Anni senza vita al CottolengoANNI SENZA VITA AL COTTOLENGO
Il racconto e le proposte di due ex ricoverati

Emilia De Rienzo, Claudia De Figueiredo

Rosemberg & Sellier
Torino, 2000
pagg. 135 -   10,00 euro

 

Non più emarginati, ma cittadini a pieno titolo, conquistano la libertà e iniziano una nuova vita: Roberto dopo 35 anni di ricovero al Cottolengo di Torino, Piero dopo 24 anni nello stesso istituto.

Roberto, nato nel 1945, affetto da tetraparesi spastica:

"Io posso dire di aver cominciato a vivere davvero solo quando ho cominciato a lottare contro chi mi voleva vedere un soggetto affidato al buon cuore degli altri. (...) Gli istituti non devono più esistere. Aiutare gli altri non può e non deve più significare ricoverare dentro quattro mura chi ha dei problemi"

Piero, nato nel 1957, con dei moncherini al posto di braccia e gambe, afferma:

"Oggi molte famiglie lottano per i loro figli, per tenerli con se' ed è una cosa molto bella vedere i bambini anche handicappati molto gravi essere coccolati dalle loro mamme e dai loro papà, giocare con i fratelli e con gli amici, sorridere come tutti gli altri bambini. Il sorriso dei quei bambini, ve lo posso garantire, non è lo stesso dei bambini chiusi negli istituti".

Dalla presentazione di Maria Grazia Breda ("La Scuola dei diritti Daniela Sessano" dell'ULCES):

" Questo libro nasce dall'incontro tra l'Ulces (Unione per la lotta contro l'emarginazione sociale), che ha tra i suoi obiettivi statutari la lotta a ogni forma di emarginazione sociale e la disponibilità di Roberto e Piero a mettere la loro storia personale al servizio della causa contro "l'istituzionalizzazione totale".

Ancora una volta insieme, la sottoscritta in quanto presidente dell'Ulces e loro, Roberto e Piero, come protagonisti della storia, per ribadire il nostro "no al ricovero in istituto", una risposta assolutamente anacronistica ai problemi di chi (bambini, adolescenti, minori o adulti con handicap, anziani …) non può continuare a restare presso il proprio domicilio.

Un appello forte a chi amministra, che si unisce a quello già lanciato col documento "Istituti mai più" dal Coordinamento nazionale delle Comunità di accoglienza nel convegno di Roma del 25 giugno 1997, perché non siano più finanziate, in Italia e all'estero, nuove strutture di ricovero, neppure se con nuovi nomi, ma anche un invito a chi oggi gestisce istituzioni pubbliche e private, perché abbia il coraggio di chiudere con il passato e convertirsi al nuovo concetto di assistenza, che mette al centro degli interessi la persona, i suoi diritti e la sua dignità.

Vi sono importanti ricerche scientifiche, mai smentite o contraddette, che testimoniano i danni gravi e spesso irreversibili provocati dalle istituzioni totali pubbliche e private nei confronti dei ricoverati: quanto più sono piccoli e deboli, tanto più essi restano traumatizzati per sempre dalla vita condotta in ambienti che non potranno mai assicurare le attenzioni affettive e relazionali di una famiglia.

Insomma, è ormai chiaro per tutti che non basta avere un tetto sotto cui dormire e un pasto caldo al giorno da mangiare.

Anche un'istituzione come il Cottolengo - e citiamo questa istituzione perché è tra le più note - non può più sostenere di essere indispensabile in questa sua veste di "cittadella dei poveri".

Grazie all'affermazione del diritto all'eliminazione delle barriere architettoniche, all'integrazione scolastica, alla sanità, alla casa, al lavoro, ai trasporti sul territorio, anche persone con gravi limitazioni fisiche della loro autonomia, sono in grado di continuare a restare a casa propria e di condurre una vita accettabile, secondo i loro desideri e le loro possibilità.

Roberto e Piero ne sono un esempio vivente: la loro fatica - raccontata con molta sincerità - di imparare a vivere senza la protezione dell'istituzione che li aveva accolti per tanti anni deve far riflettere chi ancora oggi pensa che sia giusto rinchiudere queste persone proprio "per il loro bene", mentre in realtà è per il nostro egoismo e intolleranza alla diversità.

Sono inoltre cresciute in misura sempre maggiore le risposte assistenziali diverse dal ricovero in istituto anche per le persone con handicap intellettivo medio-grave. Sono centinaia i giovani che sono stati assunti in questi anni sia da aziende pubbliche che private; molti di essi, oggi adulti, vivono la loro vita, in piccole convivenze guidate, con un supporto educativo minimo di alcune ore giornaliere.

Piccole comunità alloggio, da otto-dieci posti al massimo, sono state realizzate in normali condomini o in piccole costruzioni inserite nel vivo dell'abitato per chi ha invece una limitazione totale o parziale dell'autonomia a causa della gravità del proprio handicap intellettivo.

Ci auguriamo dunque che questo libro-testimonianza contribuisca a rinforzare negli enti locali e nelle istituzioni private, scelte concrete a favore dei servizi domiciliari, diurni e residenziali alternativi al ricovero in istituto, partendo dalle esigenze delle persone e non dalla salvaguardia delle strutture esistenti.

I grandi edifici si possono riconvertire e vendere, oppure affittare e, con il ricavato, acquistare tanti piccoli appartamenti sparsi nelle comuni case di abitazione da mettere a disposizione delle persone handicappate in grado di vivere autonomamente.

Anziché costruire nuovi complessi è meglio investire in piccoli alloggi per gruppi di due-tre soggetti (convivenze guidate), oppure in tante piccole comunità familiari da otto-dieci posti letto al massimo, per chi ha maggiori difficoltà.

Per le nuove realizzazioni i Comuni stessi devono semplicemente riservare nell'edilizia residenziale pubblica appartamenti da destinare a questo scopo, come previsto dalla normativa vigente, e imparare a investire le risorse disponibili, più numerose di quanto si pensi, in piccole costruzioni.

Contrastiamo senza timore alcuno quanti ancora oggi vogliono convincerci che, in nome dell'economia, bisogna accettare strutture almeno da venti-trenta posti letto per gli handicappati, se non di più.

Non c'è ragione economica che tenga, di fronte al dovere che abbiamo tutti noi, e le istituzioni in primo luogo, di garantire una qualità di vita dignitosa a chi non può - per ragioni indipendenti dalla sua volontà - vivere come avrebbe voluto a casa propria".

www.fondazionepromozionesociale.it