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L'INCREDIBILE REPARTO PER BAMBINI “CRONICI” DELL’OSPEDALE INFANTILE
BURLO GAROFALO DI TRIESTE
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Da Trieste Antonello Massaro ci scrive:
«Si parla
spesso molto bene dell'Ospedale Infantile Burlo Garofolo, si dice che è
ben attrezzato, che vi è un personale competente, che è un ospedale
all'avanguardia in Italia. Non si parla mai però di
uno dei suoi reparti, il più nascosto: il reparto «cronici». Si tratta
di un piccolo edificio a due piani, che sorge isolato lontano dal
grande edificio, dove circa 60 tra bambini e ragazzi di ambo i sessi
sono rinchiusi: sono ragazzi che, a causa di menomazioni fisiche e/o
psichiche più o meno gravi, sono stati etichettati come «cronici», come
persone quindi che «non sono in grado di svilupparsi» per le quali
quindi «è inutile ogni tipo di cura». Non dico che sia facile
educare questi ragazzi, ma sostengo che è possibile farlo. Certo, ci sono alcuni
soggetti così gravemente danneggiati che non possono né potranno mai
essere autosufficienti, ma questi sono una minima parte. I più, invece,
se solo venissero aiutati nel loro sviluppo psico-fisico, se venissero
sollecitati e anche, ad un certo momento, addestrati, potrebbero
attivamente inserirsi nella società. Nel grande edificio
dell'Ospedale infantile Burlo Garofalo sono ospitati i bambini non
handicappati. Per loro si parla di: Day Hospital, deospedalizzazione,
assistenza superiore al servizio ambulatoriale, camere quasi vuote e
molto spazio. I pazienti beneficiano di tutti i vantaggi che offre
l'ospedale: strumentazioni, esami, interventi polispecialistici. È
inoltre evitato il trauma del ricovero e del distacco improvviso dalla
famiglia in quanto i genitori possono essere sempre vicini ai figli. Insomma l'ospedale
infantile Burlo Garofalo è un'isola di felicità e di salute per i
bambini esenti da menomazioni fisiche e/o psichiche. Invece, per i giovani
handicappati che vivono o, meglio, vegetano in completa inattività
all'interno del reparto «cronici», non esiste niente di tutto questo:
non vi è un'assistenza psicofisica adeguata, non vi è spazio
sufficiente per la loro riabilitazione fisica né per la loro
espressione, le attività ricreative sono pressoché assenti: nessuno si
occupa dello sviluppo intellettuale del ragazzo, né di cercare di
capire quali sono le sue attitudini; manca un contatto diretto con il
mondo esterno: le rare gite fuori dall'ospedale, cui non tutti possono
partecipare, sono insufficienti palliativi. Il trauma del ricovero non
solo non è evitato, ma non si cerca nemmeno di renderlo meno duro. Di
riduzione della degenza non si parla nemmeno: sono costretti a restare
in questo luogo dove, pur non subendo maltrattamenti fisici, sono
condannati all'inattività. Provate a lasciare una persona normale per
un mese senza fare assolutamente niente; per quanto possa essere forte
psichicamente, come minimo quella diventa paranoica. E come può, allora, un
soggetto più debole resistere per anni a questa tortura? Non può
resistere, ma deve adattarsi in qualche modo per sopravvivere, così si
estrania completamente dalla vita e regredisce fino a forme di pura
comunicazione affettiva, dipendenza assoluta, apatia cronica: questo è
ciò che succede ai ragazzi che vivono al reparto «cronici»
dell'Ospedale infantile Burlo Garofolo. E la situazione è destinata a
rimanere tale fino a quando verranno trasferiti alla Villa Coslovich. E
poi? Premettendo che non il
luogo, ma le condizioni di vita sono determinanti sulla formazione di
una persona sul suo rapporto con la società, io mi domando: cambierà
finalmente la situazione per questi giovani o sono destinati a vivere
per sempre così? Concludendo, non è
possibile parlare della magnificenza del Grande Burlo dato che nel
magnifico ingranaggio di questa macchina "perfetta" c'è una grossa
rotellina che gira in senso contrario: è il Piccolo Burlo i cui giovani
detenuti ci chiedono soltanto di rispettare il loro diritto alla vita. Non condanniamo queste
persone, le più innocenti, alla "morte in vita". Non è giusto che queste
persone siano rinchiuse e nascoste agli occhi dei «poveri cittadini,
che soffrono nel vedere un handicappato e lo considerano un animale
spregevole del quale avere al massimo compassione». |