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Fra le prese di
posizione più significative che comprovavano la negativa considerazione,
spesso incivile e disumana, in cui erano tenute le persone con handicap
intellettivo grave, si ricordano in primo luogo le affermazione del noto
teologo-moralista e Arcivescovo di Perugia, Ferdinando Lambruschini che,
nell’articolo “Valore della vita e dovere di conservarla” apparso sulla
pubblicazione del Vaticano
L’Osservatore della domenica del 26 gennaio 1969 aveva affermato
che «nella teologia morale
tradizionale si distingue tra mezzi, rimedi e metodi ordinari per
conservare la vita, obbligatori in coscienza e mezzi metodi e rimedi
straordinari, cui non si è obbligati a ricorrere».
Aveva quindi
precisato che «questa distinzione va tenuta presente circa il dovere o meno di salvare
la vita di prole nata precocemente, mediante il ricorso all’incubatrice.
L’obbligatorietà di tale ricorso va affermato quando si prevede che
detta prole potrà avere una vita normale. Se si tratta invece di prole
anomala, ad esempio mongoloide, non si può interdire, ma neppure
imporre, in nome della coscienza cristiana, il ricorso all’incubatrice,
che prolungherebbe una vita di stenti e di sacrificio».
Monsignor
Lambruschini concludeva le sue valutazioni come segue:
«In contrasto con l’affermazione
alquanto semplicistica “essere meglio esistere deformi, che non esistere
affatto” preferiamo affidarci al principio che non si può fare nulla per
abbreviare direttamente la vita umana, ma nello stesso tempo si può
omettere qualche prestazione eccezionale per prolungare la vita in
condizioni di particolari disagi. Non si tratta di cinismo ma di sano
realismo ispirato a saggezza. I comportamenti improntati all’eroismo
sono sempre meritevoli di ammirazione, ma non sempre suscettibili di
imposizione».
A seguito delle
numerose lettere ricevute dall’Italia e dall’estero (1), Monsignor Lambruschini era
ritornato sull’argomento con l’articolo “Via libera all’eutanasia?”,
pubblicato su L’Osservatore della
domenica del 9 marzo 1969 sostenendo che
«l’eutanasia è condannata dalla legge divina, naturale ed evangelica, di
cui la Chiesa
è interprete autentica» ma che
«la formulazione positiva del comandamento di avere cura della vita
propria e altrui non è così assoluta da rifiutare la distinzione
teologica tra mezzi ordinari e straordinari, che non è affatto
arbitraria e tanto meno in contrasto con il Vangelo».
Pertanto, proseguiva
il teologo-moralista «la nostra
posizione non contrasta con il Vangelo e non sminuisce affatto la
ammirazione dovuta a quanti hanno saputo eroicamente affrontare
durissimi sacrifici, dettati da motivi nobilissimi, per conservare al
proprio affetto una prole deforme, ricorrendo all’incubatrice»,
aggiungendo: «dobbiamo
tuttavia respingere con tutte le nostre forze l’accusa di
incoraggiamento a lasciare morire di fame un bambino deforme nato
prematuro. L’alimentazione è un rimedio ordinario, la cui omissione
costituisce grave colpa e nel caso un vero delitto. Non può invece
venire qualificata come tale la omissione di una prestazione
straordinaria [il ricorso all’incubatrice, n.d.r.],
per la cui valutazione possono e
devono essere tenute presenti le condizioni obiettive e soggettive delle
persone maggiormente interessate e di buona coscienza, in genere i
genitori ed i medici».
A conclusione
dell’articolo in oggetto, Monsignor Lambruschini riportava
«la seguente conclusione di una
rivista francese di ispirazione molto tradizionale, cui ci siamo basati
per la risposta circa l’obbligatorietà morale o meno del ricorso
all’incubatrice, per salvare la vita a prole prematura e deforme: “Non
si può mai fare qualche cosa per abbreviare la vita direttamente e
positivamente di un essere umano, ma si possono omettere prestazioni
ritenute straordinarie nella loro complessità"»
(2).
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(1) Fra le
lettere segnalate dallo stesso Lambruschini si ricorda quella di una
signora di Firenze che
«si
proclama grata a Dio di averle dato un figlio mongoloide, oggi
diciassettenne, nato prematuro e salvato per mezzo
dell’incubatrice, perché ho imparato ad aiutare non solo lui, ma
quelli che sono come lui» e che
«si sente triste nel
capire che, tutto sommato, avrebbe legittimamente potuto fare a
meno di portare una croce così pesante per diciassette anni».
(2)
Monsignor Lambruschini aveva utilizzato nei suoi due articoli i
termini dispregiativi di
«prole anomala, ad esempio mongoloide», «prole anormale», «prole
tarata e anomala», «prole deforme».
Aveva anche fatto riferimento
«ai così detti
mostri umani».
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