PROSPETTIVE ASSISTENZIALI - N. 132 ottobre-dicembre 2000

Editoriale

LA LEGGE SUI SERVIZI SOCIALI - legge n.328/2000 - È INIQUA E TRUFFALDINA


Sul supplemento ordinario della Gazzetta ufficiale n. 265 del 13 novembre 2000 è stata pubblicata la
legge 8 novembre 2000 n. 328, "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali".

A nulla sono servite le numerose iniziative assunte nei confronti del Parlamento e del Governo (e in particolare del Ministro per la solidarietà sociale, Livia Turco) per richiedere il riconoscimento effettivo delle esigenze specifiche della fascia più debole della popolazione (2-3% degli abitanti), fascia in gran parte costituita da persone non in grado di tutelare le proprie esigenze: minori privi dell’indispensabile sostegno familiare, handicappati con limitata o nulla autonomia, soggetti singoli e nuclei familiari in difficoltà, persone senza fissa dimora, ecc.

 

Un riprovevole inganno:

Assumendo come riferimento essenziale le esigenze della fascia più debole della popolazione, prendiamo in esame gli aspetti più importanti della legge 328/2000 secondo il metodo proposto da La scuola dei diritti Daniela Sessano dell’Ulces (cfr. "A scuola dei diritti - Come difendersi da inadempienze e abusi della burocrazia sociosanitaria" di Roberto Carapelle e Francesco Santanera, Utet Libreria, Torino, 1997)

Leggendo il primo articolo della legge 328/2000 si ha l’impressione che saranno risolti tutti i problemi. Infatti c’è scritto che "la Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza". Inoltre nello stesso articolo, è addirittura stabilito che la Repubblica "previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezze di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia".

A sua volta l’articolo 2 della legge 328/2000 stabilisce che "hanno diritto di usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato di interventi e servizi sociali i cittadini italiani (...) e di Stati appartenenti all’Unione europea ed i loro familiari (...), nonché gli stranieri".

Poiché le prestazioni previste dalla legge 328/2000 (cfr. l’articolo 1, comma 2) comprendono tutte le attività rivolte alle persone, escluse solamente quelle relative alla sanità, alla previdenza e all’amministrazione della giustizia, ognuno di noi dovrebbe essere pienamente soddisfatto e attendere fiducioso l’approvazione delle leggi regionali e la messa in atto dei servizi e degli interventi da parte dei Comuni singoli o associati.

Purtroppo la realtà è ben diversa. Difatti, contrariamente a quanto è scritto negli articoli sopra citati, la legge 328/2000, ad esclusione degli emolumenti economici da anni erogati ai soggetti colpiti da invalidità civile, cecità, sordomutismo, non riconosce alcun diritto esigibile, nemmeno nei confronti delle persone che, se non ricevono anche le prestazioni assistenziali o muoiono (ad esempio, i neonati ed i bambini in situazione di abbandono nonché gli handicappati intellettivi privi di famiglia con limitatissima o nulla autonomia) o cadono nel baratro dell’emarginazione (ad esempio, i minori ed i nuclei familiari in gravi difficoltà personali e sociali).

Come abbiamo già rilevato nei numeri scorsi di Prospettive assistenziali, non solo non sono stati riconosciuti nuovi diritti azionabili. La mancanza di diritti esigibili nella legge 328/2000 è stata riconosciuta dall’On. Gianfranco Morgando, Sottosegretario al tesoro, nella seduta del Senato del 18 luglio 2000: anche a questo riguardo le bugie del Ministro Livia Turco hanno avuto le gambe corte.

La Fish, Federazione italiana per il superamento dell’handicap, si è vantata di aver ottenuto l’inserimento nella legge 328/2000 (cfr. il 3° comma dell’art. 2) il riconoscimento della priorità dell’accesso ai servizi per "i soggetti in condizioni di povertà e con limitato reddito o con incapacità totale o parziale di provvedere alle proprie esigenze per inabilità di ordine fisico e psichico, con difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro, nonché i soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che rendono necessari interventi assistenziali". Purtroppo, com’è ovvio, "priorità" non significa "diritto". Pertanto se le prestazioni non vengono attuate, le persone interessate non hanno alcun strumento giuridico per obbligare i Comuni a fornirle.

Analoghe considerazioni vanno fatte per quanto riguarda le attività elencate nell’art. 22 che "costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi".

In merito i finanziamenti, altra condizione sine qua non per l'esigibilità dei diritti, nella legge 328/2000 viene più volte precisato che le prestazioni sono fornite "nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali" (art. 4,6,14,18,20 e 22): il che dimostra ancora una volta, l'assenza di disposizioni azionabili da parte dei cittadini.

Inoltre, nei confronti dell'organo istituzionalmente preposto all'erogazione delle prestazioni (ricordiamo nuovamente che, ai sensi del 5° comma dell’articolo 8, le Regioni possono attribuire alle Province o ad altri enti locali (consorzi fra Province o fra Province e Comuni, ecc.) le competenze in materia di assistenza ai minori nati fuori del matrimonio, alle gestanti e madri nubili o coniugate ed ai ciechi e sordi poveri rieducabili), le Regioni, pur essendo tenute a determinare entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge 328/2000 gli ambiti territoriali idonei per la gestione dei servizi, hanno limitate e non semplici possibilità di imporre ai Comuni di ridotte dimensioni l'obbligo di consorziarsi. (Ai sensi del decreto legislativo 112/1998 "al fine di favorire l'esercizio associato delle funzioni dei Comuni di minore dimensione demografica, le Regioni individuano livelli ottimali di esercizio delle stesse concordandoli nelle sedi concertative di cui al comma 5 del presente articolo. Nell'ambito della previsione regionale , i Comuni esercitano le funzioni in forma associata, individuando autonomamente i soggetti, le forme e le metodologie, entro il termine temporale indicato dalla legislazione regionale. Decorso inutilmente il termine di cui sopra, la Regione esercita il potere sostitutivo nelle forme stabilite dalla legge stessa. La legge regionale prevede altresì appositi strumenti di incentivazione per favorire l'esercizio associato delle funzioni").

Al riguardo va tenuto conto che sui 8.100 Comuni italiani ben 5.899 hanno meno di 5.000 abitanti: da soli sono, pertanto, nell’assoluta impossibilità di istituire la necessaria rete dei servizi e di garantirne un accettabile funzionamento.

 

La turlupinatura più immorale

Le autorità asseriscono continuamente che, a causa della mancanza di adeguate risorse economiche, non possono garantire i necessari interventi alla persone in difficoltà (minori privi dell’indispensabile sostegno familiare, handicappati con limitata o nulla autonomia, uomini e donne che intendono uscire dalla schiavitù della prostituzione, persone senza fissa dimora, ecc.). Però, invece di stanziare fondi aggiuntivi per le persone più deboli, la legge 328/2000 sottrae all’esclusiva destinazione a favore dei poveri ben 107-140 mila miliardi. Si tratta del valore delle proprietà immobiliari e mobiliari delle Ipab, istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, le ex opere pie. (Al convegno di Torino del 12 dicembre 1989, Mons. Giovanni Nervo ha affermato quanto segue: "Il primo principio etico equivale per i credenti ad un Comandamento di Dio: non rubare. I patrimoni delle Ipab sono stati donati da privati cittadini per i poveri. Prima che fossero donati erano di proprietà dei privati; dopo che sono stati donati, sono diventati proprietà dei poveri questo principio rimane, qualunque siano state le vicissitudini storiche e giuridiche").

Infatti, secondo i dati del rapporto sulle Ipab, trasmesso dal Ministero per la solidarietà sociale al Parlamento in data 30 giugno 1999, i patrimoni immobiliari e mobiliari delle 4.200 Ipab ancora funzionanti sono stati valutati in 37 mila miliardi.

Invece, in base a quanto riportato sul n. 6, novembre-dicembre 1996 di Ipaboggi, rivista degli amministratori delle ex opere pie, "le Ipab dispongono di un patrimonio che la stima più prudente valuta in oltre 50.000 (cinquantamila) miliardi in gran parte ancora disponibile ad essere riconvertito in strutture per l’assistenza così come prevedevano i loro statuti".

Da notare che, come risulta dal sopracitato rapporto trasmesso al Parlamento, dal 1995 al 1997 nella sola Regione Lombardia, 132 cittadini hanno disposto a favore di Ipab donazioni e lasciti per l’importo di 72 miliardi. Dunque, le Ipab, contrariamente a quanto sostenuto dal Ministro Livia Turco, sono ancora strutture vitali e positivamente considerate dalla popolazione.

Per quanto riguarda le Ipab inattive, aspetto propagandato senza peraltro mai indicarne la consistenza, la legge 6972/1890 ne prevedeva l’estinzione con il trasferimento dei beni o ad altre Ipab o ai Comuni. Ad esempio, in attuazione della legge suddetta, la Regione Piemonte ha disposto negli ultimi vent’anni l’estinzione di ben 680 Ipab con il conferimento dei patrimoni quasi sempre ai Comuni.

Le proprietà assegnate ai Comuni in base alle procedure di estinzione sono valutabili in altri 40-50 mila miliardi per l’intero territorio italiano. Al riguardo è imperdonabile che di tali beni, destinati insieme ai relativi redditi, alla fascia più debole della popolazione, la legge 328/2000 non dica una sola parola, consentendo in tal modo la soppressione del vincolo di destinazione ai poveri.

Per quanto concerne i patrimoni delle Ipab depubblicizzate ai sensi della sconcertante sentenza della Corte Costituzionale n. 396/1988, trasferiti a titolo assolutamente gratuito ad enti privati, il loro ammontare può essere valutato in 30-40 mila miliardi. Anche in questo caso è intollerabile che la legge 328/2000 non dica una sola parola in merito all’utilizzo dei patrimoni.

Contrariamente a quanto ha sostenuto l’On. Elsa Signorino, relatore alla Camera dei Deputati del testo di riforma dell’assistenza, l’imposizione di detti vincoli era possibile, com’è dimostrato dal 2° comma dell’art. 6 della legge Regione Piemonte 19 marzo 1991 n. 10 così redatto: "Il patrimonio mobiliare ed immobiliare delle Ipab che abbiano conseguito il riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato, i relativi redditi netti derivanti dalla sua gestione ed i proventi derivanti dalla sua alienazione o trasformazione sono destinati esclusivamente alle attività socio-assistenziali previste dallo statuto".

Il Parlamento e il Governo, essendosi opposti all’approvazione di un emendamento analogo alla norma precedente trascritta, hanno dimostrato in modo incontrovertibile che lo scopo vero della legge 328/2000 è la sottrazione di risorse ai più deboli per consentirne l’utilizzo da parte anche se non soprattutto dei benestanti. Per molti individui è comodo asserire che la nostra affermazione è forzata: restiamo dunque in attesa di conoscere altre argomentazioni che motivino in modo diverso da noi la massiccia sottrazione di beni ai più indigenti.

 

I soldi ci sono, ma non per i più bisognosi

Come avviene da decenni, anche nel caso del dibattito parlamentare relativo alla legge 328/2000, i politici, in particolare il Ministro per la solidarietà sociale, On. Livia Turco, hanno ripetuto che non vi erano le risorse economiche occorrenti per garantire diritti esigibili alle persone ed ai nuclei familiari in difficoltà.

Prendendo come base di calcolo i dati del Cisap, Consorzio dei Comuni di Collegno e Grugliasco per i servizi alla persona (i Comuni di Collegno e Grugliasco fanno parte del collegio elettorale dell’On. Livia Turco), risulta che la spesa complessiva per il 1999 è stata di lire 7 miliardi e 262 milioni. Poiché gli abitanti dei due suddetti Comuni sono 87.756, la spesa per abitante, per l’anno 1999, è stata di lire 82.750. Dunque, ammontando la popolazione italiana a 57 milioni di abitanti, la spesa complessiva può essere individuata in 4.700 miliardi.

La somma suddetta è comprensiva degli attuali stanziamenti delle Regioni, delle Province e dei Comuni, stanziamenti annui complessivamente ipotizzabili in 2.000-2.500 miliardi.

Ne risulta che, con finanziamenti aggiuntivi di 2.000-2.500 miliardi all’anno, era possibile garantire interventi obbligatori per la fascia più debole della popolazione.

Anzi, il suddetto importo aggiuntivo poteva essere ridotto per i primi due-tre anni tenuto conto che il livello (abbastanza soddisfacente) dei servizi erogati dal Consorzio dei Comuni di Collegno e Grugliasco è di gran lunga superiore alla media degli interventi praticati in Italia.

In ogni caso, l’insieme degli stanziamenti aggiuntivi avrebbe dovuto essere compatibile con le capacità di spesa dei Comuni singoli o associati con i servizi inesistenti o carenti al momento dell’entrata in vigore della legge 328/2000.

Per valutare la congruità dei finanziamenti (stabiliti nella legge 328/2000 in lire 106 miliardi e 700 milioni per l’anno 2000, lire 761 miliardi e 500 milioni per il 2001 e 922 miliardi e 500 milioni a decorrere dal 2002 oltre a 20 miliardi per ciascuno degli anni 2001 e 2002 per gli interventi urgenti per le situazioni di povertà estrema), occorre tener conto della questione dei patrimoni immobiliari e mobiliari delle Ipab, nonché dei redditi derivanti dalla loro imponente massa di beni, come abbiamo visto, valutabili in ben 107-140 mila miliardi.

Va, altresì, osservato che, con effetto dal 1° gennaio 2001, come hanno concordato la maggioranza e la minoranza del Senato, gli stanziamenti finalizzati, ad esempio quelli vincolati ai soggetti con handicap di cui alla legge 104/1992 e 162/1998, nonché quelli indicati nella stessa legge 328/2000 (superamento delle condizioni di povertà e di emarginazione delle persone e delle famiglie, promozione dell’assistenza domiciliare degli anziani, ecc.), sono trasferiti al Fondo nazionale per le politiche sociali, la cui destinazione ai vari interventi e servizi è stabilita dalle autonome valutazioni delle singole Regioni. Non essendo previsto da tutte le leggi in oggetto (104/1992, 285/1997, 162/1998 e 328/2000) alcun diritto esigibile, è possibile che i finanziamenti dello Stato non vengano più destinati esclusivamente ai soggetti più deboli.

 

Un altro tranello

Estremamente preoccupanti sono le norme della legge 328/2000 concernenti gli anziani non autosufficienti. Tutte le persone intellettualmente oneste sanno che si tratta, salvo casi del tutto eccezionali, di persone malate le cui condizioni di salute (cancro, demenza, pluripatologie ecc.) sono così gravi da determinare anche la non autosufficienza e cioè la dipendenza anche totale da altri individui per atti fondamentali della vita: mangiare, bere, utilizzo dei servizi igienici ecc. Nei casi più gravi queste persone non sono nemmeno in grado di esprimere le loro esigenze: caldo freddo, fame, sete, ecc.).

Per i suddetti soggetti (circa 500-800 mila individui), l'art. 15 della legge 328/2000 stabilisce che restano immutate "le competenze del Servizio sanitario nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, per le patologie acute e croniche, particolarmente per i soggetti non autosufficienti". Questa formulazione è un realtà truffaldina, in quanto non conferma, come potrebbe apparire a prima vista, la totale (o almeno primaria) competenza del Servizio sanitario nazionale, così come avviene per i malati giovani e adulti aventi le stesse patologie.

In primo luogo va osservato che la citata formulazione dell'art. 15 della legge 328/2000 sarebbe stata evidentemente inutile se il legislatore intendeva conservare i diritti vigenti. In realtà, la disposizione stabilisce che il Servizio sanitario nazionale continua a fornire agli anziani non autosufficienti solamente le prestazioni mediche, infermieristiche e riabilitative, ma non quelle alberghiere. (Ricordiamo che non c’è nessuna legge dello Stato che preveda il pagamento da parte dell’anziano malato cronico non autosufficiente ( o da altro soggetto) della cosiddetta quota alberghiera. Poiché l’art. 23 della Costituzione stabilisce che "nessuna prestazione sanitaria o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge" (che deve essere approvata dal Parlamento), le richieste concernenti il pagamento della quota alberghiera sono certamente abusive anche se contemplate da leggi regionali) .

Di conseguenza - fatto importantissimo - le altre attività riguardanti il soggetto malato (ammissione, scelta del posto letto, dimissione, norme relative alla idoneità dei locali, qualificazione e numero degli addetti ecc.) non sono più quello del Servizio sanitario nazionale, ma del settore dei servizi sociali.

Purtroppo la legge 328/2000 ha assunto come riferimento, soprattutto su iniziativa dell’On. Elsa Signorino, la prassi assolutamente illegale praticata dalla Regione Emilia-Romagna, in cui si è arrivati al punto che il referente per gli interventi riguardanti l’anziano malato cronico non autosufficiente (colpito da cancro, demenza o da altre patologie) non è un medico, ma un assistente sociale!

Infatti, il primo comma dell’art. 18 della legge della Regione Emilia -Romagna 3 febbraio 1984 n. 5 dall’altisonante titolo "Tutela e valorizzazione delle persone anziane - Interventi a favore di anziani non autosufficienti" è così redatto: "Al fine di garantire all’anziano non autosufficiente o a rischio di non autosufficienza un corretto e completo svolgimento del necessario percorso assistenziale, l’assistente sociale del Servizio assistenza anziani che compie la valutazione di cui alla lettera a) del comma 1 dell’art. 15 assume la responsabilità del controllo dell’attuazione degli interventi previsti nel programma assistenziale personalizzato".

A sua volta, il sopra citato art. 15 della legge dell’Emilia-Romagna stabilisce che il " Settore assistenza anziani" ha il compito di "compiere una prima valutazione della situazione dell’anziano al fine di avviarlo, secondo il tipo di bisogno, alla rete dei servizi sociali o, tramite l’Unità valutativa geriatrica, a quella dei servizi integrati socio-sanitari", servizi che appartengono al settore dell’assistenza sociale e non del Servizio sanitario nazionale.

Ne consegue, altresì, che mentre i giovani e gli adulti malati cronici non autosufficienti possono rivolgersi autonomamente ai servizi sanitari, gli anziani aventi le stesse condizioni di salute sono costretti a superare lo sbarramento del "Settore assistenza anziani". Una gravissima violazione del principio di uguaglianza dei cittadini stabilito dalla Costituzione e un oltraggio alla dignità delle persone anziane.

Si tenga, inoltre, in debito conto che l’Assessorato ai servizi sociali della Regione Emilia-Romagna, allo scopo di occultare la condizione di "malati" degli anziani cronici non autosufficienti, ha predisposto la scheda Bina per la valutazione dell’indice di non autosufficienza, inserendo fra le "le condizioni di disagio prevalente" (e non fra le malattie!) le neoplasie, l’ictus, la demenza, i traumi e le fratture, ecc.

Con il trasferimento all’assistenza delle competenze primarie del Servizio sanitario nazionale stabilito dalla legge 328/2000 ne deriva, inoltre, che mentre per tutti gli oneri riguardanti i malati minorenni o giovani o adulti continuerà ad intervenire il Fondo sanitario nazionale, per le persone anziane malate e non autosufficienti viene previsto dall’art. 15 della legge 328/2000 un finanziamento specifico, da definire nell’ambito del Fondo nazionale per le politiche sociali: dunque sanità per malati giovani e adulti, assistenza per i vecchi anche se malati e colpiti dalle stesse patologie di coloro che hanno un minor numero di anni.

Certamente deve essere favorita la permanenza a domicilio dei vecchi (senza però escludere i giovani e gli adulti) malati: in questi casi sono di primaria importanza gli interventi sanitari (si vedano, ad esempio, i servizi di assistenza domiciliare integrata e di ospedalizzazione a domicilio). L’erogazione di assegni di cura, ipotizzata nella legge 328/2000, non deve sostituire le prestazioni mediche infermieristiche e riabilitative.

Da notare che, ai sensi del 4° comma dell’art. 15 della legge 328/2000 "qualora una o più Regioni non provvedano all’impegno contabile delle quote di competenza entro i termini indicati nel riparto di cui al 2° comma, il Ministro per la solidarietà sociale, di concerto con il Ministro della sanità, sentita la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997 n. 281, provvede alla rideterminazione e riassegnazione dei finanziamenti alle Regioni".

In parole semplici, se le Regioni sono inadempienti non viene nominato un commissario ad acta incaricato dell’esecuzione dei provvedimenti non assunti, ma sono revocati i finanziamenti, con le evidenti gravissime conseguenze negative per i vecchi malati!

L’art. 15 della legge 328/2000 rafforza, inoltre, l’attuale illegittima e crudele prassi in base alla quale vengono dirottati dalla sanità all’assistenza anche i vecchi colpiti da malattie psichiatriche aventi un’autonomia limitata o nulla. Si tratta di un trasferimento che è praticato da anni e che si è intensificato con la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici.

C’è però, una scappatoia al tentativo operato dalla legge 328/2000 di trasferire al settore dei servizi sociali i vecchi privi di autonomia. Infatti, l’art. 15 della legge suddetta si riferisce agli "anziani non autosufficienti" e non agli "anziani malati cronici non autosufficienti". Pertanto, per rivendicare il diritto di questi ultimi alle cure sanitarie gratuite e senza limiti di durata, comprese - occorrendo - quelle praticate in ospedale e in altre strutture sanitarie, si dovrà solamente comprovare la loro condizione di malati cronici e cioè di persone colpite da patologie invalidanti o da loro esiti (di conseguenza, l’entrata in vigore della legge 328/2000 non ha per nulla modificato gli interventi effettuati dal Csa - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti per tutelare il diritto alle cure sanitarie degli anziani malati cronici non autosufficienti).

 

Una discriminazione da Medio Evo

Mentre la legge 328/2000 attribuisce ai Comuni i compiti (discrezionali) di fornire prestazioni sociali a tutti i cittadini, è concessa alle Regioni (cfr. il 5° comma dell’art. 8) la facoltà di non affidare ai Comuni, ma alle Province o ad altri enti locali (Consorzi fra Comuni e Province o fra Province, ecc.) il compito di assistere i minori nati fuori del matrimonio, le gestanti e le madri in difficoltà, nonché "i ciechi e sordi poveri rieducabili" (così definiti dal regio decreto 383/1934).

Com’è stato osservato, si torna quasi ai tempi di S. Vincenzo de’ Paoli, quando i bambini francesi ricoverati in istituto, se nati nel matrimonio indossavano un grembiulino blu (il colore della Madonna), mentre, se erano nati fuori del matrimonio, la tinta era rossa (il coloro del diavolo).

Su questo problema, indiscutibilmente lesivo della dignità delle persone e sicuramente contrastante con la Costituzione (l’art. 2 della Costituzione è così redatto: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese), l’Anfaa, Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie, l’Ulces, Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale e altre organizzazioni hanno richiesto al Presidente della Repubblica di non promulgare il testo approvato dal Parlamento. (Il Presidente della Repubblica era stato, altresì, informato che nel testo varato dalla Camera e dal Senato veniva ignorato totalmente il 1° comma dell’art. 38 della Costituzione che recita: "Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale". Inoltre, era stato segnalata l’immorale sottrazione alla destinazione esclusiva a favore dei poveri dei patrimoni delle Ipab ed ex Ipab, il cui valore - lo ripetiamo - ammonta a 107-140 mila miliardi). La richiesta non è stata accolta, non avendovi il Capo dello Stato "ravvisato gli estremi per un rinvio" del testo al Parlamento.

Nella lettera inviata all’Anfaa e all’Ulces, il Consigliere del Presidente della Repubblica per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali ha affermato che, secondo Carlo Azeglio Ciampi "ogni ulteriore approfondimento richiederebbe, infatti, un sindacato interpretativo che non compete al Capo dello Stato, ma rientra in via esclusiva nelle attribuzioni della Corte Costituzionale".

A noi sembrava e sembra tuttora che il Presidente della Repubblica doveva rinviare alle Camere il testo perché contiene, senza alcun dubbio, norme discriminatorie nei confronti dei minori nati fuori del matrimonio.

Fra l’altro, se da una legge regionale venisse approvata una disposizione che affida gli interventi di assistenza di minori nati fuori del matrimonio ad un organismo diverso da quello incaricato di agire per i fanciulli nati nel matrimonio, gli operatori, prima di intervenire, sarebbero costretti ad accertare in tutti i casi se si tratta di un soggetto di loro competenza o le cui prestazioni devono essere fornite da un altro ente.

 

Il raggiro più preoccupante

Uno dei motivi più volte adotto dal Ministro Turco e dai relatori della Camera dei Deputati (On. Elsa Signorino) e del Senato (Sen. Giovanni Vittorio Battafarano e Lino Diana) per motivare la totale disapplicazione del 1° comma dell’art. 38 della Costituzione ("Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere") è stata l’affermazione secondo cui, per evitare discriminazioni, le prestazioni dei servizi sociali dovrebbero essere erogate a tutti i cittadini.

Si tratta di una asserzione puerile. Basti pensare alle prestazioni che - giustamente - sono assicurate solamente agli invalidi civili, ai ciechi, ai sordi e non a tutti i cittadini.

Ci sono discriminazioni, com’è ovvio, quando alle persone che hanno le stesse esigenze, vengono fornite risposte diverse per motivi estranei alla condizione di bisogno.

Per motivare il mancato rispetto del sopracitato primo comma dell’art. 38 della Costituzione, l’On. Signorino ha persino affermato che"oggi non si nasce inabili e non si è poveri una volta per tutte" L’intervento dell’On. Signorino è stato riportato nell’editoriale "Cinico no della Camera dei Deputati e del Governo al riconoscimento del diritto esigibile alle prestazioni di assistenza sociale indispensabili per le persone più deboli", Prospettive assistenziali, n. 128, gennaio-marzo 2000 (situazione che era presente a tutte le persone di buon senso da molti secoli, nonché dallo stesso Costituente).

Come è scritto fin dal 1968 su Prospettive assistenziali, abbiamo sempre sostenuto che a tutti i cittadini devono essere fornite le prestazioni concernenti la sanità, l’istruzione, i trasporti, la cultura, ecc. e che il lavoro deve essere garantito anche ai soggetti con handicap. Abbiamo inoltre precisato che solamente alle persone non in grado di inserirsi positivamente nella società beneficiando degli interventi sopra indicati (minori in situazioni di abbandono, handicappati intellettivi con limitata o nulla autonomia privi di sostegno familiare, ecc.), dovevano essere assicurati gli interventi aggiuntivi dell’assistenza sociale (affidamenti e inserimenti presso famiglie e persone, centri diurni per soggetti con menomazioni cognitive così gravi da determinare una autonomia molto limitata o nulla, comunità alloggio, ecc.).

Questi interventi, com’è evidente, non sono da predisporre per tutti i minori e per tutti gli adulti, ma esclusivamente per gli individui in grave difficoltà.

Dunque, come si possono chiamare emarginanti questi prestazioni aggiuntive? Perché l’On. Signorino afferma che, chiedendo quanto sopra esposto, si vuole uno "Stato sociale minimo"?

Il Parlamento e il Governo hanno puntato sui servizi sociali per tutti gli italiani poiché l’ambito di intervento dei servizi sociali possono essere i più svariati (da quelli indispensabili per i più deboli a quelli non necessari per gli individui che hanno i mezzi per vivere autonomamente: soggiorni di vacanza, corsi di ballo, ecc.), il Parlamento e il Governo hanno sempre sostenuto che non vi erano i finanziamenti occorrenti per sancire l’esigibilità dei diritti.

Questi diritti da noi non sono mai stati chiesti per tutti gli italiani, ma solamente per le persone più deboli, il 2-3% della popolazione. Il Parlamento e il Governo non hanno voluto modificare la loro posizione, pur senza motivarla in modo plausibile. Dunque, la legge prevede che tutto possa essere assicurato a tutti, ma nulla è obbligatorio per i più deboli.

 

Le funzioni affidate alla cooperazione: per inserire i più deboli o per emarginarli?

Un ruolo molto ampio, a nostro avviso preoccupante, è assegnato dalla legge 328/2000 al terzo settore e cioè alla cooperazione sociale.

Non solo il terzo settore partecipa "alla gestione e all’offerta dei servizi" ed è uno dei "soggetti attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi" (art. 1, comma 5), ma gli Enti locali, le Regioni e lo Stato sono tenuti a promuovere "azioni per il sostegno e la qualificazione dei soggetti operanti nel terzo settore anche attraverso politiche formative ed interventi per l’accesso agevolato al credito ed ai fondi dell’Unione europea" (art. 5, 1° comma).

Sono previste altre rilevanti agevolazioni. Infatti, ai sensi del 2° comma dell’art. 5 della legge 328/2000, gli enti pubblici sono tenuti a promuovere "il ricorso a forme di aggiudicazione o negoziali che consentano ai soggetti operanti nel terzo settore la piena espressione della propria progettualità".

È addirittura stabilito che "sulla base di un atto di indirizzo e coordinamento del Governo" le Regioni debbano adottare "specifici indirizzi per regolamentare i rapporti tra enti locali e terzo settore, con particolare riferimento ai sistemi di affidamento dei servizi alla persona" (art. 5 comma 3).

Come risulta evidente, mentre il Parlamento ed il Governo non hanno voluto dare alcuna garanzia agli utenti dei servizi sociali, hanno definito sia sul piano dei principi generali, sia con molti e precisi dettagli il campo di azione del terzo settore.

Significativa è la constatazione che gli speciali favori riservati al terzo settore non siano stati previsti per gli altri enti privati e nemmeno per le Ipab, enti pubblici senza fini di lucro, che, in base alla legge 6972/1890, offrono garanzie reali e controllabili che le organizzazioni del terzo settore non sono tenute a fornire. (Circa le possibilità, fra l’altro molto ampie, concesse dalle leggi vigenti alle Onlus di sfruttare legalmente i privilegi fiscali per attività non aventi finalità sociali, si vedano: Giuliano Tabet, "Il non profit e chi può approfittarne", Prospettive assistenziali, n. 113, gennaio-marzo 1996 e Nicola Fortunato, "È giusto che le Onlus siano agevolate senza verificare le modalità della loro offerta di beni e servizi?", Ibidem, n. 128, ottobre-dicembre 1999).

La speciale benevolenza della legge 328/2000 nei confronti del terzo settore è la conseguenza diretta dell’intesa fra il Governo e il terzo settore sottoscritta il 12 febbraio 1999.

Una delle caratteristiche salienti dell’accordo è il riconoscimento da parte del Governo del terzo settore quale soggetto politico, sociale ed economico in grado sia di "corrispondere in modo efficace alla domanda insoddisfatta di servizi di interesse collettivo e al diffuso bisogno di "beni relazionali" necessari per la convivenza civile e la coesione sociale", sia di incentivare "l’occupabilità di lavoratori svantaggiati". Pertanto se con la legge 68/1999 si è dato ampio spazio all’emarginazione lavorativa degli individui con handicap tramite la loro collocazione presso le cooperative sociali e non presso le normali aziende, adesso, con la legge 328/2000 viene "risolta" la questione dei soggetti con limitate capacità di autotutela delle proprie esigenze. In concreto, questi soggetti, se senza congiunti o altri che ne rivendichino i diritti, sono emarginati presso le cooperative sociali. Si osservi che, in base alla legge n. 381/1991, nelle cooperative sociali possono essere inserite non solo persone con handicap, ma anche individui "svantaggiati", le cui caratteristiche non sono precisate da nessuna disposizione. Gli operatori dei servizi sociali, come avviene già attualmente, hanno ampie possibilità discrezionali di inviare nelle cooperative sociali i soggetti che vogliono. Il compenso del lavoro svolto può anche essere irrisorio. D'altro lato, se l'utente reclama, rischia di essere espulso e di rimanere abbandonato a se stesso. Da notare che, in base alla legge 381/1991, presso le cooperative sociali sono inseriti non solo "gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcoolisti", ma addirittura anche "i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare" e le altre persone considerate svantaggiate, compresi coloro che hanno un rendimento lavorativo uguale o anche superiore alla media degli altri lavoratori.

Dunque, per garantire "la convivenza civile e la coesione sociale" l’intesa fra il Governo e il terzo settore, e la legge 328/2000 non puntano sulla prevenzione del bisogno e del disagio sociale, non riconoscono la necessità di una reimpostazione dei servizi fondamentali: lotta all’evasione scolastica, cure sanitarie per i malati inguaribili fornite dagli enti preposti anche per i pazienti con patologie acute, adeguamento delle pensioni minime ecc.

Mentre molti credono che le cooperative sociali siano degli angeli che aiutano i più deboli, la realtà a volte è ben diversa. Su Specchio dei tempi, rubrica de La Stampa, del 7 luglio 2000, è apparsa una lettera di Patrizia Russo, che riproduciamo integralmente, che dimostra che per le cooperative sociali sono previste dalla legge disposizioni nettamente contrastanti con i più elementari diritti dei lavoratori: "Ho lavorato presso un asilo nido privato, gestito da una cooperativa sociale: in base al regolamento interno, i soci lavoratori non hanno diritto alla retribuzione di ferie, festivi, periodi di assenza (ovvero primi tre giorni di mutua), permessi di vario genere ecc. Puntualizzo che lo stipendio viene calcolato approssimativamente, senza conteggiare i giorni e le ore effettive, su base annua con corrispettivo irrisorio. Questo è un esempio di come possono agire talvolta le cooperative sociali. Informo che per legge le suddette possono redigere il regolamento interno in base alle proprie esigenze, farlo votare dall’assemblea dei soci, diventando, così, valido a tutti gli effetti. Non importa, poi, se il contenuto non si attiene alle normali regolamentazioni di lavoro. L’Ispettorato del lavoro e i sindacati ne sono a conoscenza, ma non possono agire. Il mio intento è quello di contribuire alla salvaguardia dei lavoratori e utenti che si rivolgono alle cooperative. Consiglio di farsi consegnare subito lo statuto e il regolamento prima di iniziare un qualsiasi rapporto con le suddette".

Tre giorni dopo, sempre su Specchio dei tempi, lo sfruttamento operato da cooperative è confermato dalla seguente testimonianza: "Sono d’accordo con quanto ha scritto Patrizia Russo in quanto vivo le stesse vessazioni in qualità di socio-lavoratore e sono indignata che vengano permessi tanti abusi. Alcune cooperative "sociali" sono solo imprese mascherate da cooperative che sfruttano il lavoro a bassissimo costo e sono esenti da imposte. Dovrebbero esistere solo quelle veramente "sociali" e verificare che si comportino in modo veramente corretto. Sono alla ricerca di un altro impiego e spero che la buona sorte mi dia una mano. Mi auguro che la giustizia trionfi e che si facciano cessare tanti abusi nei confronti di gente che ha solo bisogno di lavorare".

Un’altra lettera molto significativa è stata pubblicata nelle stessa rubrica il 14 settembre 2000. Il testo è il seguente: "Una persona che conosco, e che si trova in condizioni economiche disagiate, si è trovata a fare un colloquio di lavoro con una cooperativa di servizi che fornisce personale per la sorveglianza e altro ad una serie di enti pubblici e privati. Queste le offerte: ottomila lire l’ora, niente ferie, né permessi, una quota da pagare perché lo prendevano come socio. Queste sono le regole di quasi tutte le cooperative. Ma è possibile che nessuno si accorga di questa situazione? Perché soprattutto come addetto alle pulizie devo accettare queste cose e non essere tutelato dalle leggi sul lavoro come gli altri lavoratori?".

Disastrose sono, a volte, le conseguenze per gli utenti delle strutture (comunità alloggio, centri diurni ecc.) gestite da cooperative sociali: bambini senza famiglia, adolescenti in difficoltà, handicappati intellettivi ecc. Le loro difficoltà, infatti, vengono accentuate dal continuo cambiamento degli operatori che sono alla continua ricerca di posti di lavoro più remunerativi. Soffrono per l’incessante susseguirsi di nuovi addetti e per le continue mutazioni dei programmi e dei metodi educativi.

 

Il ruolo del volontariato dei diritti

Mentre i gruppi di volontariato consolatorio hanno dato il loro benestare alle inique disposizioni della legge 328/2000, il volontariato dei diritti deve intervenire affinché la fascia più debole della popolazione subisca le minori conseguenze negative possibili dovute alla stessa legge 328/2000 ed ai provvedimenti che verranno assunti dalle Regioni, dalle Province autonome di Bolzano e Trento, nonché dai Comuni singoli o associati.

Allo scopo, su questo numero di Prospettive assistenziali (n.132 ott-dic 2000) sono pubblicati gli articoli "Proposte alle Regioni per limitare i danni della legge quadro sui servizi sociali" e "Proposta ai Comuni singoli e associati di assumere una delibera quadro sulle attività socio-assistenziali".

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