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BRUCIANTE
LETTERA DI UN
EX RICOVERATO PRESSO IL COTTOLENGO DI TORINO |
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Riportiamo integralmente la lettera di |
Dilaga, in quest’ultimo periodo, la tendenza a rivalutare il ruolo e le funzioni degli istituti privati e pubblici di Assistenza. Io cittadino portatore di handicap «cosiddetto grave», ospite per 35 anni del Cottolengo, vorrei fare alcune considerazioni. Le prime, di ordine
storico, scaturiscono dalla lettura di alcuni passi di una lettera di
Giuseppe Benedetto Cottolengo inviata da Carlo Alberto
nel 1833 per far conoscere legalmente il suo Istituto. «Da qualche tempo in qua coadunati alcuni letti di ricovero di taluni di
que’ molti miserabili, che altrimenti perirebbero abbandonati, come di
condizioni morbose non ammissibili in alcun venerando
ospedale» e poi «vari generi di persone povere altrimenti
potrebbero essere colla loro infelicità il disturbo della pubblica pace
e il peccato in seno ai sudditi» . Emerge evidente
l’intenzione di ghettizzare i più deboli in modo da eliminare la loro
presenza dal tessuto sociale e non turbare così la vita dei «cosiddetti
normali». Nei 150 anni
successivi non è stato modificato il modo di affrontare il problema,
contribuendo così a mantenere e a sviluppare nell’opinione pubblica la
tendenza a voler isolare e nascondere i «
diversi». Ovviamente la
responsabilità principale ricadono sui vari governi via via succedutesi
i quali non hanno affrontato la questione in termini di inserimento di
ogni cittadino nella vita sociale. Di fatto fino a non molti anni fa lo Stato si è limitato a lasciare a istituti privati, prevalentemente religiosi, la gestione del problema. Infatti, nel 1968 il
ministero degli interni cinicamente affermava: «L’assistenza ai bisognosi racchiude in sé un rilevante interesse
generale, in quanto i servizi
e le attività assistenziali concorrono a difendere il tessuto
sociale da elementi passivi e parassitari» Quando parlo di
mondo cattolico e di società non voglio generalizzare in quanto, in
questi ultimi anni, settori sia cattolici sia laici hanno lottato e
operato per l’inserimento attivo dei soggetti portatori di handicap nel
tessuto sociale e hanno contribuito a combattere quella parte di società
che affronta il problema in puri termini di assistenzialismo. A questo punto entro nel merito della mia esperienza. Ho 41 anni; appena nato, a causa del mio handicap e di una cultura emarginante che ha spinto mia madre, ragazza madre, a sbarazzarsi di me, sono stato rinchiuso al Cottolengo per ben 35 anni. Per moltissimo tempo
ho vissuto una vita vegetale fino al momento in cui ho preso piena
coscienza della mia condizione fisica e ho maturato, in conseguenza, una
visione politica della mia situazione. Penso che una
persona sia tale se nella sua vita, può affrontare e risolvere tutta una
serie di problematiche (affetti, amicizie, lavoro, studio) e di piccole
scelte (decidere se andare in vacanza al mare od in montagna, se andare
al cinema o fare politica). In istituto tutto ciò non era possibile. L’ideologia che ci
veniva inculcata era quello secondo la quale noi dovevamo espiare i
peccati altrui e quindi il nostro unico compito era quello di pregare
per meritare il paradiso. Quando uno di noi prendeva coscienza politica
della propria condizione e cercava soluzioni diverse veniva confinato in
un reparto di Nella grande maggioranza dei casi il nostro handicap e stato determinato da mancanza di prevenzione o da responsabilità ben precise (ad esempio l’uso dei "talidomide") e non certo per causa divinea. Il farci credere che noi rappresentiamo un disegno di Dio significa uccidere la nostra capacità di ragionare sulla condizione in cui viviamo. Conseguenza dei lunghi anni «prigione» di isolamento e di condizionamenti psicologici è che molti di noi temono il mondo reale e quindi hanno paura a cercare di inserirsi nel tessuto sociale. Secondo una cultura
dominante, io rappresento un soggetto che non può avere relazioni
sociali come tutti ma deve vivere assistito. Al contrario, ormai da sei
anni, vivo in un alloggio affrontando automaticamente i problemi di
tutte le persone. Ho anche costruito rapporti sociali e affettivi come
qualsiasi persona «cosiddetta normale»
pur tenendo conto della mia diversità fisica. La mia crescita
sarebbe risultata impossibile se avessi continuato a vivere in un
istituto protetto. Ora, oltre a sentirmi vivo e attivo, credo di contribuire alla crescita della società portando la mia esperienza e lottando per l’inserimento delle persone handicappate, e più in generale, contro la ghettizzazione di tutte le categoria emarginate e indifese. |
Per approfondimenti: "Anni senza vita al Cottolengo" |