esclusi dalla
frequenza delle normali strutture prescolastiche e scolastiche, nonché
dalle relative attività culturali, ricreative e sportive. Inoltre sono
inesistenti le iniziative volte alla loro preparazione al lavoro. Non solo
non vi sono esperienze di inserimento lavorativo di detti soggetti, ma
ogni proposta in merito è addirittura improponibile anche culturalmente. Le classi
differenziali e le scuole speciali sono istituite in alcune zone del
nostro Paese; negli anni ’60-’70 per i bambini e ragazzi con vera o
presunta insufficienza mentale il ricovero in istituti a carattere di
internato o in reparti manicomiali è ritenuto molto spesso un intervento
adeguato alle loro esigenze. Al termine del ciclo scolastico, quasi
ovunque non vi sono servizi di sorta: il ricovero in istituto è quindi
largamente praticato.
In data 17 aprile 1970 il
Provveditorato agli studi di Torino chiede alle Direzioni didattiche del
territorio di fornire i dati relativi agli alunni insufficienti mentali
(gravi Q.I. da 0 a 50; medio-lievi Q.I. da 50 a 75; casi limite Q.I. da 75
a 85), nonché quelli indicati come “disadattati sensoriali gravi”
(sordastri, logopatici, ambliopici o subvedenti) e coloro che sono
classificati come “disadattati fisici gravi”. Inoltre, chiede di precisare
la loro provenienza (dal domicilio delle famiglie o dall’istituto) e di
precisare quali erano i mezzi di trasporto utilizzati dai ragazzi.
Sconcertanti le risposte: a) Direttrice didattica del Circolo di Venaria:
«Nel circolo di Venaria quest’anno sono stati fatti gli esami psicologici
individuali a carico dell’equipe provinciale soltanto a 12 bambini di
classe prima. Dei 91 alunni delle classi speciali ben 41 non sono stati
sottoposti a reattivi mentali; quanto agli altri non sono più sottoposti a
test dal 1965 o dal 1966, nella migliore delle ipotesi dal 1967. Degli
alunni delle classi normali (che assommano a 1.800) e classi differenziali
(gli allievi delle differenziali sono 85) soltanto una quindicina sono
stati sottoposti quest’anno a tests di intelligenza e non ancora a quelli
proiettivi, per cui non si è ancora giunti a classificarli in modo
adeguato. Circa la possibilità di suddividere i disadattati sensoriali in
sordastri, logopatici ed ambliopici, le equipe della Provincia hanno
esaminato soltanto le capacità uditive dei bambini della classe terza, ma
tali esami non sono a tutt’oggi [15 maggio 1970, e cioè al termine
dell’anno scolastico, ndr.] ultimati: infatti alcuni alunni sono stati
convocati per ulteriori accertamenti. Non si è in grado inoltre di
ricostruire i risultati delle visite audiometriche degli anni
precedenti»;b) Direttore della scuola Pacchiotti di Torino: «Non è mai
stata eseguita alcuna seria indagine su tutti gli alunni (…). I dati
riferentesi agli insufficienti mentali sono incompleti, mancano i referti
di 59 visite psicomedicali»; c) Direttore del Circolo didattico di None:
«Gli insegnanti non sono stati in grado di rispondere alle richieste (…);
molto onestamente mi hanno dichiarato che si sentono sprovvisti degli
strumenti diagnostici per ordinare gli alunni insufficienti mentali
secondo la tipologia proposta dal questionario». Aggiunge quanto segue:
«La prego, Signor Ispettore, di farsi partecipe presso i Superiori Uffici
del disagio nel quale gli Insegnanti e Direttore sono venuti a trovarsi
nell’impossibilità di affrontare, con un minimo di serietà un problema
tanto grave».
B.10. Violenze
e abusi
Fra le innumerevoli segnalazioni di
gravissime violenze inferte ai minori con handicap ricoverati in istituti
a carattere di internato è sconvolgente la vicenda dell’istituto Santa
Rita di Grottaferrata (Roma), che inizia nel 1951 con l’apertura di una
struttura per bambini gravemente disabili e si conclude con l’arresto
della direttrice Maria Diletta Pagliuca avvenuto il 7 giugno 1969. Come
risulta dalla sentenza della Corte d’Assise di Roma del 23 dicembre 1971,
nell’ispezione del 6 giugno 1969 gli inquirenti «trovano 13 ragazzi che
dormivano in coppie su sette lettini, tranne l’A. che dormiva da solo,
ciascuno con la testa verso la spalliera e legati a loro per le gambe.
Anche le braccia erano avvinte, mediante catenelle assicurate con
lucchetti o con legacci di stoffa, alle apposite spalliere del letto;
l’ambiente era impregnato di fetore». Da notare che l’istituto aveva
continuato a funzionare per ben 18 anni senza essere in possesso della
relativa preventiva autorizzazione prevista dalla legge e nonostante che
il Prefetto di Roma ne avesse ordinato la chiusura per ben due volte a
seguito di una relazione in cui l’ispettore aveva rilevato che «non vi
sono parole adatte per descrivere le pessime condizioni di abitabilità e
manutenzione e lo stato di abbandono di questo sedicente istituto di
ricovero [in cui] vi sono bambini cento volte più infelici per il luogo
dove vivono che per la loro menomazione» (3).
Numerose e assai gravi le violenze inflitte alle persone con disabilità
negli anni successivi. Ad esempio, come risulta dalle notizie riportate
dai giornali. - Istituto medico-psico-pedagogico di
Chiusa Pesio (Cuneo) - Decesso di W.T. di 16 anni per blocco intestinale,
conseguente all'ingestione di oltre tre chili di ghiaia. Al momento del
ricovero in ospedale il ragazzo era in grave stato di denutrizione,
vomitava feci ed era in agonia (Gazzetta del Popolo dell'8-12-1975).
- Ospedale psichiatrico di Palermo - Vi sono ricoverati una trentina di
bambini dai 4 ai 14 anni, affidati alle cure dei malati mentali adulti.
Spesso i bambini «vengono tenuti legati ai tavoli e alle sedie». È in
corso una inchiesta della magistratura (Gazzetta del Popolo del 13-1-1976
e Amica del 5-2-1976).
- Torino - Disperato appello
di una madre il cui figlio è malato (autismo precoce infantile): «Nessuno
vuole curarlo» (Gazzetta del Popolo del 27-10-1976).
- Istituto privato «Casa della Divina Provvidenza» di Bisceglie -
Accoglie 3800 persone e dà lavoro a 2000 persone (tutte assunte con
sistemi clientelari) e riceve ogni anno dall'Amministrazione provinciale
di Bari per le sole rette ben 20 miliardi. «Era un vero e proprio "lager"
l'istituto ortofrenico di Bisceglie dove ieri è stata effettuata una
ispezione per ordine della procura del tribunale per i minorenni di Bari
(...). Si sono appresi particolari agghiaccianti che non trovano riscontro
in nessuno dei più turpi casi del genere, venuti alla luce negli ultimi
venti anni». L'istituto «ospita malati sofferenti di insufficienza
mentale: duecento hanno meno di 18 anni, il più piccolo ne ha cinque;
alcuni sono ricoverati da pochi mesi; altri da anni; un ragazzo di dodici
anni è lì da quando ne aveva uno e mezzo». «L'ispezione ha permesso di
accertare che tre bambini erano bloccati con medioevali attrezzi di
contenzione; altri tre erano "ancorati" coi piedi ad altrettanti tavoli,
con cinte consunte: ai letti, maniglie con fasce pendenti; negli armadi,
viti, manicotti ed altri rudimentali aggeggi usati per "tenere a freno" i
malati» (Gazzetta del Popolo del 9-1-1977, l'Unità del 10-1-1977 e
COM-Nuovi Tempi del 23-1-1977).
- Foggia - Da un
verbale esistente presso il Tribunale per i minorenni risulta che
all'ospedale psichiatrico “Santa Maria” di Foggia la situazione è così
descritta: «Promiscuità (maggiorenni irrecuperabili e bambini con lieve
deficit intellettivo, malati di mente e handicappati fisici me-scolati
insieme); casi sospetti di omosessualità; casi evidenti di violenza
tradizionale (incontinenti perennemente legati - anche di notte? - ai
seggioloni col buco); mancanza di tecniche di recupero; insufficienza di
personale; nessun presidio ricreativo, degenti abbandonati a se stessi in
uno stato pre-comatoso che si protrae dal giorno alla notte» (La Stampa
del 28-1-1977).
- Catanzaro – Trattato peggio di
una bestia – La Repubblica del 28 giugno 1990 - Come ha riferito Filippo
Veltri nell’articolo “Undici anni legato al letto” «Vive dimenticato da
tutti. Da undici anni legato a un letto, vicino a un termosifone, per non
fare del male a sé stesso e agli altri. È la triste storia di Giuseppe C.,
23 anni, un cerebropatico di Catanzaro, che passa le sue lunghe giornate
con i polsi assicurati a un letto. Si alza una sola volta la settimana,
nel suo giorno di “festa”, quando gli infermieri gli fanno la doccia. Per
il resto vive come un animale in gabbia. Uno scandalo in piena regola,
anche se i medici del Dipartimento di salute mentale dell'Unità sanitaria
locale numero 18 di Catanzaro fanno notare come il vero ed autentico
scandalo sia quello che Giuseppe non abbia che poche speranze, perché nel
territorio dell'Usl di Catanzaro non esistono strutture alternative per
malati gravi del tipo di Giuseppe».
- Laterza –
Strappate le unghie delle mani e dei piedi a tre disabili gravi –
Nell’istituto privato Osmairm (Organizzazione sanitaria meridionale
assistenza inabili e recupero minorenni) sito a Laterza (Taranto), nella
notte fra il 30 aprile e il 1° maggio 1996 sono state strappate a tre
ricoverati tutte le unghie delle mani e dei piedi. I torturati sono
giovani di 16, 23 e 26 anni; due di essi sono colpiti da insufficienza
mentale e da tetraparesi spastica, il terzo è affetto da tetraplegia a
seguito di un grave trauma cranico. I seviziatori sapevano che nella
stanza in cui è stato compiuto l'orrendo crimine, al secondo piano
dell'istituto, solo tre dei cinque soggetti handicappati ivi ricoverati
non erano in grado di gridare o di reagire in altro modo.
B.11. Le persone in carrozzella devono viaggiare nei bagagliai
Come risulta dagli atti parlamentari del 30 ottobre 1970, rispondendo
all’interrogazione n. 3-03417 presentata dall’On. Cesarino Niccolai, il
Sottosegretario di Stato per i trasporti Cengarle ha precisato che «il
trasporto delle persone invalide, unitamente al proprio mezzo di
locomozione, è consentito, nei limiti dello spazio disponibile, nei
bagagliai dei treni viaggiatori», aggiungendo che «allo stato
attuale le caratteristiche del materiale rotabile non prevedono, nei
bagagliai, speciali ambienti isolati da riservare ai trasporti particolari
in argomento, per cui, nonostante l’interessamento del personale
ferroviario, non si possono escludere situazioni di disagio». Dunque
le persone in carrozzella erano considerate dei pacchi e subivano pertanto
non solo la segregazione nel bagagliaio privo di servizi, ma anche le
conseguenze del freddo gelido e del caldo afoso. Trascorsi dieci anni
senza alcun cambiamento, le Ferrovie dello Stato avevano proposto ai
propri dipendenti il versamento di 150 lire al mese per finanziare
iniziative non precisate «a favore dei figli e dei congiunti
handicappati dei ferrovieri». Ancora una volta non diritti ma
elemosine con ampia pubblicizzazione dei giornali e l’adesione di alcune
organizzazioni sindacali.
B.12. Bambini condannati a vivere come i
ciechi
Nell’articolo “Condannati a vivere come i ciechi”, apparso su
Oggi, n. 4, 1966, Neera Fallaci aveva intervistato il Professor Giuseppe
de’ Gennaro, docente universitario e chirurgo oculista, il quale aveva
dichiarato quanto segue: «Come ispettore oculista ho controllato tutti
i ricoverati a carico della Provincia di Napoli: almeno il trenta per
cento potrebbe e dovrebbe essere fuori di là e frequentare classi
speciali. Invece vengono bendati, abituati a non vedere perché la
percezione tattile sia falsata da quella visiva e viene loro insegnato il
Braille». In quel periodo era abbastanza frequente il ricovero negli
istituti per ciechi di bambini che “vedono male”, ma le istituzioni
intervenivano «per procurare loro un tetto e il pane». Il
Professor de’ Gennaro ricordava il caso di cinque fratelli siciliani
affetti da cataratta congenita che, sebbene l’intervento fosse felicemente
riuscito, «i due maggiori sono tornati all’istituto ciechi di Palermo
perché ormai sono alla vigilia d’un diploma in Braille» mentre «i
minori sono a Napoli, vivono in collegio». Uno dei fratelli «aveva la
cataratta congenita a un occhio, ma dall’altro ci vedeva bene. Eppure
anch’egli era stato ricoverato nello stesso istituto per ciechi».
Pertanto, conseguenza crudele del trattamento ricevuto, «sapeva
leggere e scrivere solo in Braille» pur vedendo bene da un occhio!
Inoltre il Professor de’ Gennaro aveva precisato che «molti istituti
dei ciechi, nonostante ospitino una rilevante percentuale di minorati
visivi, non hanno neppure l’oculista, né vi è un controllo all’atto di
ammissione del bambino».
B.13. La “clemenza della Magistratura”
In primo luogo va osservato che negli anni ’60–80 (e purtroppo anche
successivamente) quasi mai sono stati rinviati a giudizio dai Procuratori
della Repubblica i funzionari incaricati della vigilanza degli istituti di
ricovero che avevano omesso di compiere il loro dovere, con la conseguente
prosecuzione delle violenze inferte ai minori ivi accolti. È il caso, ad
esempio, dei responsabili del mancato controllo degli istituti dei
Celestini di Prato e di quello gestito dalla Pagliuca di Grottaferrata.
Fra gli episodi più significativi si ricorda la vicenda di
Monsignor Patrizio Carroll Abbing, Presidente dell’Opera per la Città dei
ragazzi di Roma, accusato di «aver omesso di inviare al Giudice tutelare
gli elenchi dei minori prescritti dall’articolo 314/5 della legge 5 giugno
1967 n. 431», impedendo quindi l’adozione dei fanciulli privi di
assistenza materiale e morale da parte dei loro genitori. Infatti il
Giudice istruttore, Antonio Aliprandi, con l’ordinanza del 13 maggio 1973,
respingeva la succitata richiesta affermando che «non essendo l’assistenza
sociale attività la cui titolarità è riservata alla pubblica
amministrazione, e quindi pubblico servizio, l’esercizio di essa non
costituisce esercizio di un pubblico servizio».
Si segnala inoltre che il Pretore di Capriati Volturno il 15 maggio 1970
aveva assolto per aver agito in stato di legittima difesa, un operatore
accusato di abuso di mezzi di correzione in danno di un convittore di 12
anni cui aveva «procurato lesioni guarite in 7 giorni fissandogli ai piedi
due pezzi di ferro dal complessivo peso di Kg. 3,450 a mezzo di catena con
lucchetto» per evitare che scappasse dall’istituto (4).
Si sottolinea che nel giudicare l’operato dei responsabili e degli operatori
degli istituti che avevano inferto violenze anche gravi ai bambini e ai
ragazzi ricoverati, mai si è tenuto conto dell’articolo 224 del regio
decreto 15 aprile 1926 n. 718 il cui terzo comma stabilisce quanto segue:
«Sono vietate le punizioni corporali e quelle consistenti nella privazione
degli alimenti» (5).
Pertanto anche per atti di
estrema gravità sono state pronunciate sentenze di assoluzione o sono
state inflitte pene molto lievi.
Fra le punizioni
più frequenti e violente vi erano quelle relative all’enuresi notturna,
fenomeno molto noto derivante dalla carenza di cure affettive.
Orbene, dagli atti di un processo celebrato nel nostro Paese negli anni ’70
risulta che le punizioni riguardavano anche «le gocce di pipì strizzate in
bocca dalle mutandine bagnate, il leccare con la lingua l’orina colata in
terra o il tenere avvolte sul capo le lenzuola bagnate».
B. 14 Istituto di ricovero di minori con handicap: nessun intervento
nonostante la frattura del femore
Riportiamo la lettera inviata il
20 gennaio 1983 da Frida Tonizzo ai signori N. «Sono una
rappresentante della Commissione di controllo dei movimenti di base
(6), autorizzata dall'Amministrazione provinciale di Torino a visitare
gli istituti e i centri in cui sono assistiti dei bambini anche
handicappati. «Nel novembre scorso durante una nostra visita
all'istituto Papa Giovanni XXIII di Volpiano abbiamo conosciuto vostro
figlio e ci siamo preoccupati delle sue condizioni fisiche: abbiamo cioè
saputo che erano trascorsi dei mesi dalla frattura del suo femore, che era
stato dimesso dall'ospedale senza nessun intervento. «Abbiamo segnalato
la sua situazione all'Assessore all'assistenza della Provincia di Torino
che ha poi deciso la visita dell’ortopedico effettuata ai primi di questo
mese. «Tornati all'istituto la settimana scorsa, abbiamo visto che era
rientrato dopo un periodo trascorso con voi. «Lo scopo della nostra
Commissione composta da volontari è di migliorare le condizioni in cui
vivono questi ragazzi. «Vorremmo parlarvi per vedere cosa possiamo
ancora fare per vostro figlio, visto che la mancanza di cure gli ha
provocato danni irreversibili. Vi prego quindi di telefonarci per fissare
un appuntamento con voi; potete cercarmi in orario ufficio al numero
83.12.79 intestato all'Unione per la lotta contro l'emarginazione sociale
(via Artisti 34).
B. 15 Lavorare con le persone con
handicap: esercizio della carità e disgusto
Nelle dispense
predisposte nel 1983 dall’Aris, Associazione religiosa istituti
socio-sanitari, per il corso di ausiliario, stampate a cura
dell’Assessorato alla sanità della Regione Piemonte, si legge quanto
segue: a) «di fronte a certe persone handicappate può sorgere il
pensiero” che funzioni ha nel mondo una persona come quella?”. Ognuno di
noi ha una sua funzione nel mondo; non fosse altro che di fare esercitare
la carità a chi sta bene ed a ringraziare il Signore per i doni ricevuti e
che tante volte dimentichiamo di possedere»; b) «l'ausiliario
può essere incaricato anche del trasporto quotidiano al centro di
riabilitazione o ad altri servizi a seconda dell'handicap; dovrà svolgere
questo compito con molta delicatezza ed intelligenza; nulla in lui
dovrebbe lasciar trasparire disagio o disgusto, ma solo desiderio di
rendersi utile». Susetta Bonnet del Csa (Coordinamento sanità e
assistenza fra i movimenti di base), con lettera del 21 giugno 1983
segnala all'Assessore alla sanità della Regione Piemonte non solo che il
problema dell'handicap «è stato affrontato superficialmente, in
maniera incompleta, ma soprattutto falsa ed ineducativa» ma anche che
«lo spirito che ha assicurato gli autori del testo è in netto
contrasto con quegli impegni sociali per cui ci stiamo da anni battendo,
con spirito laico, affinché al cittadino portatore di handicap siano
garantiti i servizi a lui spettanti senza ombra di carità».
Inoltre Susetta Bonnet rileva che è «grave che l'Assessorato alla
sanità della Regione Piemonte abbia curato la pubblicazione di lezioni per
la formazione di futuri ausiliari socio sanitari imperniata sul
pietismo e carità». Deludente la risposta dell'Assessore alla
sanità della Regione Piemonte che, con lettera dell' 8 luglio 1983 ha
affermato che «l'attività di revisione da parte dell’Assessorato
regionale si limita alla riconduzione di un linguaggio didattico più
idoneo a lavoratori in possesso della sola scolarità dell'obbligo, ad
alcune precisazioni giuridiche nella organizzazione dei servizi,
all'eliminazione di alcune dispense ritenute superflue nell'economia di un
corso di aggiornamento per ausiliari».
B. 16 Difesa della
razza e della vita agiata
Sul n. 2, 1970 della rivista "La Parola
Amica" della Piccola Opera per la salvezza del fanciullo di Monza, la
Direttrice dell’Istituto provinciale per la protezione e l’assistenza
all’infanzia di Genova, nel «tracciare un’acuta diagnosi della vita
moderna» aveva sostenuto che «i gruppi etnici elevati dal punto
di vista del patrimonio genetico e della educazione, si moltiplicano meno
degli altri, con il grave pericolo di una selezione negativa».
Segnalava quindi l’esigenza di garantire «necessità assistenziali
maggiori per coloro che nelle città non sono utili né tollerati e non solo
per i molesti malati di mente per i quali basterebbe talvolta solo il
ricovero diurno, ma per quelli che ostacolano la vita agiata della città,
i bambini, i malati, i vecchi, gli inabili, i bisognosi di controllo e di
assistenza non potendosi, a causa delle necessità lavorative e della
limitazione degli spazi, tenerli in casa». Dunque, per consentire
ai «gruppi etnici elevati dal punto di vista del patrimonio genetico e
dell’educazione di vivere tranquilli», la Direttrice dell’Istituto
provinciale per l’infanzia di Genova proponeva il ricovero in istituto
«per i malati di mente (…) i bambini, i malati, i vecchi e gli inabili».
Pertanto, la soluzione consisteva nel ricoverarli. In questa logica la
direttrice di Genova ottenne la costruzione di un nuovo istituto
provinciale per l'infanzia di 350 posti. Questo istituto non è mai entrato
in funzione se non per il giorno dell'inaugurazione da parte del
Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat: i bambini erano stati portati
nell'istituto al mattino e riportati nella vecchia sede nel pomeriggio. In
seguito è stato usato per altri scopi, mai, per fortuna, per i bambini.
Note
(1) Come è stato riportato sul numero 130/2000 di
“Prospettive assistenziali” con il titolo “I soggetti con sindrome di Down
definiti agonia umana”: «A Messina un sacerdote nega la confessione ad un
bambino con sindrome di Down; a Torino il settimanale cattolico “Il Nostro
Tempo” commenta il fatto in prima pagina e cerca “come sempre nei momenti
di smarrimento le parole che illuminano di fede una situazione difficile
da capire nell’umiliazione della ragione”. Le trova affermando che
“l’agonia umana è anzitutto un atto d’amore” e sostenendo addirittura che
la sindrome di Down è una «dolorosa, lunga e misteriosa “agonia umana”».
Il settimanale della Diocesi di Torino conclude l’articolo con le parole
“Che cosa importa? Tutto è grazia”. Ma questa non è la dimostrazione di
una cinica insensibilità nei confronti delle esigenze e dei diritti delle
persone con handicap Down e dei loro congiunti?». Segnaliamo altresì che,
come è stato pubblicato su “La Stampa” del 1° luglio 2012, Monsignor
Andrea Gemma, Vescovo emerito di Isernia, durante la trasmissione “Vade
retro” andata in onda il 9 giugno 2012 su TV2000, canale di proprietà
della Cei, Conferenza episcopale italiana, ha dichiarato che «il posseduto
dal diavolo ha le movenze e il portamento simile a un Down».
(2) Cfr. il volume di Emilia De Rienzo e Claudia De Figuereido,
Anni senza
vita al Cottolengo – Il racconto e le proposte di due ex ricoverati,
Rosenberg &Sellier, Torino, 2000.
(3) Cfr. il
volume di Bianca Guidetti Serra e di Francesco Santanera,
Il Paese dei
celestini. Istituti di assistenza sotto processo, Einaudi, Torino, 1973.
(4) Cfr. Bianca Guidetti Serra e Francesco
Santanera, op. cit.
(5) A tutela dei minori gli
altri due commi dell’articolo 244 del regio decreto 718/1926 erano così
redatti: «Gli istituti indicati nei precedenti articoli devono essere
ordinati in maniera da assicurare possibilmente ad ogni ricoverato la
sanità fisica e psichica e in tutti i casi l’istruzione elementare di
grado preparatorio, inferiore e superiore, l’istruzione professionale e
l’avviamento a quel mestiere o a quella professione che risponda alle sue
abitudini». «L’ordinamento disciplinare educativo e
l’abituale comportamento del personale di direzione, educazione,
assistenza e vigilanza, nei riguardi dei ricoverati, devono essere scevri
da ogni asprezza o severità sistematica ed informati al principio che gli
educatori debbono sopra tutto mirare alla conquista della fiducia, della
stima e dell’affetto dei singoli ricoverati». (6) Ai sensi della
delibera della Giunta della Provincia di Torino del 5 ottobre 1979 viene
assicurata «ai movimenti di base la possibilità di esercitare il
controllo sulle strutture di assistenza sia a carattere residenziale che
diurno». L'accesso è consentito in qualsiasi momento del giorno e
della notte a gruppi «costituiti da un minimo di due persone ad un
massimo di quattro» in possesso del tesserino rilasciato
dall'Amministrazione provinciale torinese. Gli incaricati dei movimenti di
base «non possono, pena il ritiro immediato del tesserino, interferire
sul lavoro svolto dai servizi, né manifestare apprezzamenti di alcun
genere»; le eventuali osservazioni, critiche e proposte debbono
essere presentate all'Amministrazione provinciale dai movimenti di base.
Analoga delibera è stata assunta dalla Giunta comunale di Torino con
delibera del 28 febbraio 1983.
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